
Quale nuova concezione dell’humanitas si rinviene nelle opere di Marsilio Ficino?
In una bella lettera a Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici, Marsilio Ficino paragona l’humanitas alla dea Venere, assimilando la sua anima e le parti del suo corpo ad altrettante virtù. L’idea di “umanità”, pertanto, viene personificata in una «ninfa dal corpo bellissimo, di origine celeste» le cui membra e forme temperate diventano emblema dell’equilibrio delle virtutes. In tal modo, il filosofo vuole sottolineare la natura divina dell’humanitas, che viene dall’alto e non dalla terra come, invece, riteneva (e ritiene ancora) quella lunga tradizione che si riferisce alla radice etimologica del termine (dal latino humus). Con questa allegoria, Ficino vuole affermare che l’humanitas è sempre una conquista dell’uomo e mai un suo attributo essenziale. Come ci insegna nell’epistola De humanitate, ad esempio, «Nerone non fu uomo […] ma un mostro con pelle simile all’uomo», perché se egli fosse stato realmente uomo – continua il filosofo – «avrebbe amato gli uomini come membra di uno stesso corpo». In definitiva, «i singoli uomini sotto una idea e nella stessa specie sono un unico uomo (sunt unus homo)». Per questa ragione, gli esseri umani possono definirsi realmente tali solo se partecipano dell’unica idea di humanitas. Eppure, anche il conseguimento della piena “umanità” sarà soltanto una tappa intermedia, certamente necessaria ma pur sempre incompiuta, dell’itinerario di deificatio, vale a dire la “divinizzazione dell’uomo”, che rappresenta la vera meta, il “porto” sicuro della faticosa navigazione dell’homo viator. Tuttavia, Ficino reputa questo passaggio così indispensabile da dedicare ben cinque lettere «al genere umano», in cui sente l’esigenza di esortare i suoi lettori “distratti” verso la realizzazione del loro fine supremo: poiché l’humanitas non è una virtù data una volta per tutte ma, anzi, deve essere costantemente riconquistata, Marsilio richiama tutti gli uomini al loro autentico ruolo nell’ambito dell’ordine cosmico. Insomma, l’“umanità” nell’uomo va ripetutamente promossa e coltivata dal momento che l’individuo non è determinato dall’appartenenza al genere ma, in quanto libero, può scegliere di allontanarsene. Nell’esercizio di questa virtù, allora, l’uomo si scopre veramente “amico” dei suoi simili, realizzando quell’unità che eccede la filantropia. L’amore, inteso come charitas, infatti, poiché rappresenta proprio l’anima di Venere-humanitas, riceve una particolare attenzione da parte del filosofo fiorentino. Sfogliando il ricco Epistolario ficiniano, l’opera che più di tutte mostra l’urgenza di quella trasformazione dell’essere umano che il filosofo riteneva come massima aspirazione del rinnovamento generale dei saperi affidatogli dalla provvidenza divina, non è raro trovare lodi dell’amicizia (il cui fondamento è l’amore): essa è la sola legge che permette agli uomini di vivere beate, ma diventa anche l’unico requisito che consente di distinguerli dai bruti. Chi possiede la virtù dell’humanitas – conclude Ficino – ama e cura tutti gli uomini come se fossero fratelli nati da un solo padre. Attraverso l’amicizia reciproca, infatti, non soltanto ci si conforma, per così dire, al “modello ideale” di uomo, ma si diventa partecipi di una sola volontà comune ai singoli individui.
In che modo il filosofo rinascimentale contribuì al dibattito sul posto proprio dell’uomo nell’universo creato?
Per Ficino, parlare dell’uomo vuol sempre dire discutere della sua anima dal momento che, come ribadisce in molteplici occasioni, «homo est animus». Pertanto, nella sua riflessione, l’antropologia è strettamente legata alla psicologia. Nella celebre teoria dei «cinque gradi di tutte le cose» che leggiamo nella Theologia Platonica, com’è noto, l’anima occupa il posto centrale tra le realtà superiori (Dio e l’angelo) e quelle inferiori (la qualità e il corpo), poiché è copula mundi. Essa è paragonata al dio Giano bifronte in quanto è l’unica e sola realtà che partecipa contestualmente dell’eterno e del mutevole, dell’immortale e del mortale; essa, con la sua parte superiore, è nel “regno di Saturno” e può conoscere le cose eterne e immutabili, mentre, la sua parte inferiore, immersa nel “dominio di Giove”, è sottoposta alla vicissitudine e al fato. Ne risulta che l’anima umana è costantemente lacerata da due “amori”, uno per il corpo e l’altro per Dio, dai quali deriva la sua inquietudine. Ficino, allora, proprio a causa del suo peculiare status ontologico di “terza essenza” o “essenza media”, le affida una sorta di “missione cosmica” a partire dal riconoscimento della sua necessaria “caduta” nel corpo affinché quest’ultimo si elevasse al divino. Detto in altri termini, l’anima umana ha il compito di ripristinare al suo stato originario (di natura spirituale) non soltanto il corpo che regge, ma persino l’intero corpo del mondo. Essa, infatti, per così dire, restituisce l’eternità alle forme cadute nel tempo per mezzo di un articolato processo gnoseologico. È questa la ragione per la quale la teoria della conoscenza (che rappresenta uno dei temi più complessi della filosofia ficiniana) si intreccia profondamente al discorso sulla natura dell’uomo e della sua anima. Il processo conoscitivo è, infatti, la strada privilegiata per l’“assimilazione al divino”, che costituisce la perfectio dell’uomo sia per i platonici che per i cristiani, tra i quali – secondo Ficino – vi è una sostanziale concordia in base alla famosa teoria della prisca theologia o pia philosophia. Il filosofo, poi, si fa interprete anche della vexata quaestio di origine scolastica sulla preminenza dell’intelletto o della volontà nel conseguimento del sommo Bene, alla quale offre talvolta soluzioni apparentemente contraddittorie che, in realtà, mostrano come, nella filosofia umanistica, non sia più possibile ragionare con le rigide categorie di “intellettualismo” e “volontarismo”. Anzi, egli sembra proporre un’innovativa visione delle facoltà dell’anima: data la natura instabile, sostanzialmente inquieta dell’essere umano, esse diventano per così dire “fluide”, fondendosi nell’unitaria sostanza del principio psichico. È emblematico il caso dell’intellectus che se, da una parte, è elevato al rango di “restauratore” dell’esistente quando sublima gli enti materiali collocandoli al superiore livello ontologico dell’universale e del necessario, dall’altra, invece, è condannato allo scacco ogniqualvolta tenta di “abbassare” la realtà divina al suo livello. Infatti, l’uomo che si abbandona esclusivamente alla ricerca intellettuale è tormentato dalla sua stessa indagine; non a caso Ficino qui richiama le figure mitologiche di Prometeo, Sisifo e Tantalo. La “nobilitazione” dell’uomo si fonda, dunque, sulla centralità dell’anima nell’antropologia ficiniana che si ispira, da un lato, all’idea di uomo sviluppata dai Padri della Chiesa mentre, dall’altro, prelude all’esaltazione umana tipica dell’età moderna. Il filosofo, in alcuni passi, sembra celebrare in maniera persino più efficace di Giovanni Pico della Mirandola le doti camaleontiche dell’uomo; la dignitas di quest’ultimo, infatti, è commisurata al grado di perfezione della realtà alla quale si assimila mediante l’amore e la conoscenza, rispettivamente gli “strumenti” della vita activa e della vita contemplativa, che rappresentano le due ali per il “ritorno” alla patria divina. L’intera speculazione di Ficino realizza, dunque, una copula tra la prima filosofia cristiana e il pensiero umanistico consegnando al Rinascimento maturo un’inedita visione del posto dell’uomo nel cosmo.
Roberto Melisi (Benevento, 1989), Dottore di ricerca in Filosofia, scienze e cultura dell’età tardo-antica, medievale e umanistica presso l’Università di Salerno, è Professore di ruolo di Filosofia e Storia nei Licei. Studioso del pensiero medievale e rinascimentale, nonché di teoria della musica, collabora con la Cattedra di Storia della filosofia medievale presso l’Università di Napoli Federico II. Membro della Società Italiana per lo Studio del Pensiero Medievale e della Società Filosofica Italiana, ha pubblicato numerosi saggi, tra cui il volume Divinizzazione dell’umano e pathos conoscitivo nelle lettere di Ficino (Milano-Udine, 2020).