
Quali erano le fonti ebraiche note al Mirandolano?
In grande misura questa caratteristica della speculazione pichiana, estremamente fertile anche in numerosi altri settori, è determinata dall’interesse del mondo umanistico (soprattutto fiorentino) per tutta una serie di testi ascrivibili a grandi linee al platonismo tardo-antico e alle sue elaborazioni successive. La conoscenza di tali fonti permise agli studiosi di allontanarsi, almeno in parte, dal sistema di pensiero scolastico dei secoli precedenti. Animati da intenti ora ideologici – il mito di una repubblica dei sapienti – ora dalla riscoperta dell’eredità greco-bizantina e dalla translatio scientiae che avvenne ad opera degli intellettuali in fuga da Costantinopoli, gli umanisti italiani quattrocenteschi si dimostrarono pronti a qualsiasi sacrificio pur di procurarsi fonti diverse da quelle rese autorevoli dalla tradizione. L’analisi dei testi pichiani rivela la determinazione del giovane intellettuale nel perseguire con ogni mezzo e ad ogni costo lo studio di materiali del pensiero giudaico fin allora in massima parte ignoti alla cristianità. Godendo di una discreta fortuna materiale, il nobile mirandolano poté allestire una ricchissima biblioteca che fu certamente alla base della formulazione della sua ‘‘dottrina’’. Essa appare enunciata nella sua forma più completa nell’Oratio. Il discorso che avrebbe dovuto accompagnare la discussione romana delle novecento tesi (Conclusiones) su ogni forma di sapere umano – un intento troppo ambizioso per un giovane poco più che ventenne – si incentra sulla concezione che la mente dell’uomo è in grado, se opportunamente guidata, di innalzarsi alle vette più alte della contemplazione, tanto da raggiungere il livello degli angeli e di Dio. È nell’Oratio, così come nella scelta del materiale a fondamento delle Conclusiones, che si manifesta chiaramente la volontà di servirsi non solo delle fonti classiche della tradizione occidentale ma anche di quelle orientali, in parte già rimesse in luce dalla cerchia intellettuale ruotante intorno all’ambiente mediceo fiorentino e soprattutto a Marsilio Ficino (1433-1499). In realtà, già nel Commento alla canzona d’amore di Girolamo Benivieni (1486), Pico dette avvio all’integrazione di materiali cabbalistici ebraici nel contesto di una nuova interpretazione delle Scritture. Si trattava di un’analisi non rivolta a pochi studiosi ecclesiastici ma ad ogni cristiano dotato di senso critico e interessato ad approfondire il testo sacro. Il giovane conte aveva pienamente compreso la lezione dei suoi maestri ebrei che, istruendolo sull’esegesi biblica maimonidea confortata da quella cabbalistica, non fecero altro che rassicurarlo della correttezza della sua interpretazione. Ma i seguaci di Pico alterarono questa primitiva ermeneutica e, riallacciandosi indipendentemente ad altre vie della cabbalà ebraica che nel frattempo venivano rese accessibili grazie alla stampa, crearono una disciplina indipendente dalle fonti e che si sosteneva tuttavia sull’assunto, proprio della cabbalà ebraica, che tutto deriva dalla tradizione e che l’interprete non aggiunge niente di nuovo al corpus testuale ricevuto. In realtà il “vero” Pico lesse, soprattutto grazie ai suoi collaboratori, un’amplissima serie di trattati cabbalistici ebraici. Le recenti ricerche mostrano, comunque, come varie opere che si credevano tradotte per la prima volta in lingue europee grazie all’intervento di Pico, già circolassero negli ambienti umanistici toscani prima dell’intervento del Mirandolano.
Quale fu il ruolo effettivo dei suoi collaboratori e l’effettiva competenza cabbalistica pichiana?
È certo che, come e più che in altri settori della ricerca pichiana, la collaborazione di sapienti ebrei fu non solo necessaria al conseguimento dei fini intellettuali dell’umanista ma spesso si rivelò determinante nei suoi orientamenti dottrinali. Come avevano già osservato i moderni studiosi del pensiero del Mirandolano, non è possibile cogliere il senso della sua ricerca senza conoscere in profondità i personaggi di cui egli si circondò nella sua breve esistenza. Se il primo intellettuale ebreo che certamente collaborò lungamente con Pico, Eliyyahu Del Medigo (1458-1493), fu strumentale alla conoscenza di un certo averroismo ebraico che si andava riscoprendo in quegli anni soprattutto nell’ambiente veneto, Flavio Mitridate, alias Raimondo Moncada, convertito siciliano (1445-ca. 1489), fu il principale mediatore dei testi cabbalistici. Numerosissime le sue traduzioni, ancor oggi conservate in alcuni manoscritti che appartennero a Pico. Altri convertiti e esuli siciliani o iberici potrebbero aver fornito ulteriori materiali di studio al conte della Mirandola. Più incerto il ruolo del suo collaboratore Yohanan Alemanno (ca. 1435-ca. 1506), che certamente operò nel senso della ricerca pichiana, senza intervenire nelle interpretazioni testuali come Mitridate, e che mise sullo stesso livello gli interessi del suo interlocutore e gli orizzonti dottrinali tipici di un intellettuale ebreo della sua generazione. Se Alemanno fu sensibile al platonismo ficiniano della Firenze medicea del secondo Quattrocento, Mitridate giocò la carta della lettura cristologica dei testi ebraici per convincere il conte della correttezza del suo percorso di studi. Come dimostrano anche le ricerche più recenti, gran parte delle formulazioni dottrinali dell’umanista mirandolano sono calcate sugli insegnamenti del convertito siciliano, che forse dovrebbe essere riconosciuto co-fondatore della cabala cristiana insieme al suo committente.
Quali sono stati la ricezione della cabbalà pichiana e i travisamenti del suo pensiero in età contemporanea?
Non si può fare a meno di restare sorpresi dalla straordinaria fortuna di cui godettero le Conclusiones pichiane per tutto il Cinquecento. Se tutte le novecento Tesi conobbero una vastissima circolazione e furono oggetto di commento da parte di una nutrita serie di interpreti, un ruolo precipuo ebbero le due serie dedicate alla dottrina ebraica: già Johannes Reuchlin (1455-1522) le aveva tenute presenti nella sua indagine sull’essenza della cabbalà; furono in particolare le Conclusiones cabbalistiche e magiche ad essere accolte in una specie di catena della tradizione, cabbalistica in senso etimologico: da Reuchlin a Paolo Ricci (1480-1541), ad Agostino Giustiniani (1470-1536), a Egidio da Viterbo (1469-1532), a Pietro Galatino (1460-1530), a Francesco Zorzi (1466-1540) e Arcangelo da Borgonovo (morto verso il 1569). La disputa avviata da Pico sulla cabbalà, ritenuta necessaria per la corretta interpretazione delle Scritture, proseguì lungamente tra i sostenitori e i detrattori della disciplina. Ad esempio, sulla base della riflessione che Pico aveva sviluppato nell’Heptaplus, Sisto da Siena (1520-1589), nella sua Bibliotheca sancta propose una specie di «allegoria sincretica» in cui idee e motivi cabbalistici si stemperano in un nuovo sistema concettuale, che perde di vista i fondamenti ebraici.
Il pensiero positivista non guardò con favore all’entusiasmo del Mirandolano per dottrine poco razionali e gli aspetti più esoterici dell’opera pichiana furono tenuti in scarsa considerazione dagli studiosi che, tra ‘800 e ‘900, proposero nuove letture del suo pensiero. Certo per la mancanza di adeguate competenze linguistiche, ancora nel 1963, all’epoca del convegno organizzato a Mirandola per celebrare il cinquecentenario della nascita di Pico, Eugenio Garin, uno dei più autorevoli ricercatori della sua opera e speculazione, osservava che la storia della fortuna dell’umanista era ancora ai suoi inizi. Lo stesso Garin, peraltro, invitò più volte le nuove generazioni di studiosi ad occuparsi dell’umanista secondo nuove prospettive e con una maggiore competenza delle lingue da lui studiate. Negli ultimi venti anni si è assistito a un vero e proprio profluvio di ricerche sulla cabala cristiana e sul suo vero o presunto fondatore. Per fare il punto della situazione, il Centro Internazionale di Studi Pichiani di Mirandola ha organizzato nel dicembre del 2007 un convegno internazionale su «Giovanni Pico e la Cabbalà». Il volume da me curato raccoglie la maggior parte delle relazioni tenute a MIrandola da esperti provenienti da ogni parte del mondo, non solo sull’apporto del conte al pensiero cristiano delle generazioni successive, sul suo ruolo nella diffusione della cabbalà ebraica e nella creazione di una mistica cabbalistica cristiana, ma soprattutto sul suo uso delle fonti giudaiche, sull’effettiva consapevolezza dei materiali e sull’influsso dei dotti ebrei di cui si circondò. Gli umanisti erano perfettamente consapevoli che il termine ebraico qabbalà (letteralmente: ‘‘tradizione’’/‘‘ricezione’’) può essere riferito a qualsiasi prodotto della speculazione e della riflessione teologica trasmesso di generazione in generazione, quindi anche alla letteratura rabbinica. Se oggi, per influenza del positivismo, tendiamo ancora a distinguere discipline dotate di valore scientifico da ‘‘pseudo-scienze’’, non così accadeva nell’età medievale e nella prima età moderna. Altrettanto può dirsi della questione della definizione di non una ma varie dottrine esoteriche ebraiche diffuse nella nostra penisola, che nel Quattrocento fu crogiuolo delle più diverse interpretazioni prodotte da scuole di mistici ebrei medievali. La biunivocità nell’affrontare il rapporto con la tradizione (gli ebrei usano le concezioni umanistiche per leggere diversamente le loro discipline e i cristiani usano le metodologie ermeneutiche giudaiche per confortare le proprie interpretazioni storico-filologiche) dette avvio a nuovi orientamenti che produssero un’incredibile messe di studi filologici, frutto dell’intensa collaborazione ebraico-cristiana. Così, da un lato i cristiani adattarono alla loro speculazione la cabbalà ebraica e gli ebrei la trasformarono da fenomeno esclusivo di un’élite rabbinica in movimento speculativo universalistico. Da un lato, ebrei e cristiani favorirono la pubblicazione della mole di materiali ‘‘esoterici’’ fin allora trasmessi solo all’interno delle accademie: testi rabbinici e cabbalistici vennero affidati alla stampa delle numerose tipografie, attive tra XV e XVI secolo nella penisola italiana. Dall’altro lato, proprio quando tali scritti divennero di pubblico dominio, la chiesa condannò il Talmud al rogo, dando inizio a un complesso programma di censura delle fonti sospette. Talora gli intellettuali ebrei fautori della stampa chiusero le porte ai cristiani desiderosi di apprendere le loro dottrine, tal altra intellettuali cristiani contrari alla diffusione del Talmud difesero l’autorevolezza della cabbalà, pur considerandola parte integrante dell’eredità del pensiero ebraico rabbinico. Tra gli intenti del convegno, prioritario è stato quello di circoscrivere l’immagine intellettuale di Pico rapportando lo studioso ai suoi tempi, svincolando la sua produzione dall’agiografia di matrice moderna e in particolare dalla lettura delle sue opere – in primis l’Oratio e le Conclusiones nel contesto del risveglio nazionale (o nazionalista) italiano risorgimentale, postunitario e fascista.