“La repubblica delle emozioni. Retorica e comunicazione politica nella Venezia rinascimentale” di Luigi Robuschi

Prof. Luigi Robuschi, Lei è autore del libro La repubblica delle emozioni. Retorica e comunicazione politica nella Venezia rinascimentale, edito da Mimesis: che rilevanza assunse, nella comunicazione politica cinquecentesca, la retorica epidittica di origine sofista?
La repubblica delle emozioni. Retorica e comunicazione politica nella Venezia rinascimentale, Luigi RobuschiAnzitutto bisogna capire bene i termini della discussione, in particolare dopo che Filippo de Vivo ha pubblicato nel 2012 un fondamentale contributo sulla comunicazione politica veneziana. Mentre de Vivo definisce la comunicazione politica in senso lato come «circolazione a stampa, penna o voce di informazioni riguardanti istituzioni e avvenimenti politici in patria e all’estero», nel mio libro mi rifaccio a quanto contenuto nel Dictionary of Media and Communication della Oxford University Press, che amplia il concetto. La comunicazione politica, pertanto, è concepita come produzione e impatto di «persuasive political messages, campaigns and advertising, primarily in the mass media». Naturalmente, nell’antichità i così detti mass media erano assai diversi da quelli attuali. Per elaborare un’efficace comunicazione politica era necessario investire in opere di auto-promozione politica e culturale. L’obiettivo era quello di costruire una reputazione, una narrativa di sé in grado di generare un ampio consenso sia all’interno, sia all’esterno dei confini dello Stato.

Per essere efficace, la reputazione doveva rispondere ad alcuni requisiti: anzitutto doveva “sembrare” stabile e imperturbabile, ma anche in grado di adattarsi a momenti di crisi come sconfitte militari o tensioni interne. Infine, doveva essere persuasiva, facendo leva sulla specifica identità di una comunità politica.

L’alternanza di stabilità e d’instabilità che caratterizza la reputazione si riflette sulla comunicazione politica e sui messaggi da essa trasmessi.

Tale funzione è esplicata dal discorso epidittico di origine sofista, che è stato oggetto di fondamentali studi da parte di Barbara Cassin e di Laurent Pernot. Quest’ultimo studioso ha dimostrato come il discorso epidittico inventato dai sofisti utilizzasse l’elogio per definire l’identità, l’immaginario istituzionale di un popolo. Inoltre, qualora fosse necessario, la retorica epidittica si rivelava fondamentale per modificare la reputazione in base alle circostanze, fornendo al potere politico armi affilatissime per mantenere il consenso. La tradizione sofista, nata in Grecia e diffusasi poi a Roma, venne ripresa in Italia attraverso i contatti culturali con l’eredità culturale bizantina. Se pure la prime città ad apprezzare e a utilizzare largamente le potenzialità del discorso epidittico di origine sofista furono Firenze e Roma, anche Venezia, dopo essere riuscita faticosamente a respingere l’attacco della Lega di Cambrai, si risolse a far ampio uso del bagaglio epidittico per ricompattare il consenso interno e adeguare la propria reputazione, anzi il “mito”, alla nuova situazione geopolitica creatasi in Italia e in Europa dopo il 1530.

Quali accorgimenti, all’interno delle realizzazioni architettoniche e artistiche realizzate a Venezia a partire dalla prima metà del Cinquecento, erano finalizzati a suscitare la meraviglia?
La meraviglia è una potente emozione, da sempre utilizzata per inviare precisi messaggi politici e per strutturare efficaci strategie di comunicazione politica. Si pensi, per esempio, al Partenone e all’Odeon di Atene fatti erigere da Pericle o all’abbellimento di Roma iniziato da Augusto e proseguito dai suoi successori. La magnificenza architettonica raggiunta da Roma la fece l’archetipo stesso del potere. La sua maestosa monumentalità destava la meraviglia e convinceva lo spettatore della “verità” di quanto vedeva, ovvero che la potenza di Roma era tale quale quella mostrata nei suoi monumenti. Le opere pubbliche rappresentavano la forma più alta del momento “stabile” della reputazione, ovvero quando era possibile stabilizzare la memoria collettiva attraverso una narrazione immutabile ed eterna come la pietra che componeva tali monumenti.

Quando, però, subentrava il momento di crisi e di conflitto, diveniva necessario aggiornare la reputazione dello Stato. In tal senso, le opere architettoniche progettate da Jacopo Sansovino che, come ha dimostrato Manfredo Tafuri, trasformarono Piazza San Marco in un “foro romano” consentirono di risemantizzare il mito di Venezia attraverso la meraviglia. Anche in questo caso la retorica ebbe un ruolo fondamentale. La progressione degli ordini architettonici (rustico e dorico la Zecca, dorico e ionico la Libreria, corinzio e composito la Loggetta) creava una climax, una figura retorica il cui obiettivo è di generare una progressione emozionale. La meraviglia ispirata da questa climax, termine greco indicante la scala, si chiudeva con una scala vera e propria: la così detta “Scala dei Giganti”, che prendeva il nome dalle statue, pure opera del Sansovino, rappresentanti Marte e Nettuno, numi tutelari e simboli del dominio veneziano in terra e in mare.

In che modo Venezia si dimostrò maestra nell’utilizzare le proprie competenze tecniche al fine di realizzare psy-ops di straordinaria efficacia?
In inglese, meraviglia si traduce con awe, mentre un eccesso di meraviglia si traduce in overawe. Il primo termine ha un’accezione positiva, mentre il secondo negativa. L’eccesso di meraviglia produce sgomento, paura. Se Venezia usò la meraviglia, esibita attraverso i media del tempo, per trasmettere un messaggio positivo, teso a persuadere chiunque la visitasse della verità del suo mito, in modo speculare il patriziato sfruttò al meglio le abilità tecniche affinate in secoli di esperienza per creare psy-ops in grado di imporre una pressione psicologica sui possibili avversari, dissuadendoli dal minacciare la Serenissima e i suoi domini. L’obiettivo a cui mirava tale comunicazione politica fu la deterrenza e fu ottenuto attraverso un messaggio molto chiaro: Venezia poteva rendere possibile l’impossibile. Poteva, per esempio, trasportare navi armate ed equipaggiate di tutto punto via terra e persino far loro superare monti, come era avvenuto nel 1439, oppure era in grado di realizzare nuove e potenti unità navali, come le galeazze, che si rivelarono risolutive a Lepanto nel 1571. La precisione della tecnica fortificatoria, spesso aumentata dalla decorazione delle porte urbiche, aveva permesso a Venezia di circondarsi di una catena di bastioni rappresentati dalle maggiori città della Terraferma realizzando quella renovatio securitatis impostata dal doge Gritti. Non c’è dubbio, tuttavia, che il massimo grado di deterrenza venne raggiunto attraverso la precisa organizzazione dell’Arsenale, che prevedeva il pre-stoccaggio del materiale necessario a costruire in brevissimo tempo una flotta di riserva di cento galere. Nel 1566, di fronte al pericolo di un attacco turco nel Mediterraneo, l’Arsenale fu in grado di varare in pochi giorni uno straordinario numero di galere. La notizia, come ricorda lo storico Marcantonio Giustinian, giunse rapidamente alle orecchie dei turchi, che prudentemente abbandonarono qualunque intenzione ostile. Come riferisce lo stesso Giustinian, tutto il mondo sa «che la grandezza dell’armata, la prestezza dell’armare, e l’apparecchio di tutte le cose fu maraviglioso».

Quali caratteristiche permisero al patriziato veneziano di ideare e portare avanti con determinazione le linee strategiche dettate da Gritti?
L’educazione retorica venne sempre molto curata dal patriziato, il quale era continuamente impegnato in consigli e assemblee nelle quali si decidevano le azioni della Repubblica. Tuttavia, la retorica era importante anche nella pratica mercantile, per poter instaurare proficue relazioni commerciali con uomini d’affari stranieri i quali, spesso, potevano facilitare le relazioni diplomatiche con gli Stati da cui provenivano. La porosità tra commercio, politica e diplomazia fu sempre molto chiara nella mentalità patrizia, come la figura di Andrea Gritti sottolinea chiaramente. Egli, certamente degno erede della tradizione veneziana, basata sull’esperienza e l’empirismo, ma anche conscio del lascito culturale classico che, tramite Bisanzio, aveva insegnato le sottili arti della persuasione epidittica, fu in grado di acquisire un ruolo fondamentale non solo all’interno del patriziato, ma persino di ritagliarsi una posizione fondamentale in Europa e nel Mediterraneo. Tuttavia, malgrado il contributo fondamentale da lui apportato alla riabilitazione della reputazione interna ed estera di Venezia, Gritti non era amato. Il suo eccessivo protagonismo, infatti, era contrario al mito che il patriziato si era costruito, fondato su una totale eguaglianza e ispirato a un’aurea mediocritas. Non si era adeguato insomma al codice patrizio, ben riassunto da Botero, il quale aveva sostenuto che «quanto uno è più gran nella Republica, tanto più conviene ch’egli sia cauto, e guardingo». Il patrizio, dunque, era costretto a indossare una maschera, a dissimulare e a simulare continuamente, sforzandosi di adeguarsi all’eguaglianza formale che caratterizzava l’intero corpo patrizio. Una simulazione tanto più necessaria quanto più la distanza sociale e finanziaria tra varie componenti del patriziato diventava evidente. Il tentativo dell’élite veneziana di auto-rappresentarsi come perfetta e immutabile, in linea cioè con il proprio mito e la reputazione da lei costruita, non si basava sull’esibizione di una virtù stoica, ma sulla paura. La paura che un comportamento arrogante potesse danneggiare non solo la carriera politica del singolo patrizio, ma potesse anche avere ricadute sulla sua famiglia e pure sul clan di casate a cui era affiliato per interesse e/o per nascita, imponeva un continuo controllo delle emozioni. Il patriziato, dunque, attraverso il mito della concordia sociale, era stato in grado di sostituire alla violenza fisica una violenza psicologica. Le tensioni all’interno della classe dirigente si scaricavano prevalentemente nei dibattiti e nelle votazioni delle aule del Maggior Consiglio e del Senato. Erano questi gli ambiti in cui rivalità e antipatie venivano a galla, decretando l’elezione o la bocciatura di questo o di quel candidato. La carriera politica di Gian Matteo Bembo, riottoso a sottomettersi a tal codice malgrado i consigli del cardinale Pietro Bembo, è emblematica di un ambiente caratterizzato da dinamiche “sofistiche” in cui la finzione diveniva realtà. Se, da un lato, l’educazione e l’identità del patriziato veneziano spiegano l’abilità con cui esso costruì una persuasiva campagna di comunicazione politica, dall’altro esse imposero agli appartenenti dell’élite veneziana di adeguarsi al mito che essa stessa aveva prodotto. Prigioniero di una finzione, di una narrazione resa persuasiva dall’utilizzo del discorso epidittico, il patriziato veneziano cercò di creare emozioni negli altri, negandole a se stesso. Se pure esso fu in grado di trasformare Venezia in un’utopia, ovvero una sottocategoria del genere epidittico che propone – giusta l’interpretazione di Emmanuelle Danblon – un mondo «possibile e desiderabile, anche se sappiamo che questo mondo non sarà mai realizzato», il patriziato si trovò vittima della stessa idea di perfezione da esso creata. Cercando di auto-persuadersi del mito che usava per persuadere gli altri, esso finì per non poter reggere il confronto. I patrizi, in fin dei conti, erano pur sempre uomini.

Luigi Robuschi è Senior Lecturer in Italian Studies presso la University of the Witwatersrand di Johannesburg

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