“Populismo in Rete. Un’analisi della comunicazione dei politici italiani” di Fedra Negri, Andrea Ceron e Silvia Decadri

Prof.ssa Fedra Negri, Lei è autrice con Andrea Ceron e Silvia Decadri del libro Populismo in Rete. Un’analisi della comunicazione dei politici italiani, edito da Carocci: quali falsi miti sul populismo sfata il Vostro studio?
Populismo in Rete. Un’analisi della comunicazione dei politici italiani, Fedra Negri, Andrea Ceron, Silvia DecadriPer rispondere a questa domanda, è importante precisare a quale definizione di “populismo” aderiamo nel nostro libro. Il populismo è da noi inteso come stile comunicativo al quale partiti e politici scelgono di ricorrere in modo strategico, in base ai vincoli e alle opportunità del momento. Lo stile comunicativo populista è dato da tre componenti: (1) la centralità del popolo e (2) l’antielitismo, che costituiscono i due poli dell’opposizione manichea tra il popolo virtuoso e l’élite corrotta; e (3) la volontà generale, che rimanda alla dimensione programmatica del populismo, cioè il ripristino dell’autorità popolare.

Fatta questa premessa, è facile riscontare come la parola “populismo” sia usata spesso a sproposito nel dibattito pubblico. Nelle conclusioni del nostro libro, ci prediamo quindi la briga di sfatare “Le 10 bugie che ti hanno detto sul populismo” alla luce dei risultati delle analisi empiriche da noi condotte. Per non “spoilerare” troppo — come dicono i giovani —, ve ne anticipo due nelle quali è facile inciampare.

La prima: il populismo non è una dummy. Con questa espressione vogliamo sottolineare come il pensare in bianco e nero — il dividere il mondo nel popolo onesto oppresso dalle élite egoiste e corrotte — sia l’arma retorica del populismo. Al contrario, per studiare il populismo servono tutte le sfumature: nel gergo statistico, dobbiamo evitare le variabili dicotomiche — dummy in inglese — e preferire quelle continue. Dobbiamo quindi smettere di etichettare ex ante, in modo netto e statico, attori collettivi come la Lega o il M5S come populisti perché questa logica binaria ci fa perdere informazioni. È molto più informativo misurare la loro propensione a fare ricorso allo stile comunicativo populista e compararla con quella dei partiti loro competitors. Come mostriamo nel libro, benché i partiti che si sono guadagnati nel tempo — o che hanno rivendicato con orgoglio — l’appellativo di populisti tendano in media a fare ricorso a questo stile comunicativo più degli altri, non sono immuni nemmeno soggetti politici che hanno fatto del loro dirsi “anti-populisti” un forte tratto identitario.

La seconda: il populismo non è appannaggio della destra e bisogna fare molta attenzione a non confondere l’essere populisti con l’essere di destra sul piano economico e/o culturale. In questo, la prospettiva teorica da noi adottata, che distingue in modo netto retorica e posizioni ideologiche, ci è d’aiuto. Per essere chiari, se un politico critica fortemente le istituzioni europee e sostiene che l’Italia debba riappropriarsi del potere decisionale in settori ora di competenza esclusiva dell’Unione o concorrente, non vuol dire che sia populista, vuol dire che è fortemente euroscettico o sovranista. Allo stesso modo, se un politico sostiene che il sistema sanitario nazionale debba essere riformato per garantire piene tutele ai soli cittadini italiani, limitandosi a fornire prima assistenza ai cittadini immigrati, non vuol dire che sia populista, vuol dire che è nativista. Ancora, se un politico entra in aperto conflitto con le associazioni LGBTQI+, non vuol dire che sia populista, vuol dire che è tradizionalista. Insomma, ricominciamo a chiamare le cose col loro nome.

Come parlano i politici online?
Grazie all’aiuto di un team di informatici dell’Università degli Studi Milano coordinato dal Prof. Paolo Ceravolo, abbiamo costruito un nuovo dataset — il POPULITE Dataset — che raccoglie i testi di tutti i tweet pubblicati da leader e segretari di partito, deputati e senatori, ministri, viceministri e presidenti di regione dal 1° gennaio 2020 al 18 aprile 2022, corredati da informazioni demografiche. Complessivamente, il POPULITE Dataset contiene più di 390.000 tweet, pubblicati da un totale di 730 politici. Li abbiamo analizzati attraverso tecniche computazionali. Tecniche di sentiment analysis e dictionary analysis ci hanno permesso di misurare, in modo trasparente e replicabile, in che misura e in quali momenti, politici appartenenti a diversi partiti abbiano fatto ricorso allo stile comunicativo populista. In linea con la definizione di populismo come strategia comunicativa, abbiamo colto la capacità dei politici di modificare il proprio registro linguistico in risposta a eventi contingenti, aumentando il ricorso alla retorica populista e a espressioni emotive negative in momenti di forte incertezza e instabilità per il paese. Infine, abbiamo visto che questi due registri linguistici — il populismo e le emozioni negative — tendono a essere sistematicamente associati l’uno all’altro, andando così a costruire uno stile retorico che fa empaticamente leva sulle paure e le frustrazioni dell’elettorato per poi propugnare come soluzione una visione manichea del mondo fatta di élite distanti e inadeguate da incolpare e di politici “del popolo” ai quali affidarsi.

Di cosa parlano i politici online?
Grazie al ricorso a tecniche di topic modelling, abbiamo messo in luce come il menù degli argomenti affrontati dai politici su Twitter dal 1° gennaio 2020 al 18 aprile 2022 sia molto ampio. Spaziano da temi di rilevanza economico-sociale, come le difficoltà economiche generate dalla pandemia Covid-19, ad altri più “leggeri”, come eventi sportivi e VIPs. Abbiamo però riscontrato una tendenza generalizzata a privilegiare la discussione di temi catch all, con elevata probabilità di incontrare il consenso degli utenti dei social e bassa probabilità di scatenare dissidi. Tra questi rientrano le valence issue (cioè argomenti che tutti gli elettori apprezzano o disprezzano nella stessa misura quali, ad esempio, onestà/corruzione, competenza/incompetenza, ridurre gli sprechi/rilanciare l’economia), meglio se dalla forte connotazione emotiva e valoriale — come il sostegno alle vittime di violenza e l’anti-elitismo — o pop — come le vicissitudini dei VIPs e gli eventi sportivi —, che permettono al politico di atteggiarsi ad “uomo comune”. Molto meno promettenti da questo punto di vista, e quindi anche meno battuti, gli argomenti di policy più complessi e potenzialmente divisivi — come l’istruzione pubblica o la transizione energetica.

Abbiamo poi investigato quali temi stiano più a cuore ai diversi partiti. In parte abbiamo colto — e per fortuna — un’aderenza tra la comunicazione social dei politici e le tematiche care al partito di appartenenza: è il caso dell’interesse dei partiti di centrosinistra per il tema della scuola e per la transizione ecologica, ad esempio. Abbiamo però anche notato le difficoltà dei partiti di maggioranza ad affrontare online i temi connessi al loro operato durante la pandemia nei settori sanitario ed economico, un comportamento che può essere spiegato con la volontà di non prestare il fianco a critiche.

Infine, abbiamo colto una tendenza sistematica nei politici che più spesso ricorrono alla retorica populista a intavolare discussioni online su tematiche dalla forte connotazione emotiva e valoriale. Gli stessi politici non si sottraggono dal discutere anche temi di policy, a patto però che siano “caldi”, cioè di forte salienza nella discussione pubblica.

Esistono differenze di genere nella rete dei politici online?
La comparazione della comunicazione su Twitter delle donne e degli uomini impegnati in politica ci dice che le prime sono attive su tutti i principali temi di discussione e capaci di veicolare informazioni in modo efficace, senza però trascurare la dimensione relazionale del linguaggio. Non solo: sono meno propense dei colleghi uomini a fare uso della retorica populista. Sono quindi meno inclini a restituire una visione del mondo semplificata e dicotomica, nella quale al popolo descritto come onesto e omogeneo — privo cioè delle fratture e dei conflitti che solo una visione pluralista della società riconosce e interpreta —, si contrappone un’élite sorda, egoista e, peggio ancora, corrotta. Stando ai nostri risultati, le donne sembrano insomma più capaci degli uomini di vedere e comunicare le sfumature, la pluralità.

Gli elettori abboccano all’amo?
Per rispondere a questa domanda, abbiamo analizzato la campagna elettorale su Facebook condotta dai partiti italiani in occasione delle elezioni europee 2019 e delle elezioni politiche 2022. Nel complesso, le nostre analisi mostrano che i post scritti “in modo populista” — che presentano uno o più elementi tipici dello stile comunicativo populista — generano più engagement in termini di reazioni, condivisioni e commenti, aumentano sensibilmente le probabilità i post diventino virali. Benché i follower di partiti come la Lega, Movimento 5 Stelle e Fratelli d’Italia si rivelino più ricettivi, l’effetto positivo dello stile comunicativo populista sull’engagement si riscontra per tutti partiti, anche per quelli mainstream. In parole povere, quando un partito mainstream come il Partito Democratico pubblica post contenenti almeno uno degli elementi della retorica populista, questi post generano maggior engagement.

Come cambia la retorica populista dopo l’accesso al governo?
Per rispondere a questa domanda, abbiamo analizzato un corpus di discorsi politici pronunciati da quattro leader di partiti anti-establishment prima e dopo aver avuto accesso al governo. In particolare, abbiamo trascritto in modo automatizzato 215 video pubblicati da Luigi Di Maio (M5S, Italia), Pablo Iglesias (Podemos, Spagna), Matteo Salvini (Lega, Italia) e Heinz-Christian Strache (FPÖ, Austria) su Facebook tra il 2016 e il 2018 e li abbiamo analizzati sfruttando diverse tecniche di text analysis. Due di questi leader appartengono a partiti di destra (Salvini e Strache), mentre gli altri due no (Iglesias e Di Maio).

Nel complesso, dopo l’accesso al governo, riscontriamo l’utilizzo di un linguaggio più complesso e meno assertivo: ci si distacca quindi dalla cifra stilistica del colloquialismo. Si registra anche una riduzione della retorica anti-elitista. Ci sono però differenza tra i leader di destra e quelli non-di-destra. Sono infatti questi ultimi — Di Maio e Iglesias — a cambiare di più il loro stile comunicativo. Più precisamente, l’analisi mostra che, una volta in carica, i populisti non-di-destra tendono a usare un tono più positivo; il loro linguaggio diventa più complesso e meno assertivo, con una maggior percentuale di parole inclusive e con un’enfasi minore sull’“io” rispetto al “noi”. Al contrario, per i populisti di destra, osserviamo pochissimi cambiamenti: registriamo solamente una maggior complessità del linguaggio, che diventa più orientato al futuro.

I leader di destra si propongono quindi come populisti “di lotta e di governo”, in grado di gestire il potere e di compiere anche alcuni passi nella direzione di un linguaggio più istituzionale, ma senza abbandonare del tutto la retorica populista. Questo comportamento consente a questi virtuosi della retorica di evitare spaccature interne e di non scontentare gli attivisti e la base del partito — i fedelissimi della prima ora — che rimangono più interessati alle politiche rispetto alle poltrone e che restano legati alle vecchie abitudini e alla tradizionale retorica, fatta di negatività, assertività, e anti-elitismo. Durante i “duri” anni passati al governo, la strategia migliore per preservare lo stile retorico populista può essere semplicemente quella di trovare nuovi nemici — meglio se esterni — da attaccare.

Fedra Negri è ricercatrice in Scienza politica presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca

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