
Questo è il momento centrale del Velo dipinto, di Somerset Maugham, momento drammatico nel quale si svela quella che è poi l’anima profonda della protagonista: Kitty è una donna insoddisfatta che, quando finisce a Hong Kong insieme al marito medico – entomologo, il quale l’ha trascinata nell’Estremo Oriente perché lì è la sua vita, lì è il suo mondo di scienziato –, si trova completamente smarrita, in una colonia senza fascino; e non riesce a saturare la sua vita se non della smania – bovaristica – di avere un amante e di uscire dalla banalità di una vita per lei incomprensibile, perché il marito è un uomo grigio, che a lei dice poco, che studia troppo e che ha una tale passione per la medicina e per il suo ruolo da non poter essere veramente vicino alle aspirazioni di una donna giovane e bella.
Ma nell’ambiente coloniale di Hong Kong, evidentemente, non si può rimanere con questa dimensione di imbarazzante separazione di fatto. E quando il marito chiede a Kitty di partire con lui e di andare in un posto lontano, nel centro della Cina, dove infuria una drammatica epidemia di colera e le persone muoiono come mosche, lei vorrebbe rifiutarsi. Dice: «No, io, perché devo venire?». «Allora», replica lui, «devi concedermi immediatamente il divorzio per adulterio.»
Ecco, il dramma si è compiuto. A questo punto la signora se ne va dal suo amante, convinta che lui le dica: «Va bene, lascio mia moglie, vivremo insieme». Invece, niente: Kitty sarà respinta anche dall’amante, un uomo superficiale, fatuo, che stava con lei soltanto per distrarsi e che non ne vuole sapere, non la ama profondamente, come invece lei crede di amare lui. A questo punto non rimane alternativa: Kitty, sulla portantina, dovrà partire per la profonda Cina e, insieme al marito, arriverà in un posto desolato dove, abbandonata da tutto e da tutti, potrà vedere – sì e no – un vecchio sacerdote e delle suore.
Qui, per certi versi, avviene una trasformazione: nel momento del dramma, accade che gli esseri umani scoprano qualcosa che li fa cambiare. E soltanto questa esperienza riesce a trasformare una donna frivola, fatua, superficiale, che si è sposata molto giovane soltanto per opportunità. Ecco, lì, nel disagio e nella visione drammatica della gente che muore per l’epidemia e che il marito cerca invano di aiutare, Kitty troverà finalmente un senso alla sua vita. Forse riuscirà persino a ritrovare un sentimento nei confronti del marito. Comincia a lavorare con le suore che aiutano i malati, inizia a dedicarsi sempre di più al lavoro di crocerossina, di aiutante, di infermiera; e piano piano scopre il senso di un ruolo sociale che prima non aveva neanche immaginato. Capisce persino che esistono dei valori che vanno al di là di quella che è la bella e comoda vita borghese, di chi passa da un ballo all’altro, da una cena all’altra, da un amante all’altro. Nel dramma del colera, dalla dimensione di smarrimento in cui era arrivata, Kitty recupera un’umanità attiva, sensibile, ricca di sentimento e di una dimensione spirituale che prima le erano completamente estranei. Non stiamo parlando di religiosità, ma di essere capaci di uscire da valori puramente materiali e di cogliere il fatto che, nei rapporti tra gli uomini, ci sono dimensioni profonde di sensibilità e di contatto umano.
Mentre accade tutto questo, e la Kitty spensierata e frivola che avevamo conosciuto a Hong Kong si sta quasi emancipando, il marito muore. La donna rimarrà sola, con la figlia; e tornerà a casa, scoprendo che la madre è appena morta e che il vecchio padre sta per partire per le Bahamas. Partirà con il genitore, che ha sempre odiato, e che in realtà è un vecchio giudice molto mite e pieno di buona volontà, da cui avrebbe potuto imparare molto ma di cui non aveva colto nulla.
Se questa conclusione, per certi versi, ci dà la dimensione di una di trasfigurazione della protagonista, c’è in tutto il libro una specie di sordo risentimento dovuto al fatto che il marito – Walter – con cui lei non è mai riuscita a entrare realmente in sintonia, in realtà è un uomo avaro di espressioni, come se i suoi sentimenti si fossero congelati. Non riesce mai a trascinare la moglie neanche nel suo, peraltro legittimo, entusiasmo per il suo mestiere. Per anni aveva vagato nelle colonie, senza vedere mai nessuno della sua gente; era diventato un uomo bizzarro e molto complicato, una persona che viveva tutto nella dimensione del suo lavoro. E la moglie non lo aveva assolutamente capito.
Eppure c’è qualcosa che hanno in comune queste persone: perché tutti e due vivono nella dimensione del colonialismo. E il colonialismo segna quelli che ne hanno vissuto il tempo perché si trattava di ambienti chiusi, una piccola società che viveva in un paese vastissimo ma ostile, e cercava di mantenere la dignità che avrebbe avuto in patria e che è difficile conservare quando si è all’estero. Ecco, la dimensione coloniale per certi versi taglia i sentimenti, impedisce che questi vengano espressi fino in fondo, impedisce persino che la gente si capisca perché prevale la dimensione estetica della vita brillante e della necessità di convivere tutti insieme nell’affermazione dei valori dell’Occidente in terre straniere.
Lì nasce il conflitto, profondissimo. Un uomo che vive con la donna che ama moltissimo, pur disprezzandola; e una donna che disprezza un uomo che non ama e che ha sposato soltanto per interesse. Questi due schemi contrapposti formano il dramma. E questo dramma, che è storico, vecchio come il mondo, esplode quando si scopre l’adulterio e i due si confrontano: «Mi disprezzi del tutto, Walter?». «No», risponde lui che in fondo ha una profonda spiritualità. «Disprezzo me stesso.»