
L’occasione del libro fu l’accusa sollevata dai pagani nel 410 che il saccheggio inflitto dai Goti di Alarico a Roma fosse la conseguenza dell’abbandono del culto degli dei tradizionali imposto dal Cristianesimo. Agostino risponde ritorcendo l’accusa: però prima chiarisce, a monito e conforto dei cristiani, neppur essi rimasti immuni né insensibili a tante stragi, la vera natura dei beni, in che consista propriamente il male e come questo, avendo origine dalla volontà che si piega ai beni transeunti, non può essere procurato dalla violenza esterna. Le devastazioni e le stragi fatte dai Goti non hanno intaccato ciò che veramente vale: hanno, se mai, costituito una prova salutare e un monito eloquente per i cristiani troppo attaccati ai beni terreni (libro I).
La ritorsione dell’accusa sta in questo: nel mostrare alla luce della storia di Roma che “mali morali” e “mali fisici” funestarono Roma anche quando il culto degli dèi era in fiore e il Cristianesimo non esisteva ancora. La prosperità e l’incremento dell’impero romano non possono essere stati opera degli dèi venerati dai Romani: basta esaminare la mitologia per constatarne la incoerenza e puerilità. Non gli dèi falsi, ma il Dio unico e vero distribuisce i regni secondo i suoi disegni che, per essere occulti a noi, non sono meno veri. È la Provvidenza divina, non il caso epicureo o il fato stoico che ha elargito a Roma l’Impero a premio delle sue virtù naturali e quale indennizzo per la felicità eterna che non avrebbe avuto. Il celebrato zelo dei Romani per la Patria terrena dev’essere monito ed esempio ai cristiani nel tendere alla Patria celeste (libri II-V).
Questa prima sezione è diretta contro quelli che ritengono doversi adorare gli dèi in vista dei beni materiali, vale a dire contro il volgo. Nella seconda sezione della prima parte – consacrata alla polemica antipagana – passa a confutare quelli che affermano doversi praticare il culto degli dèi per ottenere la felicità ultraterrena. Costoro sono i filosofi e perciò la polemica è principalmente diretta contro di essi; precipuamente contro il loro tentativo di giustificare in qualche modo il nucleo della religione popolare. Il più autorevole di questi difensori è Varrone; Agostino ritiene bastante confutare le giustificazioni di questo eminente teologo pagano per ritener demolita la pretesa pagana di assicurare col politeismo la felicità ultraterrena (libri VI-VII).
I filosofi però non si sono limitati a questo: hanno cercato pure di elaborare una teoria degli dèi diversa da quella dei poeti e delle istituzioni pubbliche: una “teologia naturale” che Agostino ricostruisce e confuta, seguendo il pensiero greco dai milesii a Platone e ai neoplatonici (libri VIII-X). Il motivo fondamentale della polemica è: per i presocratici, la incomprensione della immaterialità di Dio e della sua qualità di creatore; per Platone, l’ignoranza del fatto della Redenzione e di tutto il contenuto della Rivelazione cristiana; per i neoplatonici, l’impossibilità di conciliare la loro demonologia con l’onnipotenza e la perfezione divine.
Nella seconda parte Agostino passa dalla trattazione prevalentemente polemica e negativa a quella prevalentemente espositiva e dogmatica. Non basta dimostrare l’incoerenza e l’infondatezza del culto politeistico; occorre provare come effettivamente tutto il vero si trovi nel Cristianesimo, come esso soddisfi insieme il cuore e l’intelligenza e sia veramente la via di liberazione dal male e dall’infelicità. Ecco quindi la descrizione cristiana del mondo: non tanto di quello fisico, quanto di quello morale imperniato sulla ricerca della felicità. Codesta descrizione si svolge in tre fasi. Dapprima si discute l’origine della società in generale, della “città”, iniziando con l’esaminare il cominciamento assoluto di ciò che non è Dio, vale a dire con la creazione, e così chiarendo come con essa abbia avuto origine il tempo, ch’è il solco segnato dalla mutabilità delle creature; indi viene la considerazione dell’origine e dei caratteri delle due città in cielo; la creazione degli angeli (“città di Dio”) e l’origine di quella dei malvagi con la ribellione degli angeli superbi e i riflessi di questa sulla vita umana e il suo destino (libro XI).
Giacché la storia delle due città tra gli uomini ha come preambolo necessario quella delle due città ultraterrene, degli Angeli felici stretti a Dio in sudditanza e amore, e dei demoni infelici e ribelli. Nella caratterizzazione della città terrena hanno larga parte tre questioni: quella del “male” che è spiegato come una deficienza di perfezione e la cui causa è posta in una diversione della volontà dal bene supremo, ch’è Dio, verso l’individuo; la questione della “morte” nel suo senso relativo (distacco dell’anima dal corpo: “prima” morte) e nel suo senso assoluto (morte dell’anima: “seconda” morte) col suo distacco senza rimedio da Dio (libro XII); e la questione del “peccato d’origine”, della sua natura (disubbidienza e orgoglio), delle sue manifestazioni (ribellione della carne, concupiscenza, indebolimento della volontà) e dei suoi effetti principali (libro XIII). Codesti effetti si possono avvertire in tutta la vita psichica che appare sconvolta e perturbata dal predominare delle passioni: significativo al riguardo il sentimento del pudore (libro XIV).
La seconda fase è quella che considera gli sviluppi delle due città: di quella carnale, imperniata sull’amor di sé, e di quella spirituale, imperniata sull’amor di Dio. Ciascuna ha un suo modo di vivere e di godere; la città terrena ha la sua sede e la sua felicità relativa quaggiù; la città di Dio è sulla terra semplicemente di passaggio e vive in attesa della felicità celeste. La città terrena muove dal fratricidio di Caino, mentre quella di Dio ha i suoi avviamenti da Abele. Ciascuna continua nella serie delle generazioni che la Bibbia racconta fino al diluvio (libro XV) e oltre, dopo Noè, attraverso Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè, i Giudici (libro XVI), mentre s’affermano le grandi monarchie di Babilonia e d’Assiria. E questo con un permanente significato simbolico, giacché le vicende di Noè, dei Patriarchi, di Mosè e simili prefigurano misticamente la città di Dio nella sua peregrinazione terrena.
Lo stesso vale per l’età dei profeti che segna il momento culminante e la crisi irreparabile di Israele, realtà e simbolo insieme della città di Dio; anzi qui il significato simbolico e profetico prevale addirittura su quello storico (libro XVII). La città terrena si svolge, dopo Noè e la dispersione dei popoli, nelle grandi monarchie orientali, di cui Agostino dà notizia attraverso la cronaca di Eusebio di Cesarea, nei regni ellenici e nella Roma antica, per cui attinge fiduciosamente a Varrone. Qui è sottolineato il carattere misto della storia umana, l’impossibilità di distinguervi la città terrena e la città celeste, che rimangono due realtà metafisiche la cui separazione empirica, sensibile, è riserbata al giudizio finale di Dio. Questo vale particolarmente pei primi secoli dell’èra cristiana, in cui la Chiesa (la “città di Dio”) vive commista con la città del mondo, al punto da ospitare essa stessa uomini carnali, sia pur desiderosi di redenzione. Donde le persecuzioni, le eresie, gli scandali, che tuttavia hanno la loro funzione benefica sulla città di Dio metafisica: sui “santi” (libro XVIII).
La terza fase riguarda l’esito finale delle due città: felicità eterna per l’una, infelicità eterna per l’altra. Qui (libro XIX) vien ripresa in grande la questione della vera natura della felicità e del suo carattere necessariamente trascendente, divino. Donde la confutazione degli stoici che presumevano arrivarvi coi propri mezzi: la vita umana vista con occhio realistico è disordine, passionalità, violenza; la razionalità e la pace non sono di questo mondo, né è qui che le cose ricevono la loro valutazione definitiva. Questo dipende dal giudizio futuro di Dio (libro XX): alla sua luce il vizio si rivelerà tale, anche se quaggiù si presenta sotto l’aspetto affascinante della virtù e della felicità. Nulla di sicuro si sa sul tempo e il modo del suo svolgersi. Certo il Giudice sarà il Cristo glorioso, e l’ultima fase della storia umana sarà assai commossa da lotte spirituali e da eventi fisici giganteschi: certo la fine e il giudizio rappresenteranno una rigenerazione, una palingenesi del mondo. Allora avrà luogo la distinzione anche reale delle due città. Alla città del mondo toccherà un’eternità di dolore insieme morale e fisico (libro XXI); eternità di pena contro cui non valgono né le obiezioni fisiche derivate dalla pretesa impossibilità di un fuoco che non consumi né quelle morali dipendenti dalla presunta sproporzione tra un peccato temporaneo e una punizione eterna: la gravità della quale sarà comunque proporzionata nell’intensità alla entità della colpa.
Invece ai santi è riserbata la beatitudine eterna (libro XXII): non solo alle anime nella contemplazione diretta di Dio, ma agli stessi corpi che risorgeranno a una vita reale seppur diversa da quella terrena. La maniera della resurrezione non è chiara; ma il fatto, malgrado le obiezioni dei platonici, è certo; come è sicuro che, pur essendo la città di Dio in primo luogo opera della predestinazione divina, per essa non è indifferente l’orientamento del libero arbitrio umano. L’osservazione della vita psichica può far intendere quale sarà la beatitudine eterna come soddisfazione delle esigenze positive dell’uomo. Essa sarà quindi il gran sabato, la pace suprema nel regno di Dio.
Il De civitate Dei è pertanto, a universale riconoscimento, l’opera che esprime meglio di ogni altra la poliedrica personalità di Agostino, insieme esegeta, metafisico, psicologo, teologo. In essa confluiscono, volta a volta emergendo, i motivi delle opere precedenti, che sono stati tanta parte della vita intellettuale e religiosa del padre africano: l’antimanicheismo e l’antiplatonismo del Della vera religione e delle Confessioni, l’antidonatismo e l’antipelagianesimo che informano le lunghe digressioni sui problemi interni della Chiesa. In essa non tutto è organico: ripresa e abbandonata più volte, la sua redazione si compie tra il 410 e il 426, e appare appesantita dalle polemiche contingenti. Essa è, sostanzialmente, non una filosofia della storia (della storia Agostino conosceva molto poco, le sue informazioni limitandosi alla Bibbia, a Eusebio, a Varrone), ma una metafisica della società: vale a dire una determinazione del permanente nel mutevole dei comportamenti umani, delle forze segrete che decidono il vario comportarsi di individui e nazioni.
Quello che nelle Confessioni aveva fatto per l’individuo, riducendo il dramma degli affetti e delle irrequietudini del singolo al dramma Dio-Uomo (di Dio che assedia il cuore dell’uomo col suo amore; dell’uomo che sfugge Dio dietro a beni illusori, i quali poi con le loro “salutari amarezze” fan pensare con nostalgia a Dio come al bene supremo), nel De civitate Dei Agostino lo fa per la società umana, accentuando però gli elementi propriamente teologici e biblici. Solo, qui, le passioni e le ambizioni sono quelle scatenate dalla prima volontà umana (d’Adamo) che ha preferito sé a Dio; qui la grazia redentrice libera non solo Agostino, ma gli uomini tutti chiamati alla salvezza dalla “massa dei peccatori” in Adamo. La lotta tra le due città, imperniate rispettivamente sull'”amor sui” e l'”amor Dei”, è il riflesso sociale della lotta tra il vecchio e nuovo Adamo in ciascuno di noi. Il tutto fondato, da una parte su una penetrante osservazione della realtà effettuale in noi e fuori di noi; dall’altra sui grandi documenti della Rivelazione cristiana, penetrati con acuta esegesi, sulla scorta dei padri greci, di Ambrogio, di Girolamo, e per di più sperimentati nella loro efficacia rinnovatrice nella propria vita cristiana e nella società dei cristiani, la Chiesa.
L’idea prima di codesta visione teologica della storia umana, come storia di peccato e di salvezza, d’’infelicità e di felicità, è presa da Paolo (Epistola ai Romani) e dall’Apocalisse di Giovanni, e più particolarmente dal commento a quest’ultima d’un solitario donatista: Ticonio. Nello sviluppo ha valorizzato la tradizione apologetica da Tertulliano a Origene, rivivendola con la sua larga esperienza di pensatore e di vescovo, allargandone le prospettive, facendone una interpretazione della storia umana. Per questo essa ha esercitato una suggestione profonda su tutte le età e su tutti gli individui inquietamente curiosi del proprio destino. Per questo nelle polemiche medievali tra papato e impero i polemisti hanno cercato di attingere a lui (identificandone erroneamente la città di Dio con la Chiesa empirica e la città del mondo collo Stato concreto); per questo quanti hanno rimeditato il problema della storia si sono rifatti a lui da Bossuet al Balbo; per questo, nonostante lo sviluppo delle scienze storiche, esso è ancora un libro vivo e, nonostante le digressioni contingenti, non cessa di trovare lettori. Fu il primo libro stampato in Italia (1467 a Subiaco) e testimonia come l’Umanesimo ne sentisse il fascino potente, come lo sentirono i Riformatori, Pascal, Manzoni, Kierkegaard.»