“A capo coperto. Storie di donne e di veli” di Maria Giuseppina Muzzarelli

Prof.ssa Giuseppina Muzzarelli, Lei è autrice del libro A capo coperto. Storie di donne e di veli edito dal Mulino: quando parliamo di donne velate pensiamo al mondo islamico, in realtà la prescrizione alle donne di coprirsi il capo appartiene anche alla storia dell’Occidente.
A capo coperto. Storie di donne e di veli Maria Giuseppina MuzzarelliQuel velo che oggi rende riconoscibili le donne islamiche e in qualche caso suscita timori fa parte della tradizione mediterranea e dunque anche della tradizione cristiana. Anzi, il velo cristiano è stato un’eredità. Una cosa è chiara: la tradizione del velo non deriva dal Corano e non è specificatamente legata all’Islam. Il tema fa discutere. Riprendendo un dato di costume il cristianesimo ha poggiato su basi religiose la prescrizione della copertura del capo facendone un elemento di “pubblicità” per la nuova religione: simbolo di sottomissione delle donne agli uomini. San Paolo, “inventore del cristianesimo”, ha inaugurato un nuovo ordine esprimendosi così nella prima Lettera ai Corinzi (11,2-16):
“Voglio che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo, e capo di Cristo è Dio. Ogni uomo che prega o profetizza con la testa coperta, manca di riguarda al proprio capo. Ma ogni donna che prega o profetizza senza velo sulla testa, manca di riguardo al proprio capo…”

Quando nasce l’usanza del velo?
Come si è detto la tradizione del velo non deriva dal Corano. Gli Arabi avrebbero mutuato questa pratica da altri popoli durante la fase espansiva quando entrarono in contatto con ambienti nei quali le donne appartenenti alle classi medio-alte usavano coprirsi il capo. In area mediterranea e medio-orientale nei primi secoli dell’era cristiana indossare il velo era pratica diffusa tra le donne delle classi alte a prescindere dalla religione di appartenenza.
Nell’antichità pagana il velo era usato dalle donne maritate. Presso gli Assiri le prostitute, le schiave e le donne non maritate non avevano il diritto di velarsi. In Grecia ragioni di pudore e di modestia presiedevano all’uso del velo in pubblico e le donne non velate risultavano sessualmente disponibili. Il velo dunque indicava rispettabilità, dignità e accompagnava le cerimonie di matrimonio.
Già nel mondo antico erano presenti le due facce del velo visto come simbolo di modestia ma anche come strumento di seduzione. Il gesto del marito di togliere il velo alla moglie sanciva il passaggio di status a seguito del matrimonio e da sposata la donna lo indossava certamente nelle occasioni ufficiali ma forse lo portava anche più spesso pur in assenza di precise prescrizioni. Anche a Roma le donne erano tenute a coltivare la modestia per essere rispettate, mostrando la loro sottomissione tramite la copertura del capo. Il loro velo quotidiano era diverso da quello delle donne consacrate, le Vestali, che portavano sul capo un velo quadrangolare bianco con bordi rossi mentre per il matrimonio le donne indossavano un rettangolo di tessuto fine e trasparente di colore rossastro (flammeum). Il velo nero si indossava invece in occasione di lutto.

Qual era il significato simbolico del capo coperto?
Furono verosimilmente le Vestali a fornire a san Paolo lo spunto per l’associazione velo-castità o almeno velo-modestia, velo-subordinazione come prescrizione per tutte le cristiane. Nei primi secoli del cristianesimo le donne certamente si velavano in chiesa ma ciò per Tertulliano (155-220ca), uno dei Padri della Chiesa, era un abuso. Secondo Tertulliano quando san Paolo scriveva che “l’uomo è capo della donna” si riferiva a tutto il genere femminile e dunque il segno della modestia e della sottomissione andava portato dalle donne di qualunque condizione, vergini e sposate, in qualsiasi luogo. San Paolo e Tertulliano hanno dunque sistematizzato e generalizzato un uso precedente collegandolo al pudore o, per meglio dire, alla debolezza femminile e alla conseguente necessità di sottomettere la donna all’uomo ma in realtà anche all’incapacità maschile di resistere alla tentazione. Per i cristiani velare tutte le donne era un modo per sottolineare i valori del cristianesimo, fare “pubblicità” alla Chiesa morale e fare i conti con Eva. Proprio per mostrarsi diverse da Eva le donne, definite da Tertulliano genere “di seconda umanità”, dovevano essere percepite come un modello di virtù ed inoltre velandosi il capo e il volto evitavano di trasformarsi in una pericolosa esca.
Questa lettura è confermata a secoli di distanza da quanto dichiarato in pieno XV secolo dal Minore Osservante Giovanni da Capestrano. Il frate capestranese ribadì infatti nel suo “Trattato degli ornamenti, specie delle donne” l’obbligo per tutte le donne di velarsi a meno che non intervenissero ragioni particolari fra le quali era annoverabile la deformità, quando cioè pur restando a capo scoperto la donna non poteva causare lascivia nel prossimo. L’obbligo al velo si connette dunque all’idea della pericolosità della donna come ha mostrato Eva, creatrice di disordine. Perciò deve sottoporsi a controllo, mostrare pudore, modestia e obbedienza. Il velo sintetizza un’interpretazione di ruoli e un ben preciso programma.
Sta di fatto che nei secoli del basso medioevo, quando nacque e si affermò la moda, le donne si coprivano sì il capo ma, quando potevano, non con modeste pezzuole ma con deliziose coroncine o con delicate bende che incorniciavano il volto con effetti altamente decorativi. Nel 1279 il cardinale Latino Malabranca formulò una serie di costituti l’ultimo dei quali ribadiva l’obbligo per le sposate che avessero più di 18 anni a indossare il velo. Tale prescrizione produsse come effetto, si legge nella “Cronica” del frate minore Salimbene de Adam (1221-90) la “agitazione” delle donne e in particolare “mandò su tutte le furie le dame di Bologna”. Salimbene testimonia dunque una reattività, una resistenza e una capacità propositiva femminile in particolare là dove riferisce che seppero approfittare della prescrizione del velo per diventare dieci volte più belle e attirare ancora di più l’attenzione facendosene fare di bisso, di seta, intessuti d’oro. Le donne convertirono dunque l’obbligo al velo per modestia in occasione di visibilità e talvolta di sfoggio di lusso indossando veli preziosi o magnifiche cuffie di manifattura femminile. Va ricordato infatti che quelle stesse donne che erano tenute a stare a capo coperto fecero della produzione di veli da mettere in testa e soprattutto di complicate acconciature un mezzo di affermazione personale e di gruppo. Guadagnarono cioè denaro e fama, un paradosso, uno dei tanti paradossi legati al velo leggere per definizione ma carico di significati, imposto per coprire, nascondere, celare alla vista e invece capace di attirare gli sguardi. Ma ecco un altro paradosso: la cultura islamica che ha lottato contro le immagini ha fatto della donna con lo hjiab un’icona, un’immagine che si impone e suscita riserve in una società che lo pensa come un ostacolo a un modello di trasparenza che noi occidentali perseguiamo in maniera dichiarata, ossessiva anche se spesso incoerente: si deve vedere tutto o quasi, dichiarare tutto o quasi, tutti o quasi devono occidentalizzarsi.

Il velo era ed è ancora oggi utilizzato dalle religiose: con quale valore?
Nel mondo cristiano, dall’inizio del IV secolo, le fanciulle che facevano voto di verginità formavano una precisa categoria riconosciuta e onorata all’interno della chiesa. Portavano due segni distintivi: un abito di forma semplice di colore scuro e un velo che era simbolo dell’unione mistica che le faceva spose di Cristo. L’imposizione del velo entrò stabilmente a far parte del rito di consacrazione e il velo ha assunto il duplice significato di disprezzo del mondo e di soggezione allo sposo. Nella prassi il velo ha continuato nel tempo a rappresentare un elemento di identità per la monaca in quanto tale e appartenente a un preciso ordine. Se all’origine il velo era l’unico segno distintivo della comunità religiosa femminile, nel tempo ha assunto importanza anche l’abito e ad ogni ordine ha preso a corrispondere una specifica veste e diverse forme di coperture del capo. Le varianti, assai numerose, hanno tenuto conto, in particolare n età moderna, degli usi secolari ma ancora nel Novecento l’abito del giorno della vestizione assomigliava ai vestiti da sposa in uso nel mondo laico. Non sono mancati casi di coperture del capo tutt’altro che sobrie tanto che nel 1952 papa Pio XII è intervenuto a frenare originalità e inadeguatezze. Un forte invito alla semplificazione è venuto dal Concilio Vaticano II con il decreto Perfectae Caritatis (28 ottobre 1965) che indica come regola per l’abito religioso, copertura del capo compresa, una decorosa povertà, funzionalità, semplicità e modestia. È rimasto l’uso di velarsi per modestia e per ubbidienza, in fondo per le ragioni paoline, ma in maniera adatta a tempi e ideologie profondamente cambiate.

Il foulard rappresenta un’evoluzione del velo?
Con il termine francese foulard si indica un quadrato di stoffa, spesso di seta. Da un po’ di anni non è più d’uso indossare il foulard che è diventato elemento distintivo delle donne musulmane. In Occidente l’uso di uscire di casa a testa coperta è durato fino alla metà circa del secolo scorso. Sul capo delle donne di città c’erano cappelli o acconciature di diversa fattura ma raramente semplici fazzoletti indossati invece dalle donne di campagna. Nel secondo dopoguerra la copertura del capo delle donne è caduta in disuso e contestualmente o quasi il foulard si è affermato come accessorio adeguato alla vita sportiva e al tempo libero di donne che hanno fatto del fazzoletto da testa spesso firmato un capo alla moda. Oggi il foulard lo portano le donne musulmane come mezzo per affermare la loro identità. Vi sono molte e diverse forme di copertura del capo delle musulmane e il foulard, vale a dire il ricorso allo hijab, è la più semplice e praticata da quante di loro vivono in occidente. Si tratta di un foulard, appunto, in tinta unita o fantasia che si porta avvolto intorno alla testa e al collo. Disposto sul capo in forme differenti ha anche una funzione decorativa ma nessuna musulmana direbbe che lo indossa con questa finalità. Il significato letterale di “hijab” è “celare allo sguardo, coprire, velare”; colei che lo indossa vuole essere riconosciuta come donna di fede islamica. Esistono numerosi blog di moda che suggeriscono come indossarlo con grazia perché non è necessariamente sinonimo di modestia e privazione. Sta di fatto che nell’ultimo decennio la copertura del capo delle donne musulmane ha riportato il velo al centro di discorsi e di paure ma anche al centro degli interessi di produttori e di creatori di moda, di quella moda nata nel medioevo quando le donne, poche, privilegiate e capaci di lasciare tangibili testimonianze, ne adottarono fantasiose ideazioni per una sorta di resilienza all’obbligo di coprirsi il capo. E se la moda riuscisse anche oggi a mettere nelle mani delle donne uno strumento di resilienza? Se le aiutasse a manifestare fantasia, gusto conferendo loro dosi di libertà? Certo si tratterebbe di una via stretta percorribile da poche e solo in ambiti limitati eppure l’ipotesi mi pare interessante. Un’ipotesi strettamente legata alla natura stessa, ambigua, anfibolica incoerente di questo oggetto che concepito per togliere, o meglio anche per togliere visibilità e libertà alle donne l’ha invece concessa a produttrici e consumatrici di veli. Eterogenesi dei fini, si può dire ma anche prova delle capacità delle donne di arrivare a cambiamenti importanti procedendo per adattamenti, aggiustamenti, lente modificazioni che hanno fatto scivolare dalle nostre teste quei veli che oggi vediamo saldamente sul capo delle musulmane. Personalmente mi auguro che siano sempre più libere di scegliere se tenerlo o meno in capo.

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