
Lo scopo della raccolta di testi da me curata è di compiere una ricognizione ed un ragionamento sul ricorso alla denuncia e sull’accoglimento di essa in ambienti diversi fra Medioevo ed Età moderna. La difficile distinzione terminologica e concettuale fra denuncia e delazione permane nonostante reiterati tentativi di fare chiarezza. Al centro del discorso complessivo, o almeno di alcuni apporti ad esso si colloca l’ipotesi di considerare la denuncia, spesso richiesta, anzi sollecitata e premiata, come un apporto alla governabilità e al bene comune nel nome della non estraneità del singolo cittadino a questi scopi.
L’età comunale rappresenta un periodo di massima partecipazione al governo, al mondo produttivo e più in generale alla vita sociale e dunque una fase di forte adesione collettiva a quanto accadeva in città nelle quali uomini e donne comunicavano appartenenze e stati d’animo con gesti, abiti, cerimonie che si svolgevano sotto gli occhi di molti, se non di tutti. Una dimensione collettiva che investiva anche il campo dei controlli e delle denunce. Gli Statuti cittadini lo attestano ampiamente richiamando reiteratamente la necessità di tenere gli occhi aperti e di riferire alle autorità. Ma anche prima della fase comunale la delazione era sollecitata e premiata soprattutto in situazioni anomale, emergenziali, in una parola in stati di crisi. L’invito anche pressante alla collaborazione in tempi calamitosi è uno dei temi ricorrenti e definisce una questione, quella della eccezionalità, che si riaffaccia sotto diverse forme in più contributi.
Nel corso dei seminari preparatori e al momento di elaborare i saggi ci siamo esercitati nel tentativo di fare chiarezza sugli elementi che differenziano la delazione, forma che si accompagna a un certo senso di ripugnanza, dalla denuncia che si tende invece a valutare più favorevolmente. L’idea di partenza di fondare una distinzione sulla base della segretezza e della remunerazione della delazione non ha funzionato giacchè questi due elementi erano regolarmente presenti nelle denunce previste dagli Statuti cittadini delle città comunali e non rendevano malvista l’attività in una realtà, quella comunale, nella quale la denuncia era ricorrente tanto che Ferdinando Treggiari (uno degli autori della silloge) ha parlato di una cultura dell’accusa sostenuta dal sentimento comunitari ma anche da un efficace sistema di incentivi.
Il ricorso sistematico alle denunce segrete configura dunque un aspetto peculiare della forma comunitaria di controllo sociale caratteristico degli ordinamenti cittadini fra basso Medioevo e prima Età moderna e dell’ideologia partecipativa che li animava.
Denuncianti, accusatori, delatori e spie sono termini che appaiono intercambiabili già nell’alto Medioevo. Il confine fra denuncia e delazione e dunque fra una collaborazione virtuosa ed un atto riprovevole appare labile, poroso, permeabile. la pratica è praticamente la stessa in entrambi i casi ma assume un carattere diverso a seconda del tipo di governo e della vicinanza ad esso tanto di chi riferisce come di chi valuta l’atto ma anche a seconda delle motivazioni alla segnalazione e delle conseguenze di essa.
Quale ruolo aveva la denuncia anonima?
Gli Statuti comunali prevedevano regolarmente fin dalla seconda metà del Duecento che i cittadini tenessero gli occhi aperti e denunciassero alle autorità i casi di mancato rispetto delle norme. Altrettanto regolarmente era prevista la remunerazione del denunciante con l’assegnazione una quota della multa applicata al trasgressore pari spesso a un terzo dell’ammenda prevista. La denuncia poteva essere anche segreta e anonima.
Denunciare era un diritto e insieme un dovere: rientrava nelle prerogative della cittadinanza. Questo nella fattualità e insieme nella idealità.
Praticamente tutti i Comuni accoglievano denunce segrete ed anche anonime predisponendo come è noto sistemi di raccolta delle segnalazioni che andavano comunque verificate.
In apposite cassette di legno o analoghi contenitori scivolavano foglietti di denuncia introdotti da delatores, denunctiatores, accusatores che riferivano di bestemmiatori, giocatori d’azzardo e più in generale di danneggiatori del comune. Di queste cassette nelle quali ogni delatore poteva in qualunque momento gettare un biglietto con la sua accusa ha parlato Montesquieu come di un elemento correlato al dispotismo di un governo che ha bisogno di mantenersi in vita con mezzi che egli giudicava violenti come quelli impiegati dal governo dei Turchi. Per Montesquieu tutto andava relazionato e dipendeva dai principi di governo e così il governo dispotico che ha per principio la paura dà una precisa connotazione alla denuncia e fa di essa un atto delatorio.
Quale ruolo svolgeva la denuncia nel controllo del rispetto della legislazione suntuaria?
La legislazione suntuaria prevedeva regolarmente la denuncia di chi non osservava le regole. Proprio studiando questo genere di normativa il tema della denuncia/delazione mi si è imposto. La collaborazione sollecitata e quindi la denuncia protetta e premiata di chi non rispettava le norme suntuarie era uno dei sistemi per radicare la limitazione dei lussi o forse meglio per realizzare la corrispondenza fra consumi e appartenenza sociale: finalità centrali del disciplinamento suntuario. Andava denunciato sia chi esibiva capi proibiti o inappropriati ma anche l’artigiano che li aveva confezionati. Il garzone era tenuto a denunciare il maestro di bottega se costui confezionava per i clienti capi inadeguati alla loro condizione sociale. I sarti, e più in generale tutti gli esecutori di vesti o accessori, rappresentavano un tassello del mosaico della correzione civile tenuti come erano a dare il loro apporto al controllo del rispetto delle norme.
Il Comune non si limitava a sollecitare e remunerare le denunce ma, ovviamente, si dotò di funzionari incaricati delle necessarie verifiche. Si profilano dunque più livelli di controlli svolti tanto dai funzionari come dai singoli cittadini e dagli artigiani.
Le cose non cambiarono al passaggio dal Medioevo all’Età moderna.
Come era disciplinata la delazione?
Il denunciante/delatore poteva riferire direttamente alle autorità o lasciare engli appositi contenitori scritti relativi a fatti o persone da indagare. Un caso particolare è costituito dalla denuncia/delazione nel mondo ecclesiastico in relazione alla repressione del dissenso religioso. Dalla fine del XII secolo si affaccia la possibilità di aprire inchieste d’ufficio sulla scorta di una semplice denuncia. Una crescente mobilitazione contro la dissidenza spianò la strada alla creazione di un apposito tribunale della fede. Stante la coazione alla de nuncia i delatori non venivano ricompensati ma indotti. A chi si autodenunciava in certi periodi speciali venivano promessi “sconti di pena”. Progressivamente nel corso del XIII sec. aumentò il peso specifico della delazione. Quando presenti i premi in denari per i denuncianti potevano raggiungere la quarta parte dei beni confiscati e la finalità di lucro non fu estranea alla persecuzione ereticale anche in assenza di una concreta emergenza per la fede. Di delazione e tribunali della fede si sono occupati in particolare Riccardo Parmeggiani e Vincenzo Lavenia.
Come erano considerati spie e delatori nel pensiero medievale?
Passando dalla concreta realtà comunale all’esame del pensiero politico del tardo Medioevo, segnatamente del trattato di Bartolo De tyranno studiato da Berardo Pio si ricava in sostanza una conferma dell’appello alla collaborazione cittadina anche nei regimi non tirannici. In questi ultimi tale ricorso è riconosciuto non solo utile ma anche morale. Mentre denunciare un nemico del bene comune è virtuoso, denunciare un oppositore a un regime tirannico è ripugnante.
Dunque la dipendenza della valutazione dalla natura del regime politico che caratterizza molte attuali interpretazioni si ricava anche da Bartolo secondo il quale una delle azioni che consentono di individuare il carattere malvagio del governo tirannico è proprio il fatto che egli fa ricorso a molte spie (exploratores) e che ascolta volentieri questi informatori (relatores). Ma sempre in Bartolo si legge che anche i buoni governanti ricorrono frequentemente agli informatori per porre un freno ai delitti e alle ingiustizie. La differenza starebbe nel fatto che il tiranno raccoglie informazioni su quanti tendono a minare il suo potere personale mentre i buoni governanti lo fanno nell’interesse di un governo che intende perseguire il bene collettivo. Sta di fatto che il grande giurista perugino mette in luce la necessità, per governare una comunità, di disporre di una rete di informatori (multos exploratores) con il rischio che lo stesso strumento possa essere utilizzato per controllare ed eventualmente reprimere gli avversari politici.
Maria Giuseppina Muzzarelli insegna Storia medievale, Storia delle città e Storia e patrimonio culturale della moda all’Università di Bologna. Tra le sue ultime pubblicazioni A capo coperto. Storie di donne e di veli (il Mulino, 2016) e Le regole del lusso. Apparenza e vita quotidiana dal Medioevo all’Età moderna (il Mulino, 2020).
Nel volume contributi di: J.Briand, L.Coccoli, F.Franceschgiu, V.Lavenia, E.Loss, G.Milani, L.Molà, R.Muycciarelliu, M.G.Muzzarelli, S.Nakaya, R.Parmeggiani, E.Piazza, B.Pio, F.Rigotti, G.Ruozzi, F.Treggiari, C.Urso.