
Siamo soliti guardare al turismo come qualcosa di buono: il turismo stimola la curiosità e il desiderio di conoscenza delle persone, e favorisce gli incontri tra i popoli. Ma quando andiamo a vedere il dietro le quinte, ecco che ci accorgiamo che il turismo nasconde molte magagne. L’impatto ambientale dei flussi turistici e delle strutture turistiche è a volte devastante, i rapporti commerciali in ambito turistico sono spesso fortemente squilibrati, l’incontro con la differenza culturale riducibile a forme più o meno velate di neocolonialismo. In questo senso, allora, il turismo pone una questione etica ogni volta che l’offerta o la domanda turistica, o entrambe, provocano un qualche tipo di danno ingiusto, o in termini schiettamente materiali o perché si genera sfruttamento delle persone e si viola la loro dignità. L’etica del turismo serve quindi a ricordarci che cosa va fatto e che cosa non va fatto quando si agisce da turisti o quando si avviano attività commerciali in ambito turistico: è un invito a porre delle restrizioni sui propri comportamenti, anche se queste restrizioni comportano uno svantaggio di tipo economico o precludono l’accesso a esperienze piacevoli.
Ci tengo però a dire, poiché a questo punto si potrebbe creare un fraintendimento, che il mio libro non è una specie di breviario che vuole dettare i comandamenti ai turisti e ai tour operator; è piuttosto un tentativo di sviscerare filosoficamente i problemi che il turismo solleva. Questo significa affrontarli con la forza della ragione, il che significa sottoporre ad analisi i concetti, fare le distinzioni teoriche che vanno fatte ed elaborare argomentazioni, anziché ridurre il tutto all’espressione di buoni sentimenti innervati dall’indignazione di chi vede attuarsi qualche ingiustizia. È, insomma, il testo di uno studioso di filosofia e non il pamphlet di un militante.
Come si manifesta il turismo responsabile?
Turismo responsabile significa essenzialmente essere consapevoli delle conseguenze delle proprie azioni sulla scena turistica ed essere disposti a modificarle se sono in un qualche senso negative. Se per esempio venissimo a conoscenza che certe strutture turistiche da sogno in luoghi paradisiaci sono state costruite con il lavoro forzato delle popolazioni locali o danneggiando l’ecosistema, forse dovremmo avere qualche remora in più a prenotarvi una vacanza. In altre parole, se abbiamo definito che qualcosa è giusto che qualche cosa è sbagliato in ambito turistico, essere turisti responsabili significa optare per il giusto evitando lo sbagliato. Ovviamente il grande problema è stabilire che cosa è giusto e cosa è sbagliato. Il Codice mondiale di etica del turismo, approvato dall’Organizzazione mondiale del turismo nel 1999, ci dà alcune risposte, insistendo più volte sui temi della sostenibilità, dell’equità e del rispetto delle differenze culturali, ma lo fa in termini necessariamente molto generali, che possono apparire di scarsa spendibilità concreta. Per questo nel libro cerco di chiarire il significato di questi concetti e provo a sviluppare le loro implicazioni, per poi arrivare a discutere nel merito le questioni morali: da quelle più concrete ed evidenti, come per esempio che cosa c’è di sbagliato nel cosiddetto turismo sessuale, ad altre più teoriche e non legate al solo ambito turistico, come per esempio che tipo di doveri abbiamo verso le generazioni future.
Quale modello di turismo può vincere la sfida della sostenibilità?
Sostenibilità è un concetto complesso. Sorto con riferimento alla variabile ambientale, si è progressivamente esteso sino a comprendere, dalla Carta di Lanzarote in poi, anche le variabili economiche e sociali. La sostenibilità è dunque una sfida che si sviluppa in varie direzioni, non necessariamente tra loro sempre compatibili. Ma facendo riferimento ai vari documenti internazionali pertinenti per il discorso turistico, vediamo che è richiesto che l’impatto delle attività turistiche deve essere tale da non alterare quel che già c’è e non impedire lo sviluppo di ciò che ancora non c’è; inoltre, queste attività devono essere improntate a un criterio di durata, nel senso che la loro vitalità non deve avere limiti temporali. Si tratta naturalmente di “indicatori di direzione”, per la cui traduzione in comportamenti concreti e in politiche efficaci è necessario uno sforzo a livello di chi a qualche titolo opera nel turismo. Ma l’idea di fondo è che il turismo non deve essere del tipo “taglia e brucia”, bensì svilupparsi armonicamente con il contesto nel quale si svolge e senza prevaricazioni, dirette o indirette, sulle popolazioni locali.
Cosa si intende per “effetto Torremolinos”, “ibizzazione” e “rapallizzazione”?
Questi tre concetti fissano, ciascuno con la propria specificità, proprio quel tipo di turismo “taglia e brucia” di cui parlavo poco fa. L’effetto Torremolinos prende il nome da una località della Costa del Sol e serve a indicare quel circolo vizioso che si crea nelle dinamiche turistiche, in special modo relative al turismo balneare, per cui un certo luogo diventa estremamente popolare, ma ciò comporta presto sovraffollamento, traffico e inquinamento tali da indurre le persone ad abbandonare quel luogo per andare in un altro, dove si instaurerà presto il medesimo circolo vizioso. Ibizzazione è invece un termine che rimanda all’isola spagnola di Ibiza e che viene utilizzato per indicare il fatto che certe località balneari sono meta di una clientela giovane che si preoccupa solamente del divertimento notturno e scende in spiaggia a girono inoltrato. La conseguenza è che i servizi turistici si adeguano, la clientela anziana e le famiglie se ne vanno, la sicurezza (reale e percepita) si riduce e il rispetto dei luoghi e la loro conservazione viene messa a rischio. Infine, rapallizzazione risale a un reportage di Indro Montanelli del 1973 dedicato al Parco naturale regionale di Portofino e alla sua cementificazione: rapallizzazione è dunque sinonimo oggi di sviluppo edilizio selvaggio e indiscriminato. Effetto Torremolinos, ibizzazione e rapallizzazione sono tre concetti diversi, ma tutti e tre contribuiscono a mettere in luce alcune dinamiche turistiche capaci di produrre conseguenze non desiderabili o addirittura dannose.
È di attualità la proposta di introdurre a Venezia una selezione all’ingresso della città per limitare la congestione dei luoghi: è una strada percorribile?
L’idea di limitare gli accessi a Venezia può farci sorridere, ma è in realtà un modo per tutelare sia Venezia sia i turisti: Venezia, che sconta oggi un impatto antropico che il suo ecosistema fa fatica a reggere; i turisti, poiché un’esperienza turistica realizzata in contesti di grande congestione rende l’esperienza stessa meno gradevole. A questo ultimo riguardo, per comprendere quanto questa strategia non sia affatto sbagliata, basti pensare alla diversa e migliore fruizione che è consentita da ingressi contingentati e con una durata limitata quando si vanno a vedere opere d’arte (penso al Cenacolo vinciamo) se confrontata con altre realtà dove non vi è alcuna selezione: una grande ressa non è compensata, a mio modo di vedere, dal fatto di poter ammirare un quadro per tutto il tempo che si vuole.
Evidentemente, se si pensa a una politica di selezione all’ingresso, essa dovrà però prevedere criteri di accesso che rispecchino alcuni requisiti di giustizia. E questo naturalmente apre molte questioni: per esempio, è sensato e soprattutto non discriminatorio stabilire che entra chi prima arriva? E chi riesce ad entrare potrà starci tutto il tempo che vuole oppure avrà un tempo contingentato? Si potranno prenotare gli accessi o bisognerà presentarsi di persona e sperare di non avere troppe persone davanti? Questi che all’apparenza sembrano problemi molto tecnici e che sembrano toccare più che altro l’efficienza della macchina turistica nascondono in realtà interessanti problemi morali. Per esempio, favorire chi arriva prima significa, in contesti di grande affluenza, favorire chi è disposto a fare molta coda, cioè in ultima analisi chi ha molto tempo a disposizione. Ed è chiaro che, mentre per il singolo monumento questo può essere accettato, più complesso diventa se riferito all’intera città. In sintesi, l’idea di una selezione all’ingresso non è di per sé sbagliata, ma sono i criteri in base ai quali verrà realizzata questa selezione che daranno vita a una soluzione giusta o sbagliata.
Come si manifesta il voyeurismo turistico?
Nel mio libro ho chiamato voyeurismo turistico gli spostamenti turistici finalizzati alla visita di luoghi che sono stati teatro di avvenimenti tragici, siano essi conseguenza di atti umani o di forze naturali. Nella letteratura questo fenomeno prende il nome di dark tourism, che è appunto il viaggiare e visitare siti che sono associati alla morte, alla sofferenza o a ciò che è apparentemente macabro. Quando qualche settimana fa il sindaco di Amatrice ha invitato i turisti a non venire a farsi selfie sulle macerie, stava esattamente cercando di scoraggiare questo tipo di turismo. Naturalmente non ogni forma di turismo in luoghi dove sono avvenute tragedie è moralmente discutibile: pensiamo solamente al grande significato morale delle gite scolastiche sui luoghi della Shoah. Ma quando il turismo si forma attorno a luoghi dove sono accaduti fatti di cronaca nera che hanno ricevuto grande attenzione mediatica (delitto di Cogne, disastro della Costa Concordia ecc.) o dove si sono verificate calamità naturali (Amatrice è un esempio tra i tanti possibili), servirebbe da parte di tutti un surplus di attenzione, sia rispetto all’opportunità di recarsi in quei luoghi sia rispetto al tipo di atteggiamento da tenere in quei luoghi. La sofferenza umana non dovrebbe essere oggetto del nostro svago e del nostro viaggiare per diletto.
Il turismo è un vantaggio per tutti?
Sarebbe bello se fosse così, ma purtroppo non lo è. Il turismo è certamente qualcosa di gradevole per chi lo fa, ma l’impatto del turismo sugli ecosistemi, sulle società, sulle culture non è detto che sia positivo. Alla fine chi deve accogliere i turisti può magari trarre qualche guadagno economico, ma molto spesso paga un conto salato in termini ambientali sociali e culturali. E comunque anche il guadagno economico è stato dimostrato essere tutto sommato ridotto, dal momento che buona parte del turismo mondiale si riduce a uno scambio tutto interno ai Paesi ricchi, in cui i Paesi poveri ricevono sostanzialmente solamente le esternalità negative. Non voglio dipingere un quadro apocalittico del turismo e dell’industria turistica, e non voglio fare – come usa dire – di tutta erba un fascio, ma dobbiamo essere consapevoli che nel grande gioco del turismo ci sono dei vincitori e ci sono dei perdenti, e riequilibrare le forze in campo, rendendo un po’ meno perdenti alcuni anche a costo di rendere un po’ meno vincenti gli altri, è forse la sfida più grande che tocca oggi a un turismo che voglia definirsi etico.