
Quali sono le varianti fabulatorie sul tema della violenza femminile nel Medioevo?
Sono numerosissime e vanno dalla storiografia alla mitologia, dal folclore all’agiografia e oltre. Di là dalla bellicosa eccezionalità della donna guerriera infatti — forse, la forma di violenza più scontata, benché personaggi come Giovanna d’Arco siano assai più complessi di quanto si possa immaginare — nella letteratura medievale troviamo di tutto: donne omicide, infanticide, cannibali, traditrici della patria luxuriae causa, adultere vendicative, avvelenatrici, violente per gelosia o per rabbia; donne, che praticano forme di violenza psichica, manipolatrice, meditata, fredda e razionale. C’è, poi, la casistica della violenza autoinflitta: quella delle donne suicide, certo; ma anche quella, meno evidente, della «santa anoressia» e della violenza purificatrice della mistica. Di fianco, per prossimità, troviamo la violenza espiatrice di àmbito monastico femminile, di cui un racconto raccapricciante come quello della monaca di Watton fornisce un paradigma terribile, quanto esaustivo. Naturalmente, nel Medioevo non può mancare la violenza esoterica della magia, la cui escursione oscura va dal filtro d’amore, all’alchimia, alla stregoneria vera e propria. Se, poi, ci spostiamo nel territorio del mito (non parlo solo di riprese del mito greco- romano, ma anche e soprattutto di mitologia germanica), si apre un altro vastissimo filone d’indagine: qui incontriamo la violenza della mostruosità fantastica (basti pensare anche solo alla madre di Grendel nel Beowulf) o quella di spietate divinità femminili preposte alla guerra. Infine, ci sono le attestazioni storiche o giuridiche della violenza femminile (nelle cronache, nell’omiletica, nella casistica legale) e quelle, divertite, della cultura comico-parodica di estrazione popolare (i cosiddetti fabliaux). Come vede, ce n’è per tutti i gusti.
Quali elementi accomunano i racconti di violenza muliebre medievali?
È difficile, come sempre in questi casi, massimalizzare. Forse, il minimo comune denominatore, che unisce la maggior parte di queste declinazioni letterarie dell’aggressività muliebre è quello di essere quasi sempre descritte come espressione di una violenza «seconda»: o perché di reazione, o perché utilizza infingimenti e mezzi obliqui per raggiungere i propri obiettivi. Mentre gli uomini usano spesso la violenza fisica — «nel fragore della carne», per citare Ernst Jünger — le donne impiegano più di frequente forme di violenza crepuscolare, sottile, subacquea. Di là dalla virago, insomma — che, in quanto androgina, si staglia come paradigma protomaschile a sé stante — la fenomenologia letteraria della violenza muliebre è «anguiforme» nei modi e, proprio per questo, insidiosissima. La donna appare fondarsi più sull’astuzia, che non sulla forza; più sulla macchinazione, che non sul caricare a testa bassa, aperto e irruente; più sulla premeditazione, sull’intrigo, sul tranello, sull’inganno, che non sull’assalto o sul colpo eroico; più sulla simulazione, sulla manipolazione, sulla seduzione, sul condizionamento, che non su un’inequivocabile manifestazione di ostilità. Non a caso, in questi testi, l’arma prediletta della donna è il veleno; cui, a volte, per compensazione, si aggiungono la delazione e il sicario. La motivazione è evidente: se l’attacco della donna fosse aperto e palese, difficilmente, potrebbe avere successo e la donna si troverebbe in pericolo. Potremmo dire, dunque, che si tratta della prudenza del cacciatore: il quale, per catturare una preda più grande e più forte di lui, non l’affronta apertamente, ma aspetta il momento propizio per tenderle un agguato. In una società maschile come quella medievale, naturalmente, questo va a detrimento della dignità del femminile: in una dimensione guerriera e cavalleresca, «colpire alle spalle», infatti, non è considerato certo un gesto eroico. Tuttavia, andiamoci piano con l’accusare subito di misoginia questi ritratti di violenza muliebre e con l’appellarsi al postulato misandrico per cui uno scrittore è, sine ullo dubio, disonesto se tratteggia la malvagità di una donna. Come ho già anticipato, molti di questi racconti forniscono al lettore elementi sufficienti per giustificare l’aggressività della donna e per leggere il suo comportamento violento come legittima difesa: dunque, non mi affretterei a distribuire contrassegni d’infamia agli scrittori medievali, il discorso è assai più complesso. Il ritratto che Boccaccio fornisce di Pentesilea, per esempio, è splendido. In ogni caso, a scanso di equivoci, ricordiamoci sempre che lo scopo di Dira mulier non è quello di far emergere la realtà storica, né la sua interpretazione antropologica, sociologica, psicologica; né, tantomeno, quello di affrontare la più alta questione della violenza di genere; bensì è quello d’illustrare la fenomenologia letteraria medievale del racconto di violenza muliebre.
A quali modelli si ispirano i racconti di violenza muliebre medievali?
Anche qui, è difficile massimalizzare. Per entrare nel Medioevo, abbiamo bisogno della cooperazione di tre fondamentali componenti culturali: quella romana, quella cristiana e quella germanica. La cospirazione di questi tre fattori cambia il mondo e ci porta dall’Età Antica all’Età di Mezzo. Ebbene, le fonti dei testi medievali rispondono al medesimo principio. I paradigmi di violenza femminile forniti dal mito greco- latino, per esempio, sono ben presenti agli autori medievali attraverso Ovidio, Igino, i Mitografi Vaticani oppure opere creativamente compendiarie come l’Ecloga Theoduli. Prima fra tutte, naturalmente, Medea, il cui fantasma ritorna nella vicenda di Maria di Bathezuba o nella carrellata di avvelenatrici, antropofaghe e assassine contenuta ne Lo Spill (1460) di Jaume Roig; ma non c’è solo Medea: nella vicenda di Romilda (Historia Langobardorum), per esempio, traligna, latente, la figura di Scilla. Parallelamente a quelli del mito classico, ci sono, poi, gli apporti del mythos biblico e cristiano; soprattutto, di quello veterotestamentario. Ci riferiamo, in particolar modo, alle figure di Giuditta e di Dalila, che, pur essendo fra loro moralmente speculari, dal punto di vista della mitocritica sono sovrapponibili: le ritroviamo, infatti, sovrapposte e variamente intersecate nel celebre racconto dell’uccisione di Alboino da parte di Rosmunda, sempre contenuto nell’Historia Langobardorum. Infine, abbiamo l’apporto della mitologia germanica, della storiografia e, in ultimo, del folclore. Siamo così giunti alla fonte più sfuggente della letteratura medievale: la cultura popolare. Ci sfugge in quanto volatile, in quanto soprattutto affidata alla tradizione orale, che, se non registrata almeno come eco dai testi, è irrimediabilmente perduta. Vorrei essere chiaro su questo: noi abbiamo un’idea distorta della cultura del Medioevo perché siamo condizionati dalle testimonianze scritte, in particolar modo, latine, che ci appaiono — ben confezionate in comode edizioni critiche, facilmente fruibili — componente maggioritaria della cultura di quel mondo; ma la cultura maggioritaria, la cultura di massa, nel Medioevo era orale. Purtroppo, in quanto tale, quella componente è oggi, assai difficilmente, ricostruibile. E, tuttavia, senza conoscere la qualità di quell’apporto, ogni nostro discorso sul mondo del Medioevo resterà viziato da un’inguaribile parzialità.
Quali specificità esprime, su questo tema, la letteratura germanica antica e medievale?
A questa domanda, più del sottoscritto, dovrebbero rispondere i colleghi germanisti Rita Caprini, Alessandro Zironi e Caterina Saracco, i cui contributi in Dira mulier hanno egregiamente illustrato la fenomenologia della violenza femminile nelle letterature germaniche medievali; io, in quanto mediolatinista, posso solo ripetere ciò che ho imparato da loro in qualità di curatore del volume. Certamente, in àmbito germanico le donne hanno avuto, da sempre, un ruolo di primo piano e alcune di queste figure femminili sono note proprio per non essere degne rappresentanti del «gentil sesso» ossia per non costituire prototipi incarnati del cosiddetto «eterno femminino», che tanto irritava Simone de Beauvoir. È il caso, per esempio, di Crimilde, personaggio risonante del noto poema epico-eroico medio alto-tedesco Nibelungenlied, la quale, privata dell’amore di Sigfrido, uccide per vendetta i suoi fratelli; ma nella letteratura germanica non vi sono solo donne vendicatrici: ci sono anche donne costrette alla violenza per salvare sé stesse, i propri cari o il proprio popolo. Di più. Troviamo anche eroine declinate secondo i canoni descrittivi propri dell’agiografia cristiana (in particolar modo, di quelli di Giuditta), cui vengono associate descrizioni cariche di pathos, tipiche della climax dell’epica poetica germanica. Attraversando la letteratura norrena delle saghe, inoltre, ci siamo imbattuti in un caso curioso quanto emblematico: quello di Freydís, che, di fronte all’avanzare preponderante dei nemici, là dove gli uomini se la danno a gambe, lei raccoglie da terra la spada di un compagno morto e affronta la battaglia denudandosi il petto e battendoci sopra la spada. A questa vista gli assalitori fuggono terrorizzati. La scena è, indubbiamente, misteriosa, ma resta il fatto che Freydís viene presentata come una donna, addirittura, più coraggiosa degli uomini stessi. In un’altra pagina, il dato del suo coraggio sarà confermato: armata d’ascia, Freydís procederà, infatti, all’esecuzione di alcune donne prigioniere, che nessun uomo aveva l’animo di uccidere proprio in quanto donne. Inutile dire che il medievale femminile germanico, già a partire dal noto personaggio di Cassio Dione, Budicca, manifesta inequivocabili tratti ferini e virili. Della donna virago, del resto, le Valchirie sono certo una delle ipostasi mitologiche più conosciute. Basti pensare anche solo a Brunilde, la Valchiria più famosa, che possiede un nome che significa «battaglia» (hildr) «in cotta di maglia» (brynja). Nei Gesta Danorum, Sassone Grammatico narra spesso di donne violente, dedite alla guerra, alle razzie e agli omicidi. Una delle prime figure a comparire è quella di Alvilda, sorta di piratessa; ma la donna guerriera più famosa è Lagertha (o Lathgertha), che, come la Sichelgaita del Medioevo normanno-svevo, dà l’esempio in battaglia, rinfrancando l’animo dei guerrieri, e mostra di essere un’eccellente stratega, gettando gli avversari nel panico. Alla fine, ne ricaviamo l’impressione che la fenomenologia del femminile violento nella letteratura germanica sia maggiormente condizionata dal perfezionare e dall’esaurire un freudiano, competitivo confronto con il maschile, che non a esplorare autonomi percorsi di aggressività. Certo è che, come ha intuito Alessandro Zironi, a livello sociale, il racconto della violenza femminile nella letteratura germanica medievale non è soltanto un monito rivolto all’uomo affinché controlli e sottometta la donna, ma è, contestualmente, un ammonimento verso quegli uomini, che si lasciano sottomettere, rinunciando al proprio ruolo. Si tratta pertanto di narrazioni, latrici di un sistema sociale in crisi, in cui i ruoli tradizionali sono messi in discussione e dove l’ordine si trascina nel disordine. Uomini e donne delle saghe, ma anche dei poemi eroici, in definitiva, sono degli exempla comportamentali da accettare o da respingere, quasi sempre proposti in un’ottica conservatrice, che guarda al passato: poco avvezza, cioè, ad accogliere la novità di una nuova organizzazione del vivere civile e dei rapporti fra i sessi.
Quale interpretazione è possibile offrire della fenomenologia letteraria della violenza femminile nel Medioevo?
La prima cosa da dire, a parer mio, è che la letteratura medievale attesta l’esistenza della violenza femminile: una realtà, che oggi vorremmo rimuovere, probabilmente, perché (cito dal bel volume di W. Lower, Le Furie di Hitler. Complici, carnefici. Storia delle donne che appoggiarono il Reich, Milano 2018) «l’idea che la violenza fisica non sia una caratteristica femminile e che le donne non siano capaci di commettere un omicidio di massa ha un ovvio fascino: consente di sperare che almeno la metà della razza umana non distruggerà l’altra, che proteggerà i bambini e perciò salvaguarderà il futuro»; e, tuttavia, «minimizzare il comportamento violento delle donne crea un falso scudo». Speculum vitae, la letteratura medievale ci mostra, invece, di sapere che, pur provenendo da Venere, anche le donne sanno essere violente. La letteratura, come la storia, ci ricorda che ritenere sessuata la violenza, farne un’esclusiva prerogativa ontologica dell’uomo, risponde a un assurdo principio manicheo, per il quale si vorrebbero Bene e Male come opposte qualità del patrimonio cromosomico. Una simile, bizzarra dicotomia può valere, però, solo sull’assito d’un teatro ideologico del mondo, fondamentalmente misandrico, dove si recita la tragedia di un femminile perseguitato, angelicato sempre, che «fugge» da un persecutore maschile, demonizzato sempre; non certo sulla scena della letteratura, la quale, per sua stessa vocazione, si dà come trasposizione eroica — anche latente perché ideale, fiabesca o immaginaria — di una comunque-realtà, che s’intende, in qualche modo, non solo raccontare, ma rivelare. Naturalmente, a fronte di tutto questo, c’è un dato oggettivo, che nessuno nega: in percentuale, a essere vittime storiche di comportamenti aggressivi, sono state e tutt’ora sono, purtroppo, in maggioranza le donne; ma la realtà sociale non è il punto, né lo scopo della nostra ricerca. C’è una spessa nebula, che ammanta di mistero il fenomeno dell’affabulazione letteraria medievale della violenza declinata al femminile: abbiamo tentato di diradarla. Dalla nostra ricerca abbiamo compreso che la concezione della donna come essere debole è molto moderna, nonostante che il nesso mulier a mollitie approdi e sedimenti in Occidente come voce d’enciclopedia già nel VII sec., nelle Etymologiae di Isidoro. L’applicazione categorica di questo pregiudizio — il mito della femmina debole — avverrà concretamente solo quando comincerà a imporsi una visione idealizzata del femminile, diffusasi con l’amor cortese e con la poetica dello Stilnovo, che troverà, però, massima espressione a partire dalla sensibilità neogotica di epoca romantica. Insomma, il femminile cui battere a la chiusa imposta con un ramicello di fiori / glauchi ed azzurri non è stato sempre l’unico, esclusivo modello nel quale il femminile stesso potesse riconoscersi. La letteratura medievale conosce tipi muliebri più vari e in spazi, e in tempi, e in testi diversi quella cosa venuta / da cielo in terra a miracol mostrare poteva anche essere una Valchiria, beatrix perché diretta, anziché al Paradiso, al Valhalla. Si tratta, in sostanza, del problema (della disputata questione) dell’evolversi (o dell’involversi, dipende dai punti di vista) del rapporto culturale sussistente fra condizioni storiche, identità sessuale e ideologia della differenza. In questo senso, si capisce molto bene l’epocale grandezza dell’operazione di riscatto del femminile realizzata in The Lord of the Rings dal medievista J. R. R. Tolkien attraverso il rivoluzionario personaggio di Éowyn. Éowyn, infatti, non solo emancipa la donna dalla necessità d’essere debole e inferiore, ma la emancipa, anche e soprattutto, dal pregiudizio per cui, per poter essere eroica e «virile», una donna sarebbe costretta ad assimilarsi al maschile, rinunciando al proprio sesso, esponendosi a tutte le stigmatizzazioni socialmente squalificanti, che ciò comporta. Ciò detto, è indubbio che la fenomenologia della violenza al femminile presente nella letteratura medievale va storicizzata. Nel Livre de la Cité des Dames di Christine de Pizan, per esempio, c’è una serie di bellicosi ritratti femminili contraddistinti dal possedere un «cuore d’ardimento virile» (cuer de hardiece d’omme), ma la cui virilità non si limita al coraggio, alla forza e all’audacia: si esprime anche in atteggiamenti di conclamata violenza, di crudeltà e di vendicativa spietatezza, cosa che, però, non pare turbare minimamente l’autrice, né macchiare, ai suoi occhi, l’eroica virtù di queste figure. Si tratta, certo, d’altri tempi. Christine de Pizan appartiene a una società medievale, che è, comunque, immersa nella violenza: la violenza è ovunque, in omni loco; e un mondo violento, non è fatica immaginarlo, avrà determinato una percezione e una sensibilità al sangue, anche quando sparso da soggetti femminili, profondamente diverse dalla nostra. Alla fine, se c’è una cosa che, forse, questo complesso percorso nella fenomenologia letteraria delle dirae mulieres ci insegna, è che non possiamo pensare di modellare la donna in una forma per noi più accettabile, ma dovremmo essere capaci, al contrario, di accettare anche l’esistenza del «femminino selvaggio», l’«archetipo della Donna Selvaggia»; accettare, cioè, che, oltre l’icona compassionevole della «Madre», sussista anche un «essere matrilineare alfa»: e non come un’aporìa, ma come l’ipostasi d’una remota vita istintiva, cui anche le donne possono attingere. Le donne, oggi, conoscono, ma rifiutano la loro aggressività: la temono e la rimuovono in quanto la ritengono una pericolosa forza oscura. In fondo, questo è lo scandalo del mito di Medea: quello d’intercettare una potente interdizione sociale, per cui la violenza femminile dissacra l’icona della madre. In realtà, nelle forme proprie del loro «realismo», gli autori medievali mostrano di conoscere molto meglio di noi la psicologia del femminile e di essere consapevoli di come, in qualsiasi momento, anche le ossa d’una donna possano tornare a coprirsi d’una insospettabile pelle di lupo.
Francesco Mosetti Casaretto è Professore associato di Letteratura latina medievale all’Università di Torino