
La prima è che prenda forma una redistribuzione del potere su scala globale, capace di determinare in qualche misura l’erosione del primato delle potenze interessate a difendere lo status quo. Tale condizione oggi è largamente associata alla progressiva ascesa economica, politica e militare della Repubblica Popolare Cinese (RPC) e, in misura minore, a quella degli altri Paesi dell’Indo-Pacifico. In questa sede, sarà sufficiente ricordare che nel 2000, secondo i dati della Banca Mondiale, gli Stati Uniti ancora controllavano il 30,5% del prodotto interno lordo globale, mentre nel 2019 la loro quota era scesa al 24,5%. Sempre nel 2000, i Paesi Ue ne detenevano il 23,4%, mentre nel 2019 erano calati al 17,45%. Al contrario, se a inizio millennio i Paesi dell’Asia orientale e del Pacifico insieme all’India pesavano per il 23% sul Pil mondiale, nel 2019 erano arrivati al 34,3%, di cui circa la metà era in mano alla sola Repubblica Popolare Cinese. La Russia, invece, nonostante la crescita significativa degli anni Duemila (+7% di media annua), ha superato solo nel 2007 e nel 2008 la soglia del 2% del prodotto globale.
Nella dimensione militare, i dati del Stockholm International Peace Research Institute confermano questa tendenza anche se in misura meno accentuata. Se nel 2000 la spesa militare statunitense ammontava al 42,9% di quella globale e i Paesi Ue raggiungevano il 17,8%, nel 2019 la spesa dei primi si è contratta al 39,4% mentre quella dei secondi fino al 11,6%. Viceversa, se nel 2000 gli investimenti militari in Asia rappresentavano il 16,6% della quota mondiale e quelli di Pechino il 3%, nel 2019 si è passati rispettivamente al 26,2% e al 13,4%. La Russia, dal canto suo, negli stessi anni è passata dal detenere l’1,9% del budget militare globale al 3,1%.
La seconda condizione necessaria affinché si possa parlare di una sfida strategica all’ordine internazionale è che le potenze “in ascesa” sviluppino insoddisfazione nei confronti di quest’ultimo e che, pertanto, finiscano per assumere una postura “sfidante”. Anche questa condizione sembra soddisfatta sia dal caso russo che da quello cinese. La richiesta di cambiamento, infatti, si è cominciata a manifestare apertamente – anche se con modi e toni diversi – in concomitanza con la crisi finanziaria del 2007-2009 e l’impasse in cui sono incappate le missioni a guida americana in Afghanistan e Iraq.
Mosca, tuttavia, si è mossa per prima in questa direzione. Il presidente Vladimir Putin, infatti, già alla Conferenza di Monaco del 2007 ha dichiarato la sua opposizione all’ordine internazionale modellato dagli Stati Uniti, definendolo pericoloso per la Russia e scarsamente democratico. Tale rappresentazione è divenuta poi la cornice dei principali documenti strategici russi nonché dell’aggressione all’Ucraina. Pechino, dal canto suo, sembra aver superato il suggerimento di Deng del «nascondi la tua forza, aspetta il tuo tempo», mostrandosi sempre più ostile all’ordine del post-Guerra fredda, soprattutto nella sua declinazione asiatica, sia a livello teorico che pratico. Nei documenti ufficiali, d’altronde, ormai ventila la necessità di una sua modifica poiché «basato sulla mentalità da Guerra Fredda, sul gioco a somma zero, sul ruolo della forza» e «sull’unilateralismo».
Quanto si sta discostando l’amministrazione Biden da quelle che l’hanno preceduta nelle politiche adottate per preservare l’ordine internazionale liberale?
Il principale elemento di continuità tra l’Amministrazione Biden e quelle guidate da Trump e Obama è la convinzione che gli Stati Uniti non possano più agire come garante in ultima istanza su ogni questione e in ogni angolo del globo, così come avevano provato a fare negli anni di Clinton e Bush jr con il cosiddetto deep engagement. Nell’impostare la loro strategia, queste tre amministrazioni hanno tenuto ben presente il pericolo della “sovraestensione imperiale” – ovvero l’incapacità di far fronte a tutti gli impegni assunti in presenza di una diminuzione delle risorse disponibili – che è considerata generalmente una delle principali cause del collasso delle potenze egemoniche e degli imperi.
Partendo dalle stesse premesse, le tre Amministrazioni sono apparse convinte della necessità di attuare una politica di retrenchment (riduzione degli impegni), ma hanno differito nelle modalità in cui applicarla.
Obama e Biden hanno optato per il selective engagement, soluzione strategica che prende le mosse dalla consapevolezza che le risorse sono scarse anche per una potenza egemonica e, quindi, non vadano sperperate. Tale strategia sgombra il tavolo sia da definizioni eccessivamente restrittive di sicurezza, che da sue definizioni eccessivamente espansive, e spinge l’egemone a collocarsi in un punto di equilibrio tra il “fare troppo” e il “fare troppo poco” per il mantenimento dell’ordine internazionale. In tal prospettiva, essa si concretizza in un impegno intenso – sia nella disponibilità al ricorso alla forza, sia in quella a sostenere le istituzioni internazionali – ma che deve restare circoscritto all’area – o alle aree – da cui dipendono le sorti dell’ordine internazionale.
L’Amministrazione Trump, invece, è sembrata muoversi verso l’obiettivo dell’offshore balancing, che avrebbe implicato tuttavia molto più tempo per concretizzarsi. Tale soluzione prescrive una limitazione dell’impegno nella dimensione istituzionale da parte dell’egemone, a fronte del mantenimento del suo primato militare. L’egemone, tuttavia, deve ridurre al minimo la presenza nei quadranti esterni al suo, tenendosi sempre pronto a intervenire quale bilanciatore d’oltremare laddove si profili l’emergere di un peer competitor. Il principale strumento a servizio di questa strategia è la preservazione del controllo delle cosiddette dimensioni “comuni” – storicamente il mare e successivamente le dimensioni aerea, dello spazio extra-atmosferico e, più di recente, cyber.
Quali linee di continuità e discontinuità è possibile ravvisare nella politica estera americana del post-Guerra fredda?
L’elemento comune a tutte le Amministrazione del post-Guerra fredda è la volontà di preservare l’ordine internazionale scaturito dalla sconfitta dell’Unione Sovietica e modellato dagli Stati Uniti. Le qualità liberali che ne hanno spesso contraddistinto l’esercizio del comando, infatti, troppo spesso hanno indotto gli osservatori – anche i più attenti – a dimenticarne l’essenza. Riflettere su un “ordine” significa avere a che fare con un concetto che ontologicamente presuppone l’esistenza di una gerarchia. Pertanto, non c’è stato – e probabilmente non ci sarà – un solo presidente americano che non abbia avuto quale obiettivo-vincolo la difesa di uno status quo che vede Washington al vertice della piramide del potere mondiale.
La discontinuità, come già evidenziato, è sorta sulle modalità più efficaci per raggiungere questo obiettivo. La scelta non è avvenuta sulla scorta di convinzioni personali dei presidenti, dei principali esponenti delle loro Amministrazioni o delle promesse effettuate in campagna elettorale. Sia sufficiente ricordare che due presidenti passati alla storia per il loro spiccato “internazionalismo” – Clinton e Bush – erano arrivati alla Casa Bianca con la promessa di tagliare drasticamente l’impegno americano nel mondo. Specularmente, un presidente come Biden che arriva a guidare il Paese sull’onda emotiva dello slogan “America is back” si è trovato nel primo anno di presidenza ha realizzare il più grosso taglio egli impegni del Paese nel post-Guerra fredda, ovvero il – rocambolesco – ritiro dall’Afghanistan.
Nel volume “Come difendere l’ordine liberale” emerge chiaramente una linea di continuità strategica tra i primi due presidenti eletti nel post-Guerra fredda e gli altri tre. E questa non può che essere spiegata con la variazione delle condizioni materiali con cui queste cinque Amministrazioni si sono confrontate. A fronte di un contesto politico-strategico meno insidioso, Clinton e Bush hanno potuto assumere un maggior numero di impegni, in un maggior numero di quadranti. In presenza di minacce strategiche come quelle poste dalla Cina e dalla Russia e della redistribuzione relativa delle risorse causata dalla crisi economico finanziaria del 2007-2009, invece, Obama, Trump e Biden hanno dovuto optare per un taglio parziale degli impegni internazionali.
Quali dimensioni si rivelano cruciali per la tenuta complessiva dell’ordine liberale e quali dinamiche caratterizzano l’evoluzione dell’approccio statunitense verso di esse?
Condizione necessaria ma non sufficiente per l’egemonia è la presenza nel sistema internazionale di uno Stato che surclassi tutti gli altri in ogni dimensione del potere, anzitutto quella militare. Tale configurazione, tuttavia, di per sé segnala solo un assetto unipolare sotto il profilo strutturale. Affinché l’egemonia si verifichi è necessario, da un lato, che la potenza più “capace” sia animata dalla volontà di guidare i cosiddetti Stati secondari e, dall’altro, che una fetta consistente di questi ultimi ne riconosca l’autorità.
È in questa terza componente che subentrano tre politiche che hanno permesso all’ordine a guida americana di presentarsi come un ordine “liberale”: la promozione dell’intergovernamentalismo, dell’interdipendenza economica e della democrazia. Esse, tuttavia, non ne costituiscono l’elemento essenziale, ma solo tre strumenti di governo utili ad abbassarne i costi e fornirle legittimità. Il consenso, infatti, può essere conseguito anche per altre vie. Quella più pericolosa, costosa e di breve termine è quella della paura, che presuppone il ricorso o la minaccia del ricorso alla violenza contro gli Stati non allineati. L’altra, utilizzata molto di frequente anche dagli Stati Uniti, è quella di uno scambio tra allineamento su questioni strategiche da parte degli Stati “secondari” e la fornitura di “servizi pubblici” (sicurezza, libertà di navigazione, sostegni economici, protezione diplomatica, ecc…). Le politiche “liberali”, invece, risultano dispendiose sia politicamente che economicamente per Washington e producono ottimi risultati, ma solo nel medio-lungo periodo.
Per tale ragione, al cospetto di minacce strategiche come accade anche oggi, gli Stati Uniti si sono trovati costretti a scegliere dove collocare prioritariamente le loro risorse. E, a dispetto dell’alternanza tra i presidenti in carica, non hanno avuto molti dubbi. La loro preferenza, come riporta la Interim National Security Strategic Guidance dell’Amministrazione Biden, si è tradotta in politiche rivolte alla difesa delle «condizioni di vantaggio» di cui il Paese gode e alla preservazione della sua «leadership internazionale», mentre ha sacrificato – non considerandole strategicamente vitali – le politiche di coinvolgimento degli altri Stati in consessi multilaterali su base di parità, di stabilizzazione dei mercati finanziari, di salvaguardia della libertà dei commerci e di promozione della democrazia.
Gabriele Natalizia è professore associato di Scienza politica nella Sapienza Università di Roma, dove insegna International relations e Sicurezza e politica internazionale. Dirige il Centro studi Geopolitica.info (www.geopolitica.info) e collabora con il Centro Alti Studi della Difesa (CASD) per il corso Superiore di Stato Maggiore Interforze (ISSMI). Tra le pubblicazioni più recenti: Renderli simili o inoffensivi. L’ordine liberale, gli Stati Uniti e il dilemma della democrazia (Carocci, 2021); Gli “insoddisfatti”. Le potenze revisioniste nella teoria realista delle Relazioni internazionali, Quaderni di Scienza politica, XXVII, 2-3, 2020 (con Lorenzo Termine); Tracing the modes of China’s revisionism in the Indo-Pacific. A comparison with pre-1941 Shōwa Japan, Italian Political Science Review, 2020 (con Lorenzo Termine).