
a cura di Rosanna Brusegan
Einaudi editore
«I fabliaux sono fatti di fables, di menzogne e di finzioni […]. Il corpus rimastoci è costituito da circa 140-60 testi (le opinioni dei critici divergono) in gran parte anonimi, alcuni con firme famose di chierici di professione attivi anche in altri generi letterari come l’artesiano Jean Bodel o il parigino Rutebeuf. Sono da collocarsi tra il 1159-70, data di Richeut, che non è un vero e proprio fabliau ma lo annuncia per molti aspetti, e il 1340, anno in cui muore Jean de Condé. La testimonianza del prologo della seconda branche del Roman de Renart del 1179 (i fabliaux sono citati come facenti parte del repertorio di un giullare) lascia tuttavia pensare che abbiano potuto esistere già verso la metà del XII secolo.
Il XIII secolo soprattutto, è l’epoca di massimo splendore del genere. È questo un momento di profondi rinnovamenti sociali, tanto più evidenti nelle regioni in cui si è sviluppata la maggior parte dei fabliaux. Le province del Nord-Est della Francia, la Piccardia soprattutto, conoscono infatti un’intensa fioritura commerciale e artigianale con il conseguente fenomeno dell’urbanesimo e la modificazione dei rapporti sociali. La disgregazione dei valori feudali e cavallereschi non è ancora giunta all’apice; la nobiltà vive tempi duri e per le sue guerre è costretta a ricorrere alla ricca borghesia che detiene il monopolio finanziario. Preso dalla guerra col re d’Inghilterra, il re di Francia Filippo Augusto trova interesse a conciliarsi proprio quella ricca borghesia permettendo l’ascesa del patriziato di estrazione borghese al governo della città, potere confermato poi dai successori. Allo stesso tempo i nuovi valori borghesi non sono ancora sufficientemente elaborati ed autonomi e si costituiscono in forma riflessa nel tentativo di scimmiottare quelli cortesi ridotti ormai a stanchi cerimoniali. Il desiderio della nuova borghesia di nobilitarsi attraverso la cultura favorisce l’attività dei giullari e chierici di professione. […]
Il denaro circola, sorgono botteghe, mercati, osterie e con essi nuove forme di dipendenza, la divisione del lavoro all’interno delle botteghe artigiane, il restringersi e il frantumarsi degli spazi, il mutamento della prospettiva convergente verso l’interno delle case, verso il privato, il quotidiano. Lo spiare per porte e serrature, l’origliare di nipoti, ladri o amanti colti sul fatto e la stessa velocità e frammentarietà dell’azione e del narrato, in questa letteratura, tradiscono non solo la topografia ristretta fisico-geografica della città (la campagna, se c’è, è molto spesso in funzione di quest’ultima: i due termini villano e borghese s’incrociano per un certo periodo per distanziarsi solo in seguito), ma ci dànno anche la tonalità di una individualità nuova. E non è da dimenticare il ruolo svolto dalle scuole episcopali e dalle nascenti università nell’allargare il numero dei chierici e studenti, padroni di una solida cultura clericale e mediatori tra nobiltà e borghesia, come mezzana e meretrice lo sono all’interno della cité.
I fabliaux nascono dunque nel Nord-Est della Francia e ne riflettono le contraddizioni e le caratteristiche ma non c’è una presa di posizione di classe. Sono racconti fatti di fables, di finzioni, ma anche delle fables come le intendeva Marie de France per cui non c’è «fable de folie | u il nen ait philosophie», cioè non c’è finzione in cui non si possa trovare moralità. Ma sono delle fables brevi e leggere, al diminutivo dunque, fablel, fableaus o, nella loro forma piccarda, fabliaux, racconti della lunghezza media di circa 300-400 versi ottosillabi a rima baciata di stile basso o di stile alto ma di contenuto basso, a carattere comico o serio (la definizione famosa di Bédier «contes à rire en vers» è troppo univoca). È una letteratura di intrattenimento dunque dove beffa e moralità, serietà, erotismo e scatologia si uniscono. Il fabliau è definito dagli autori indifferentemente come fablel, fable, exemple, dit, lai, conte, roman, mençonge; lo stesso testo infatti in tempi, luoghi e circostanze di esecuzione diversi, poteva avvicinarsi all’uno o all’altro dei generi contigui. Tra i tanti termini quello di exemple merita particolare considerazione. La letteratura di exempla, brevi aneddoti e racconti usati nei sermoni dei predicatori ad illustrazione della moralità, è infatti una delle fonti non secondarie dei fabliaux. Si tocca così il problema dell’origine di questi testi che, inseriti nel più vasto problema, falsamente considerato fondamentale, della nascita del racconto occidentale, ha diviso la critica ottocentesca tra fautori dell’origine ariana (Grimm tra gli altri) e dell’origine orientale (Benfey ad esempio) che ammettono l’origine indiana dei racconti ed aneddoti propagatisi poi in Occidente attraverso le crociate, i pellegrinaggi, la mediazione dei colti ebrei di Spagna, volgarizzatori e traduttori dall’arabo in latino. […]
In generale sono oggetto di narrazione fatti eccezionali (aventures), ma quotidiani e sempre individuali, che non trasportano i personaggi in un altro mondo ideale per poi reintegrarli nella realtà come accade nella letteratura cortese, ma che interrompono la serie di eventi quotidiani solo per un sovrappiù di emozioni, di suspence. Gli eroi vengono presentati con frasi qualificative che prefigurano la diegesi, positiva o negativa a seconda degli attributi che i personaggi hanno ricevuto all’inizio del fabliau. Un borghese usuraio non potrà non subire un peggioramento della sua situazione iniziale che lo vuole ricco e avaro, e il pubblico si attende fin dall’inizio il tradimento che subirà dalla moglie (De la borgoise d’Orliens), il movimento costante dall’esterno verso l’interno, con la partenza in funzione del ritorno, il guadagno del mercante alla fiera in funzione dell’accumulo, ecc. Ma se all’inizio del racconto viene annunciata la povertà dell’eroe il pubblico si aspetterà di norma il buon accordo dei coniugi e un loro inganno in funzione difensiva (D’Estormi). Personaggi e temi sono dunque visti in una pluralità di prospettive. Manca il punto di vista privilegiato di un eroe unico come nel romanzo cortese o nel lai o nella fiaba.
I personaggi sono pochi in conseguenza del fatto che il fabliau si fonda su un unico motivo, come auspicano gli autori stessi quando parlano della brevità necessaria al racconto per evitare la noia e la pesantezza. L’unicità del motivo fa sì che solo dopo aver esaurito un motivo se ne possa introdurre un altro aumentando il racconto, ma la lunghezza non deriva mai da un motivo complesso. Là dove questo si verifica è possibile riscontrare l’influenza della tradizione letteraria, come in Richeut, prodotto della cultura clericale più vicina alla letteratura mediolatina.
La sequenza attributiva iniziale non serve a caratterizzare psicologicamente i personaggi, ma a qualificare il tipo di mancanza che l’azione narrata si prefigge di sopprimere. Un fabliau può quindi prendere le mosse dal desiderio insoddisfatto di una moglie il cui marito è rimasto lontano da casa per mesi e, soddisfatto dei guadagni, al suo ritorno non le dedica le dovute attenzioni, o dalla mancanza di uno sposo, o dalla minaccia di seduzione da parte di un prete che colpisce una moglie fedele al marito. A questo l’azione pone rimedio spesso attraverso manovre ingannatorie, siano esse vere e proprie strategie o semplici indovinelli verbali erotici. Le manovre persuasive fattuali e verbali, opera dell’astuzia femminile, si pongono come una vera e propria sfida alla causalità dell’azione. Il mondo dell’astuzia femminile è un universo di gioco in cui le carte del tempo e dello spazio, del sentire e del pensare, con le loro separazioni e precedenze, vengono imbrogliate. Accelerazioni e rallentamenti in contrasto con la logica dell’azione, fusione di pensiero e sensazione (sentire su di sé dei colpi tradizionalmente affibbiati a un amante convince il marito della fedeltà della moglie), il procedere del racconto per blocchi di immagini (il bagno e il banchetto rientrano in una sequenza di azioni di cui solo alcune, emblematiche, vengono rappresentate) sono alcune delle caratteristiche che le leggi dell’astuzia giocosa imprimono al fabliau. Questa strategia in pura perdita, a cui la morale finale pone un argine, non manca però di rappresentare la struttura di scambio maschile a cui vuole opporsi e che assume deridendola: il dare e ricevere, il dare e prendere a cui è improntata l’attività cel mercante è assunto anche come base di ogni beffa. Oggetto di mercato può essere anche quel figlio che, cancellato dalla letteratura medievale dal tabù del concepimento virginale di Maria, ricompare o come nipote o come erede, simbolo di una paternità senza sessualità e di una struttura della proprietà ben regolata. […]
La struttura antagonista dell’affrontarsi dei personaggi è più evidente nelle sequenze di legge, legge degli uomini che vietano che un villano possa uscire dalla sua «natura» e assapori il profumo delle spezie della città o legge divina che gli nega il paradiso. I molti giudizi a cui i personaggi sono chiamati non riflettono soltanto la struttura del débat di scuola, della disputa, ma mostrano anche l’importanza assunta dal problema legalitario del rapporto di una legge umana garante della proprietà e dello scambio che comincia a esistere come meccanismo regolatore della comunità sociale e professionale accanto alla legge divina.
Giudice e spettatore della commedia familiare, come del contrasto tra cielo e terra, tra legge sociale e rivendicazioni individuali, è il narratore campato all’inizio e alla fine del racconto, che ne dà il via e ne segna la fine con una morale o una richiesta di compenso. L’uso avvertito che il narratore fa della distanza tra la fable udita o raccolta da un’altra voce narrante e il qui e ora della sua narrazione permette di far giocare verità e finzione, salvando le esigenze di ciascuna. L’invito compreso nell’imperativo «ascoltate» o nel più cauto «chi volesse venirmi vicino» del giullare conferisce una misura indicativa, gestuale, al porgere il testo che non è senza riferimento, da parte dell’autore-imitatore, all’originaria indicazione divina (l’escriture), a cui lascia precedenza, produttrice e narratrice dell’avvenimento. La proposta pedagogica generale propria alla letteratura medievale mira appunto a saltare a piè pari il presente per proiettarsi nel futuro emendato. La responsabilità del racconto viene demandata a un autore originario a cui la prova della vista o dell’udito conferisce autorità e verità oppure, più raramente, a un libro. La catena che impedisce all’autore di parlare si spezza grazie a una serie di rimandi attraverso il testimone, autore intermediario tra Dio e il giullare, che può evitare il divieto divino perché preso nell’avvenimento-parola. […] Accanto al rovesciamento, alla parodia, vi è una tecnica d’inversione del percorso, il rivolgere la Legge contro se stessa, l’ambiguità, il dire e non dire, il fare il contrario di quello che si pensa, l’attribuire il successo a un’impresa ingannatrice per poi condannarla moralmente come narratore e come giudice.
La stabilità della tradizione medievale dipende dalla natura allusiva delle connotazioni. Anche il modello rappresentato nei fabliaux non si pone contro ma fuori, a lato. La retta via salvifica modella tutti i percorsi letterari, la quéte del cavaliere, il viaggio del pellegrino verso i luoghi santi, la crociata, ma non l’errare del giullare e del chierico che ha lasciato la chiesa. […] Anche il posto che nei fabliaux occupa il gioco è indice del significato che ha l’irrompere del caso in un tutto prefissato. Tra un colpo ai dadi e l’altro si può cominciare a narrare. Nelle piazze, nelle osterie in cambio di un bicchiere di vino, durante le lunghe veglie invernali in casa di amici o di ospiti occasionali, il giullare comincia a raccontare, ma quello che narra, senza dirlo, è il modo, il luogo e il tempo del suo narrare, cioè il suo corpo-narrazione che egli è disposto a vendere, a fare oggetto di scambio: «il racconto è finito pagate il conto».
La morale segue in forma di proverbio o si trova isolata all’interno del testo sotto forma di espressione proverbiale. È lì per relativizzare l’autonomia dell’intrigo e ciò rientra, come si è visto, in una tendenza generale della letteratura medievale che non concepisce una separazione netta tra moralità e finzione.
Il discorso non può fare a meno dell’insegnamento, e questo ci sia allora, come una specie di esorcismo, di inversione del piacere procurato dalla finzione stessa, per autori e pubblico. Rispetto alla letteratura di exempla e alle fables in cui morale e narrazione sono più intimamente legate, qui morale e finzione sono contrapposte. Nei fabliaux la morale sembra un astuto mezzo di legalizzazione del piacere procurato dal testo, dalla vittoria assegnata alla beffa e all’inganno. La beffa della censura si attua proprio attraverso la sua riproduzione, il che ci illumina sia sul modo di operare per allusioni e sull’ironia degli autori che sulla collaborazione ambigua tra strategia della trasgressione, della seduzione e del piacere con tutto ciò che li nega. La struttura oppositiva tra racconto e morale, con lo sminuire l’importanza della seconda per il successo accordato in generale alla prima, toglie un po’ il velo e scopre la vera natura dotta della rete proverbiale evidente soprattutto nella tematizzazione del cambiamento che deve volta a volta essere accettato («la fortuna va e viene come il vento») o negato («a ciascuno la sua natura»). È per questo anche che la fantasia del giullare si rifugia in un apparente realismo. Egli infatti gioca con il reale che domina su un piano metastorico, narrativo. Gelosia, invidia e insieme il desiderio di una società possibile, fondata su una salvezza terrena, presente, non più rinviata, utopia giocosa, enunciata in forma leggera per prendere le distanze dal proprio fantasma e dai divieti dell’esterno, muove le fila di quella commedia familiare che sono i fabliaux. Realtà e irrealtà si fondono infatti in iperrealismo nell’atmosfera notturna delle notti d’inganni, negli effetti fantastici-mostruosi della descrizione del villano carico di vits e della moglie di cons presi in una priapica metamorfosi, nella minuziosa descrizione dei membri entro la cornice evanescente del folle sogno, in quella delle morti cruente da Grand Guignol dei preti portati a seppellire da Estormi, negli effetti grotteschi della finta morte del villano di Bailluel. Quello che importa è lo stupore, la meraviglia e la sorpresa. L’irrealtà consiste inoltre nel fatto che l’eroe non è solo il personaggio vincente, la donna beffarda e ingannatrice o il chierico seduttore impunito, ma anche lo stupido, il villano in cerca della sorca, lo strambo giocatore di dadi, il ladro beffato. Questa, che ci sembra una rivalutazione del negativo sotto l’apparente condanna della beffa, messa accanto alla tendenza all’iperbole, alla frenesia di movimento, alla creazione di frontiere che indicano un tentativo di sintetizzare uno spazio e un’esperienza disordinata, esprimono uno smarrimento, una specie di vuoto.
E poi, in mezzo a tutto questo muoversi, nei momenti più carichi di tensione, ecco il personaggio giullare estraniarsi. È sbagliato parlare di nichilismo, concetto posteriore, ma al centro di questo turbinare di effetti e di forme, di unione di contrari, morale e beffa così contrapposti, s’indovina una ricerca di identità di una categoria di intellettuali negata dalla chiesa e dall’aristocrazia, committente autoritaria. […] È il trionfo del movimento, dell’incostanza, dell’astuzia e del sapere nero del sesso, della stupidità anche, delle donne, del vino e dei dadi. Nessuna proposta rivoluzionaria quindi, solo l’affiorare della morte che fonda la scrittura del giullare non più alimentata da un ideale di riscatto. […] I nuovi padroni sono i borghesi, al Puy si fa letteratura come a corte.»