“Storia dei Daci” di Tito Statilio Critone, a cura di Mirko Rizzotto

Prof. Mirko Rizzotto, Lei ha curato l’edizione del libro Storia dei Daci di Tito Statilio Critone, edito da Primiceri: innanzitutto, chi era Critone?
Storia dei Daci, Tito Statilio Critone, Mirko RizzottoTito Statilio Critone, il futuro medico di Traiano, era nato in una cittadina di confine tra la Caria e la Frigia, in Asia Minore (l’odierna Turchia), chiamata Eraclea Salbace. Era considerato uno dei migliori medici della sua epoca, in grado di curare anche le malattie più complicate, nonché un filosofo intelligente ed impegnato (la cosa non deve stupirci, dato che all’epoca le due professioni procedevano di pari passo). Fu in contatto epistolare anche con il celeberrimo taumaturgo Apollonio di Tiana (detto “il Cristo pagano”), con cui discuteva di varie tematiche morali. Critone aveva studiato medicina ad Efeso, presso l’associazione conosciuta come Museo, di cui divenne ben presto un membro brillante ed affermato, tanto noto che fu ben presto invitato a prendersi cura dell’imperatore Traiano (98-117 d.C.) e della sua famiglia a Roma, incaricò che accettò prontamente.

Anche il celeberrimo collega Galeno ebbe modo di conoscere Critone e di apprezzarlo, accusandolo però di aver ceduto alle pressioni della corte imperiale e di essere stato spesso distratto dalle sue occupazioni di medico di corte dal portare a termine i vari trattati medici a cui era solito lavorare.

Critone seguì Traiano, il suo “paziente” più importante, nel corso delle due campagne contro i Daci, nell’odierna Romania (101-102 e 105-106 d.C.); qui, forse dietro indicazione ed invito di Traiano stesso, redasse in lingua greca un resoconto storico piuttosto interessante sulla campagna, offrendone un inedito punto di vista. Seguì Traiano anche nella successiva campagna contro i Parti, nell’odierno Iraq, ma premorì al suo amico e paziente, spegnendosi nel 115 d.C. circa.

Quali testi ci sono giunti del medico di Traiano?
Purtroppo i testi composti da Critone non ci sono pervenuti nella loro interezza originaria, ma i frammenti sopravvissuti sono in numero e di qualità sufficiente da permetterci di farcene una buona idea e da rimpiangere quanto perduto nel corso dei secoli.

Scrisse innanzitutto i Kosmetikà, un trattato di farmacologia in quattro libri: il testo di quest’opera di Critone, citato anche da altri famosi medici tardoantichi, come Oribasio (IV sec. d.C.), Ezio di Amida (VI sec.) e Paolo di Egina (VII sec.), ebbe una vasta diffusione e fu persino tradotto in arabo nel IX sec., con il titolo di Kitāb Al-Zīna. Un medico musulmano medievale, Marwan Ibn Janah, potrebbe avere usato direttamente come fonte proprio il testo di Critone per comporre i suoi trattati più importanti, conservandocene così diverse pagine in traduzione araba.

La sua opera storiografica, i cui frammenti abbiamo tradotto, era intitolata invece Getika, ovvero “Storia dei Geti” (era con questo nome che gli scrittori greci si riferivano spesso ai Daci). I frammenti superstiti delineano un’opera sicuramente molto interessante, in cui prevale l’intento celebrativo (ma non smaccato) della grande conquista di Traiano, il gusto per la narrazione tecnica e la sfumatura moralistica degli eventi.

L’opera di Critone, inoltre, si delinea come un autentico ed accurato lavoro storiografico nel senso classico del termine, con digressioni etnografiche e di costume (esattamente come nelle Storie di Erodoto) affreschi geografici, resoconti di più stretto ordine militare (come, ad esempio, gli stratagemmi di guerra, delle osservazioni filosofico-moraleggianti e, assai probabilmente, inserzione di discorsi da parte dei vari protagonisti, secondo più classici canoni della storiografia antica).

Come si svolse la campagna dacica?
Innanzitutto, l’antefatto. I Daci erano conosciuti da tempo dai Greci con il nome di Geti, con cui avevano da secoli intrattenuto floridi commerci a nord del Danubio; i Daci non erano inizialmente una nazione unita, bensì erano frazionati in clan e tribù spesso in guerra fra loro, mentre la loro società era divisa fra aristocratici (detti “pileati”, distinguibili dal caratteristico cappello di feltro, il pileus) e comuni guerrieri (i “comati”, caratterizzati da folte chiome), che riconoscevano la superiore autorità morale dei sacerdoti del dio Zamolxi, a cui erano dedicati numerosi templi, specie nella città fortificata di Sarmizegetusa.

All’epoca dell’imperatore Domiziano (81-96 d.C.) i Daci, sotto lo scettro di un re eccezionale come Decebalo, divennero una seria minaccia per il dominio di Roma nell’Europa centro-orientale: Decebalo era un condottiero fuori dal comune, ed aveva fin troppo chiaro il modo in cui si doveva condurre il conflitto, mettendo ben resto in difficoltà le truppe capitoline.

Decebalo, contando di infrangere l’impeto dei Romani contro la serie di fortezze che i suoi uomini avevano eretto sui monti di Orastie, attirò uno dei migliori generali di Domiziano, di nome Cornelio Fusco, in battaglia e lo massacrò assieme a gran parte della V Legione Alaudae, a cui sottrasse anche il vessillo con l’aquila. Domiziano però non si arrese e, nell’88 d.C., passò in Dacia tramite le cosiddette Porte di Ferro, inviandovi la IV Legione Flavia Felix guidata dal generale Tettio Giuliano, che si vendicò dei Daci infliggendo loro una sonora sconfitta.

Ma Domiziano non poté sfruttare questo notevole successo: le tribù germaniche erano in rivolta ed egli necessitava di tutte le truppe che poteva mettere insieme, anche a costo di sguarnire il fronte dacico; accettò quindi una pace disonorevole con Decebalo, comprandone la neutralità con l’invio di un tributo annuo e di genieri e di macchine da guerra per rafforzare ulteriormente il suo già cospicuo esercito. Decebalo non si degnò nemmeno, peraltro, di presentarsi personalmente davanti a Domiziano, ricevendo per interposta persona (tramite suo fratello Diegis) la corona di re alleato e il trattato di pace ratificato. Inutile dire che l’opinione pubblica romana la prese malissimo.

Questa la situazione allorché Traiano prese il potere. Inutile dire che molte considerazioni, non ultime quelle economiche, spingevano l’imperatore alla guerra contro Decebalo, ma non bisogna sottovalutare anche la necessità di cancellare un trattato umiliante per Roma e il bisogno di rafforzare il proprio prestigio militare e con esso la sicurezza sulle frontiere danubiane, minacciate dall’aggressività dacica.

Risoltosi per la guerra, Traiano lasciò Roma acclamato da una folla festante il 25 marzo del 101, accompagnato da consistenti reparti della guardia pretoriana, dall’amico Licinio Sura e dal medico Critone. Traiano aveva a disposizione per la propria impresa una forza considerevole, potendo infatti contare su ben 9 delle 13 legioni schierate lungo il fronte, oltre che ad un grande numero di squadroni di cavalleria e coorti di fanteria ausiliaria, per un totale di circa 400.000 uomini, mentre Decebalo avrebbe riunito all’incirca 200.000 uomini armati, senza contare agli alleati Sarmati e Rossolani, che gli fornirono vasti contingenti di cavalleria corazzata, ed i Buri, di stirpe germanica, feroci combattenti di fanteria.

L’attraversamento del Danubio ebbe luogo a Lederata (l’odierna Palanka), alla confluenza tra il grande corso d’acqua danubiano e il Csernovec; la località si trovava a sud della meno impegnativa via per le Porte di Ferro, ed univa i centri di Berzovia ed Aizi (Friliug), nel Banato: si tratta infatti di due località strategiche menzionate dallo stesso Traiano nell’unico frammento superstite dei suoi Commentarii de bello Dacico.

L’esercito romano venne suddiviso in due colonne, fatte passare su altrettanti ponti di barche, che avrebbero invaso la Dacia da due direttrici di marcia differenti, per convergere poi a tenaglia, riunendosi e strozzando la possibilità di Decebalo di opporre un resistenza efficace; una colonna penetrò in Dacia a Dierna, avanzando poi in direzione di Tibiscum e percorrendo un sentiero piuttosto angusto fra le montagne; la seconda colonna, sotto il diretto comando dell’imperatore, si mosse verso nord-est, verso il Banato, attraverso la meno disagevole regione pedemontana, che consentiva di evitare le pianure troppo aperte, terreno ideale per le manovre della cavalleria sarmata, sia le alture boscose dove potevano annidarsi gruppi armati dacici consistenti.

L’avanzata di Traiano non fu all’insegna della rapidità, ma della prudenza e della preparazione logistica; da parte sua Decebalo adottò una tattica dilatoria e logorante, evitando l’azzardo di uno scontro in campo aperto e ritirandosi vieppiù verso le aree fortificate montuose della Transilvania, dove i Romani non avrebbero potuto a loro volta dispiegare tutta la loro potenza d’urto.

Venuto tuttavia a sapere che i Romani erano oramai penetrati nella regione di Haţeg attraverso lo stretto passo montano delle Porte di Ferro, in Transilvania, Decebalo ruppe gli indugi e, assieme ai propri alleati, schierò finalmente le proprie truppe in campo aperto, deciso ad opporre ai Romani la più accanita delle resistenze, osservando l’andamento dell’imminente battaglia dal riparo di un vicino boschetto. Non abbiamo molti dettagli sullo scontro, se non che fu assai cruento, costando numerose vittime da ambo le parti; un ruolo importante ebbe sicuramente la cavalleria dei Mauri, ausiliari di Roma, comandata dal generale etiope (ma cittadino romano) Lusio Quieto, che si rivelò decisiva nel momento culminante della battaglia.

Lo scontro si risolse con una netta, anche se sofferta, vittoria romana e con il conseguente ripiegamento dei Daci verso le zone montane fortificate, non si trattò comunque di una vera e propria disfatta per Decebalo, anche se il vantaggio conseguito dai Romani fu importante al punto da indurlo a ritirarsi ancora più all’interno della regione al fine di proteggere gli accessi alla capitale del regno, Sarmizegetusa Regia.

Decebalo, al fine di allentare la morsa che si stava inesorabilmente serrando attorno al collo della propria capitale, lanciò un audace contrattacco in territorio imperiale, radunando sotto il comando del generale Susago i suoi alleati più agguerriti, ovvero i Sarmati e i Rossolani delle pianure orientali, nonché i Buri germanici dei Carpazi settentrionali e varie tribù della Tracia (odierna Bulgaria), dirigendoli verso una grandiosa invasione della Mesia Inferiore, lasciata sguarnita di truppe consistenti, che avevano dovuto giocoforza accompagnare Traiano nella sua avanzata in Dacia.

Informato dell’attacco, Traiano affidò ai suoi generali in Dacia l’ordine di proseguire le operazioni belliche e, alla testa di una vasta armata, partì personalmente verso sud, al fine di arrecare soccorso alla provincia colpita. Una parte dell’esercito romano discese prontamente il Danubio su grandi navi, portando soccorso ai centri assediati, mentre l’imperatore, attraverso una via scavata in precedenza dalle legioni fra le montagne prossime alle cateratte del Danubio e per le contrade della Mesia Superiore, si diresse alla volta della provincia minacciata, che raggiunse rapidamente grazie alle strade e alle infrastrutture faticosamente ma saggiamente erette durante la stagione precedente.

I Daci e i loro alleati, che non si aspettavano una reazione così immediata da parte di Traiano, furono colti di sorpresa con parte delle loro forze ancora sparpagliate per la provincia, intente a razziare e a saccheggiare. La prima battaglia campale ebbe luogo in una regione pedemontana dei Balcani, a sud-est della foce dell’Oescus, durante le ore notturne, dove l’imperatore combatté probabilmente in testa ai suoi, privo di elmo affinché fosse riconosciuto dai legionari e ciò potesse infondere loro coraggio. Lo scontro fu sanguinoso ma alla fine i Romani prevalsero, mettendo disordinatamente in fuga i barbari. Di lì a poco Decebalo si risolse a chiedere la pace (102 d.C.), che violò però di lì a breve (nel 104) costringendo Traiano ad una seconda, durissima campagna.

Traiano ripartì da Roma alla testa della sua armata il 4 giugno del 105, con un tragitto marittimo. L’imperatore riattraversò il Danubio grazie all’imponente ponte realizzato dal suo abile architetto Apollodoro di Damasco, guidando ancora una volta la colonna principale dell’armata romana, mentre altre truppe penetrarono nella regione da ovest, provenendo dalla Pannonia e risalendo le valli del Mureş e altre ancora, sopraggiungendo dalla Mesia Inferiore, avanzarono da sud-ovest e da sud, percorrendo le vallate del Jiu e dell’Olt, da dove penetrarono in Transilvania, attraversando gli impervi Carpazi. Alla fine Traiano ebbe la meglio sulla “corona” di fortezze che impediva l’accesso a Sarmizegetusa, conquistandole una ad una e giungendo in vista della capitale di Decebalo nella primavera del 106 d.C. La città era posta su una serie di terrazze artificiali, sostenute da imponenti muraglie: essa fu sottoposta ad un durissimo assedio.

Comprendendo infatti come la sete fosse il suo più grande alleato, Traiano inflisse un duro colpo ai Daci, individuando la condotta d’acqua che riforniva la città e facendone interrompere il flusso dai suoi genieri: per i Daci fu un colpo mortale. Traiano, dopo aver messo in ginocchio la guarnigione, ordinò un assalto generale alle mura che cingevano come una sorta di quadrilatero il centro di Sarmizegetusa, adoperando anche le scale d’assedio: fu la fine di ogni resistenza, e la metropoli venne espugnata. Decebalo si diede alla fuga, salvo poi suicidarsi di lì a poco, per non cadere vivo nelle mani dei romani. L’impresa dacica si era dunque conclusa con una piena vittoria da parte dei Romani, che la celebrarono con una serie di spettacolari monumenti, come la Colonna Traiana a Roma.

Perché la testimonianza di Critone è preziosa?
Considerando che quasi tutte le fonti contemporanee o successive che descrivevano le campagne daciche sono sparite (i Commentari  dello stesso Traiano in primo luogo, che noi abbiamo però tentato di ricostruire nel 2020 con Primiceri Editore), dobbiamo basarci necessariamente su scrittori di epoca più tarda, come Cassio Dione, ma anche lì siamo carenti, in quanto di tale autore c’è pervenuto solo uno stringato riassunto ad opera del bizantino Xifilino.

In quest’ottica i frammenti superstiti di Critone, da me raccolti e tradotti, rappresentano uno sguardo sorprendentemente inedito su quest’epopea dimenticata: l’agitata assemblea dei Daci che urlano contro un prigioniero romano, le punizioni dei disertori, il racconto delle credenze religiose dei barbari, rappresentano scene strappate all’oblio, e ci fanno rimpiangere fortemente quanto andato perduto degli scritti critoniani.

Critone spezza inoltre una consuetudine che sembrava essersi instaurata fra gli scrittori greci suoi contemporanei, ovvero di trattare solamente di eventi del remoto passato. Egli scrive invece “in presa diretta”, come un cronista di guerra dei nostri tempi, indagando, facendosi domande ed ampliando i propri orizzonti. Proprio per questi motivi ritengo che una traduzione italiana integrale dei suoi frammenti, con testo greco a fronte, fosse assolutamente necessaria: in tempi di cancel culture, allorché vediamo i nostri legami con il passato allentarsi in modo tragico ed inesorabile, gli autori antichi vanno assolutamente riscoperti, studiati ed attualizzati, poiché essi hanno ancora moltissimo da dire alle nuove generazioni. E Critone ne è un esempio lampante: reporter di guerra fededegno, supportato moralmente dai propri studi filosofici, medico del corpo e dell’anima, amico ma non succube dei potenti: non rappresenta forse una figura di cui i nostri tempi sono drammaticamente carenti, che merita di essere conosciuta ed approfondita?

Mirko Rizzotto è nato nel 1976 in provincia di Verona, laureandosi con il massimo dei voti (e lode) presso l’Università di Padova. È stato Conservatore presso il Museo Civico di Cologna Veneta (Verona), nonché redattore della rivista internazionale di Studi Bizantini Porphyra, diretta da Nicola Bergamo. Presso la casa editrice Graphe.it ha pubblicato diverse biografie di guerrieri e sovrani del passato per la collana I Condottieri, diretta da Gaetano Passarelli (Menandro il Conquistatore, Attila l’Unno, Artù) ed ha curato numerose traduzioni di storici e filosofi antichi (Opere minori, frammentarie e inedite di Giulio Cesare, Storia di Pietro Patrizio, Storia di Babilonia di Beroso, De consulatu suo, Dei Doveri, Sulle Leggi di Cicerone, Periplo dell’Africa di Annone di Cartagine, etc.) per Primiceri editore, di cui è il direttore delle collane Classici e Biblioteca Storica. Collabora altresì con l’editrice statunitense ABC-Clio (Santa Barbara, California), diretta da Andrew Holt e Florin Curta, per cui cura le voci delle enciclopedie inerenti la storia delle religioni. Ha pubblicato altresì articoli di stampo storico-giuridico sulle riviste Calumet e Mediares, quest’ultima diretta da Federico Reggio.

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