“Verso un nuovo equilibrio globale. Le relazioni internazionali in prospettiva storica” di Mireno Berrettini

Prof. Mireno Berrettini, Lei è autore del libro Verso un nuovo equilibrio globale. Le relazioni internazionali in prospettiva storica edito da Carocci: qual è il panorama geopolitico mondiale attuale?
Verso un nuovo equilibrio globale. Le relazioni internazionali in prospettiva storica, Mireno BerrettiniQuella che mi rivolgete è naturalmente una domanda molto complessa a cui dare una risposta. Partiamo da un punto che pare assodato: il mondo attuale non sembra nemmeno lontanamente assomigliare a quanto ci eravamo aspettati all’indomani del crollo del sistema sovietico, ma a ben vedere sembra molto lontano anche da quanto ipotizzavamo durante gli anni della War on Terror di George W. Bush, quando gli Stati Uniti venivano spesso rappresentanti come una iperpotenza in piena hybris militare. Attualmente sono sempre più evidenti le problematiche di Washington nell’esercizio della propria leadership, difficoltà di cui l’elezione di Donald Trump come Presidente è il prodotto e non la causa, ma al tempo stesso in termini di performance produttive e soprattutto a livello politico è l’area dell’Asia-Pacifico ad aver guadagnato una nuova centralità.

Analogamente quella stessa globalizzazione che alcuni consideravano portatrice di un’inarrestabile e progressiva unificazione del mercato su scala planetaria è in ‘rallentamento’. Non è niente di nuovo e niente di spaventoso. La storia plurimillenaria degli scambi transregionali ci evidenzia come essi funzionino attraverso cicli, sistoli e diastoli, che alternano periodi di grande connessione a momenti di chiusura. Beh, diciamo che oggi, più che un’economia-mondo connessa, vediamo il progressivo strutturarsi di grandi spazi geoeconomici o di grandi aree di scambio privilegiato. Trump, dopo quella che è apparsa come una fase di studio durata un anno, ha ultimamente lanciato una serie di dazi che si configurano come i prodromi di una guerra commerciale, ma la torsione protezionista (contraltare alla richiesta di una maggiore presenza dello Stato nelle economie nazionali) del discorso politico è un trend comune a molti attori del Vecchio Continente. Uno scenario che non esito a definire molto negativo, specie per un Paese come l’Italia.
In sostanza, ci troviamo di fonte a un mondo diverso da quello immaginato nemmeno una generazione fa, che profila un momento di transizione epocale e che per questo richiede nuovi strumenti analitici e, per quanto mi riguarda, un nuovo racconto sul nostro passato.

Qual è la dimensione strategica e geopolitica dell’unipolarismo americano?
Il tema dell’unipolarismo americano è stato uno dei tópoi dominanti del discorso politico e analitico successivo al 1991. A ben vedere è logico che sia stato così. Se la Guerra Fredda appena conclusa era stata un confronto tra due Superpotenze, la vittoria sull’Unione Sovietica significava l’apogeo di Washington. Col crollo dell’alternativa sovietica era rimasto solo un player globale. Negli anni successivi, tanto le Amministrazioni repubblicane (Bush Sr.), quanto quelle democratiche (Clinton), hanno provato a fondare un nuovo ordine globale dove gli USA avevano una posizione centrale e «indispensabile», come ebbe a dire nel 1998 Madeleine K. Albright allora Segretario di Stato. Questo andamento è continuato anche durante l’era Bush jr., dove unipolarismo è andato parallelo all’unilateralismo.

La mia lettura è profondamente diversa. Dopo il 1991 gli Stati Uniti erano sicuramente la maggiore potenza in termini militari, ma non avevano un primato tale da eguagliare in altri aspetti la loro condizione nel 1945. Dopo la vittoria sull’Impero giapponese, a fronte di un’Europa e di un’Asia in frantumi, Washington aveva l’esclusivo possesso dell’arma nucleare, e aveva visto aumentare vertiginosamente il proprio prodotto interno lordo, la propria ricchezza e la propria capacità di proiezione politica. Quello è stato l’unico momento unipolare — se vogliamo usare questa semplificazione — del XX secolo. Gli USA, allora, hanno costruito, certamente non da soli, un nuovo ordine che era loro favorevole ma che ha anche permesso la progressiva ricostruzione di altri attori. Nel corso della seconda metà del XX secolo l’unipolarità ha ceduto il passo a una sempre più crescente multipolarità dove gli attori dell’Asia-Pacifico hanno acquisito una posizione di estrema rilevanza, segnando la fine del ciclo egemonico occidentale, o, meglio, euroatlantico.

Cosa comporta la fine del primato dell’area euroatlantica?
Più che la Guerra Fredda, o la sua fine, è stata la globalizzazione, quell’insieme di processi storici che si è articolato sul lunghissimo periodo, a plasmare il mondo in cui viviamo. La globalizzazione ha senz’altro aumentato la concentrazione di ricchezza in un settore percentualmente minimo della società globale, ma ha anche permesso la creazione, forse effimera, forse duratura, di un grandissimo ceto medio transnazionale che non si localizza più esclusivamente in occidente. Si è trattato di un processo derivante dalla nuova divisione internazionale del lavoro e dalle scelte degli occidentali stessi che hanno avuto delle ricadute su innumerevoli aspetti della vita dei cittadini euroatlantici, in primis sulla democrazia. Essa, per come è strutturata, ha avuto un percorso che coincide con la fase egemonica. La fine di questo ciclo apre incognite sul futuro della democrazia stessa, come del resto è sotto gli occhi di molti osservatori. Sempre più Stati e sempre più società sono attratte da altri modelli, basti pensare all’Europa dell’est che guarda ai sistemi autoritari apparentemente più adatti a gestire questa fase di grande competizione. Ma gli stessi sistemi politici dell’Europa occidentale, quella dove da più tempo si è consolidato il compromesso liberaldemocratico, appaiono subire delle torsioni peculiari, che li snaturano; mentre si mantengono gli aspetti formalistici, è la sostanza a venire svuotata dei suoi contenuti più cogenti. La democrazia ci appare sempre più come un involucro privo di quei contenuti valoriali e sostanziali considerati un tempo imprescindibili.

Come si è sviluppato il dibattito storiografico sulla Guerra Fredda?
Per molto tempo la Guerra Fredda è stata raccontata sulla falsariga di un canovaccio messo a punto da storiografi statunitensi. Da qualche anno, però, grazie all’intervento di studiosi non americani sono sorte nuove prospettive. Questo lavoro si inserisce in questo nuovo filone. In esso ho provato a inquadrare la Guerra Fredda in un’ottica globale (non solo bipolare) e di lungo periodo (le relazioni internazionali degli ultimi due secoli), una prospettiva da cui essa appare assumere un significato storico radicalmente diverso da quello fornito dalla storiografia tradizionale. Di cosa parlo? Nella mia prospettiva la Guerra Fredda ‘diventa’ l’ultimo segmento di una transizione egemonica, una fase in cui il sistema internazionale si è riorganizzato per gestire l’ascesa di un nuovo centro: la Repubblica Popolare Cinese (RPC).

Assistiamo davvero alla fine degli Imperi?
Più che alla fine, direi al loro ritorno. Nel XX secolo, sulla scia della Grande Guerra prima e con l’avvio del processo decolonizzazione dopo, si è pensato che gli imperi fossero qualcosa di ‘vecchio’, ‘polveroso’, una realtà da ‘amanti del vintage’. Gli studi postcoloniali, che senz’altro hanno tanti meriti, hanno forse però contribuito a connotare in senso troppo negativo queste realtà. Nel secolo appena trascorso lo Stato sembrava il frame entro cui si dovesse esercitare lo spazio del politico. Mentre dal punto di vista numerico gli Stati sovrani sono in effetti proliferati, hanno cominciato lentamente a venir erosi in termini di competenze, attribuzioni e capacità di incidere nel governo delle società. Oggi, ci troviamo di fronte a questioni che un solo Stato, per quanto grande esso sia, si trova assolutamente insufficiente. Benché noi occidentali tendiamo a consideralo come ‘naturale’, lo Stato in realtà occupa, esattamente come la democrazia, solo una breve parentesi nella storia delle civiltà. Quest’ultima, infatti, lungo tutto il suo corso è fatta da due unità fondamentali di organizzazione del potere, certamente non le uniche, ma sicuramente quelle più rilevanti: città e imperi. Gli imperi sono le unità di misura della politica globale, sono delle strutture complesse che strutturano gli spazi e mettono in comunicazione le civiltà. La storia della globalizzazione è, di fatto, la storia della creazione e riarticolazione di sistemi imperiali.

Come si articola il confronto strategico tra Stati Uniti e Cina?
Una grandissima incognita. Recentemente anche in Italia ha cominciato a trovare notorietà la formula di Graham Allison la «Trappola di Tucidide», secondo cui è altamente probabile che nel prossimo futuro si assisterà a uno scontro militare diretto tra questi due giganti. Si tratta di un’ipotesi inquietante, ma che è solo uno dei tanti modelli interpretativi di una realtà molto sfuggente. A mio modo di vedere, infatti, invece di riproporre la mentalità dicotomica che ci deriva dal modo di pensare della Guerra Fredda, dobbiamo pensare ‘triangolarmene’, e prendere dunque in considerazione un altro player, la Federazione Russa. A partire dagli anni ’90 del XX secolo, l’Occidente a guida statunitense non ha fatto altro che condurre politiche tali da ricompattare un asse diplomatico-strategico tra Mosca e Pechino che si era già formato negli anni ’50, e che era venuto poi meno a partire dai ’60. La politica di allargamento dell’Alleanza Atlantica e l’inserimento nell’UE dei Paesi dell’area ex-sovietica del Vecchio Continente hanno costituto un vulnus agli interessi di Mosca e l’hanno spinta a ricercare un partner nella RPC, proprio come al tempo stesso la chiusura di Washington alle richieste di Pechino nel Mar Cinese (meridionale e centrale) hanno spinto Pechino a intavolare ottimi rapporti con Mosca. L’area dell’Europa orientale e quegli specchi di mare che bagnano le coste orientali della RPC sono anelli di congiunzione di quello che alcuni chiamano ‘Chussia’ (crasi di China e Russia), un ammasso geopolitico tutt’altro che monolitico, ma che può diventare un challenger di primo piano se la politica occidentale continuerà a muoversi nella direzione intrapresa. È uno scenario tutt’altro che inedito, dato che negli anni ’50 le decisioni di Washington e di Londra avevano contribuito a saldare l’alleanza tra Mao e Stalin, costringendo gli occidentali a riorganizzare le proprie strutture difensive a livello globale al fine di ‘contenere’ quella minaccia.

Quale sarà la potenza egemone nel prossimo futuro?
Un’altra domanda molto difficile a cui dare risposta. È buona prassi degli storici limitarsi alla conoscenza del passato, un’impresa già di per sé tutt’altro che semplice. Non mi sottraggo però alla domanda, proprio perché una delle provocazioni di questo libro è che il nostro futuro assomiglierà al nostro passato. Nella storia, il Regno di Mezzo è stato senza dubbio uno dei grandi poli della politica globale, sicuramente una delle economie più dinamiche che ci siano mai state. La Cina ha prodotto una civiltà raffinatissima che in Occidente conosciamo solo di riflesso, attraverso il prisma di un certo orientalismo. Dalle guerre dell’oppio in avanti, nella prima metà del XIX secolo, gli occidentali (e poi i giapponesi) hanno scalzato questo interlocutore, costruendo le basi della propria egemonia globale. Questo ciclo si sta chiudendo e la RPC è tornata a occupare un posto che è consono a questa civiltà plurimillenaria. Certo, la Cina rischia di essere un’egemone fragile, attore tanto grande da ogni punto di vista, quanto segnato da profonde fratture, che possono minare la sua posizione e il suo ruolo. Anche per questo, ma non solo per questo, occorre guardare con attenzione a ciò che avviene in quelle aree, perché il mondo è una sfera e, per citare Jurassic Park, «se una farfalla batte le ali a Pechino…».

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