
Quali considerazioni è possibile fare sul testo dell’Editto?
Va detto che la discussione secolare tra gli storici circa l’esistenza o meno di un editto ha trovato terreno fertile in una documentazione che lascia ampio spazio all’interpretazione. È, questo, un problema che viene ben considerato nel volume: dall’interno di una sostanziale unità di vedute, punti di vista lievemente sfumati e angolature differenti permettono al lettore una conoscenza circostanziata delle problematiche sul tavolo. Gli argomenti proposti da Noel Lenski e Carlo Maria Mazzucchi per una netta risposta positiva, infatti, sono utilmente integrati dai rilievi di Bernard Stolte a proposito del lessico giuridico utilizzato nei documenti che testimoniano l’editto. Riprendo innanzitutto, con qualche dettaglio in più, le dinamiche della trasmissione del testo, che – come si accennava – non è attestato da un vero e proprio documento legislativo. Ci danno notizia del provvedimento lo storico latino Lattanzio (De mortibus persecutorum, cap. 48) e il greco Eusebio, vescovo di Cesarea (Historia Ecclesiastica, III X 5, 2-14). Il primo trascrive il testo dell’epistola (“litterae”) con le quali il provvedimento era stato notificato a Nicomedia da Licinio, probabilmente inviato in forma di lettera ai magistrati locali; nei centri più importanti, esso era poi stato reso pubblico mediante un’epigrafe in bronzo. Eusebio invece afferma di aver tradotto dal latino in greco una diátaxis, cioè un “ordine”, da una copia che fu pubblicata a Cesarea (sempre nel territorio di competenza di Licinio) qualche mese dopo. Il termine edictum, in riferimento all’episodio costantiniano, è in uso nella storiografia solo a partire dal XVI secolo. La diffusione dei provvedimenti legali in forma di lettera ai magistrati era una procedura normale, di pieno valore giuridico: si vedano, a questo proposito, le analisi di tali procedure proposte nei contributi citati (e anche le notazioni di Giuseppe Zecchini sulle dinamiche con cui Costantino convocò il Concilio di Arles nel 314).
A riguardo del “testo” dell’editto, dunque, bisogna basarsi su due “versioni” (quella di Eusebio e quella di Lattanzio) che differiscono sensibilmente tra loro, e talvolta per particolari non secondari (i contributi di Lenski, Mazzucchi e Stolte mettono sistematicamente a confronto le due redazioni). La motivazione è duplice. In primo luogo, Lattanzio trascrive direttamente la lettera inviata per notificare il provvedimento, e questo – insieme alle sue proprie competenze in materia – spiega perché nel suo testo si ritrovi una maggiore precisione nel linguaggio giuridico. Eusebio, per parte sua, traduce dal latino in greco, anche piuttosto liberamente, e il suo intento si può definire come una presentazione letteraria del contenuto dell’editto, più che come la trascrizione di un atto giuridico. Il secondo fattore è la diversità di contesti e tempi in cui le copie dell’editto furono pubblicate; si spiega così l’assenza nel testo eusebiano di alcune frasi che potevano essere facilmente interpretate come una professione esplicita di cristianesimo. Dal momento che il documento usato da Eusebio era stato pubblicato da Licinio (che mai pensò di farsi cristiano) a Cesarea (dunque ormai lontano dai territori di Costantino) si può pensare che egli abbia fatto eliminare alcune espressioni per dare al documento un tono più “laico” e meno passibile di essere interpretato come esplicitamente favorevole al Cristianesimo. Ad ogni modo, l’editto non era certamente un provvedimento che imponeva il Cristianesimo a discapito degli altri culti, ma una reale professione di tolleranza religiosa; prova ne è il fatto che negli anni successivi passò rapidamente in secondo piano. La garanzia della tolleranza per tutti, infatti, ostacolava tanto la cancellazione del paganesimo quanto la definizione di un’ortodossia cristiana (si tenga conto che sia la dicotomia Cristianesimo-paganesimo, sia la discussione in materia di fede potevano avere importanti risvolti politici).
Come si giunse all’Editto?
Dopo alcuni decenni di relativa tranquillità per le minoranze religiose dovuti ai provvedimenti di tolleranza emanati sotto Galerio (ca. 260), gli anni compresi tra il 303 e il 306 d.C. sono passati alla memoria della trattatistica cristiana sotto il nome di “grande persecuzione”. Fu forse il tempo più ostile nei confronti dei cristiani: le leggi di Diocleziano e Galerio avevano un’incidenza ideologica (sintetizzabile nell’obbligo di sacrificare agli dei pagani) ma anche economica, perché implicavano la confisca dei beni dei trasgressori e, per estensione, delle chiese cristiane (da rilevare, in merito, le riflessioni presenti nei contributi di Stolte e Lenski sulla ‘personalità giuridica’ dei cristiani, singolarmente e come assemblea). Dal 306 si aprì invece un periodo di riflessione sulla politica religiosa da parte delle autorità civili, con una serie di provvedimenti che restauravano alcuni dei diritti di cui le minoranze religiose erano state private. L’Editto di Milano non fu dunque un episodio isolato: fu senz’altro il più incisivo, soprattutto dal punto di vista economico, ma si inserì in una trama di avvenimenti che portarono via via alla completa tolleranza religiosa. Di essi narrano soprattutto Lattanzio ed Eusebio, oltre a fonti minori come Optaziano e i Gesta Conlationis Carthaginiensis (gli atti di un importante sinodo tenutosi a Cartagine nel 411); una sintesi critica e dettagliata è nel contributo di Noel Lenski. Il primo atto di tolleranza fu proprio di Costantino, nel 306; non va dimenticata la sua predisposizione all’intervento anche a scopo politico in materia di religione, come dimostra dapprima il Concilio di Arles nella Pars Occidentis dell’Impero (da lui convocato nel 314, di cui tratta Giuseppe Zecchini) e poi, una volta riuniti tutti i domini romani sotto la sua autorità, il Concilio ecumenico di Nicea del 312. Seguì Massenzio nel 308, con un editto che fece terminare le persecuzioni nel suo territorio; quindi Galerio, con il cosiddetto “Editto di Tolleranza” (o di Serdica, perché lì emesso) del 311, entrato in vigore nei suoi domini (l’Asia e l’Oriente). Intorno al 311, sia Massenzio che Costantino vararono un programma per restituire ai cristiani i beni confiscati; infine, intorno al 312, fu probabilmente emanato un provvedimento (ne parla Eusebio di Cesarea) che doveva contenere in nuce i medesimi principi di quello che sarà l’Editto di Milano.
Naturalmente non fu un percorso lineare, e si ebbero in qualche circostanza dei nuovi focolai di persecuzione. Questo avvenne soprattutto nelle province orientali, dove alla morte di Galerio (311) veva preso il potere Massimino Daia, le cui disposizioni tornavano a ridurre gli spazi di libertà religiosa con le conseguenti repressioni; qualcosa di simile avvenne anche in Italia e Africa sotto il governo di Massenzio (anni 306-12). È chiaro inoltre che l’adeguarsi o meno a un atteggiamento di tolleranza rispondeva anche a fattori di opportunità politica, in un tempo in cui gli scontri militari tra i tetrarchi non erano infrequenti. Massimino infatti, nel periodo in cui disponeva di un potere più solido, scelse di non allinearsi all’impostazione tollerante che vigeva in Occidente; la revoca dei provvedimenti restrittivi da parte sua, a partire dal 313, fu causata anche dalle sconfitte subite ad opera di Licinio. Proprio quest’ultimo, estensore dell’Editto di Milano insieme a Costantino, era certo meno propenso del suo collega alla benevolenza nei confronti delle minoranze religiose; tuttavia Costantino andava assumendo una posizione egemone, e questo contribuì senz’altro a fargli ottenere la collaborazione di Licinio anche in materia di tolleranza religiosa.
Quali furono le ricadute e gli effetti dell’editto?
Sarebbe fin troppo ovvio ricordare che le principali conseguenze dell’editto di Milano furono la fine delle persecuzioni nei confronti dei cristiani e il conseguimento, da parte loro, di un pieno status giuridico e sociale nell’ambito dell’Impero. Fu un passo definitivo, se si esclude la breve parentesi costituita dal governo di Giuliano detto “l’Apostata” (anni 361-3), in cui per qualche tempo si cercò di restaurare un clima di ostilità verso la nuova religione. L’episodio offre lo spunto per considerazioni più approfondite; il regno di Giuliano, ad esempio, fu sicuramente in antitesi con il suo predecessore e zio Costantino in fatto di politica religiosa, ma presentò anche elementi di forte continuità in fatto di ideologia e identificazione dinastica, come dimostra Matilde Caltabiano. Pochi decenni dopo, Ambrogio è alle prese con un effetto “imprevisto” dell’Editto, perché risultò chiaro che esso proteggeva anche, e ormai soprattutto, i pagani; anche da qui prendono origine le riflessioni del vescovo milanese – di cui ci parla Luigi Pizzolato – sui comportamenti che deve tenere il cristiano che detiene il potere politico. Si diceva in precedenza che l’Edito di Milano non è che uno dei momenti, sebbene il più significativo, del periodo in cui vennero ridefiniti i rapporti tra l’autorità politica e le minoranze religiose, in particolare quella cristiana. In questo senso, alcuni contributi del volume aprono uno spaccato sugli effetti della politica religiosa (intesa in senso più ampio) in età costantiniana, mettendo in rilievo anche come l’immagine stessa che l’imperatore volle dare di sé ne venisse influenzata in modo significativo. Ad esempio, Paola Moretti ci mostra Costantino come destinatario di un poema (le Laudes Domini) che ha per oggetto un miracolo avvenuto nella regione di Autun (313-4): non manca, nella chiusa, un elogio del sovrano; la fioritura di una poesia cristiana (come quella di Giovenco, oggetto dell’intervento di Isabella Gualandri) fu favorita dalla piena dignità conseguita dal Cristianesimo. Ignazio Tantillo, nell’analizzare le epigrafi di origine africana, documenta la precocissima comparsa (312-3) del monogramma cristologico nell’epigrafia ufficiale (in questo caso, un miliario); Alessandro Rossi entra nel merito delle azioni intraprese da Costantino per ridurre lo scisma donatista; Francesco Braschi analizza come, a distanza di qualche decennio, l’ideologia costantiniana risulti ancora determinante per la definizione dei rapporti tra Chiesa e potere politico in Ambrogio di Milano; Cesare Alzati, infine, si occupa di continuità ed evoluzione dei culti nell’ambito di una “comunità” ecclesiale che, dopo le innovazioni di epoca costantiniana, non ha più solo carattere mistico, bensì sta entrando a far parte della struttura imperiale. Un’ultima nota: l’Editto pose fine alle persecuzioni, ma non si cessò di guardare ai martiri come modello supremo di dedizione a Cristo. La chiesa locale si fonda sul sangue dei martiri; ma Milano era, secondo le parole di Ambrogio, sterilis martyribus (“non aveva generato martiri”), in quanto lambita solo marginalmente dalle grandi persecuzioni. Paolo Chiesa e Laura Rossi mostrano che anche nella città dell’Editto si sviluppò una tradizione martiriale, che tra IV e V secolo consentì di colmare questa grave lacuna.
Come è stata interpretata e considerata la figura di Costantino nel corso della storia?
Il primo imperatore “cristiano” ha goduto di una vastissima fortuna nelle culture europee di ogni epoca. Si è già detto qualcosa del rilievo che ebbe la sua innovativa politica religiosa agli occhi dei contemporanei, come Eusebio (Remo Cacitti propone una dettagliata incursione nel suo pensiero) o Lattanzio, o per autori di età tardoantica, come Ambrogio. Si diffuse presto un’aura di santità a riguardo di Costantino, ben propagandata dalla Vita Constantini di Eusebio che narra – tra le altre cose – la leggenda secondo cui la visione in sogno del monogramma di Cristo condusse Costantino prima alla vittoria su Massenzio e poi alla conversione (sappiamo in realtà che egli fu forse battezzato solo in punto di morte).
Non sorprende allora ritrovare Costantino tra i beati del Paradiso di Dante Alighieri; Saverio Bellomo, interpretando alcuni passi della Commedia e della Monarchia, spiega come egli sia determinante anche per la concezione politica del poeta. Al centro c’è la cosiddetta “Donazione di Costantino”, cioè l’atto ufficiale con cui Costantino avrebbe concesso al Papa un territorio di suo possesso e, dunque, l’esercizio del potere temporale; tutto ciò rappresenta un grave problema per le opinioni dell’Alighieri sulla natura della Chiesa e del suo rapporto con il potere imperiale. La “Donazione” è trasmessa da un documento che nel Medioevo si riteneva autentico, e che fu invece dimostrato falso da Lorenzo Valla con solidi e modernissimi argomenti filologici nel De falso credita et ementita Constantini Donatione. Mariangela Regoliosi svela come la dimostrazione del Valla nasconda in realtà una forte proposta di rinnovamento della Chiesa, in direzione della rinuncia al potere temporale. Il lavoro del Valla ebbe grande risonanza nei territori interessati dalla riforma luterana, soprattutto nella sua prima fase; in un secondo momento (ne parla Federico Zuliani), più che Costantino in sé, fu valorizzata un’epoca – quella costantiniana – in cui il dibattito su eresie e rapporti interconfessionali era piuttosto vivo. Alberto Rocca mostra invece la rilevanza di Costantino nella propaganda anglicana, dove il sovrano si prende cura a un tempo dello Stato e della Chiesa.
In età moderna, in particolare nel XVIII secolo, si pose in termini nuovi il problema del rapporto tra gli Stati nazionali e la Chiesa: Paola Vismara esamina come la figura di Costantino fu ampiamente utilizzata nel dibattito dell’epoca, perché ovviamente si prestava bene a sostenere l’idea che la Chiesa non dovesse essere soggetta all’autorità statale. La libertà della Chiesa e il ruolo civile dei cattolici tornarono a interessare il dibattito (soprattutto interecclesiale), in occasione delle celebrazioni per il sedicesimo centenario dell’Editto nel 1913: questo è il tema del contributo di Edoardo Bressan.
Nel mondo ortodosso Costantino non fu meno significativo. Egli è colui che ha permesso il ritrovamento della Santa Croce insieme a sua madre Elena, e questo è un episodio molto sentito nella spiritualità orientale. Lo testimoniano gli affreschi medievali nelle chiese dei Balcani (commentati da Axinia Džurova) dove madre e figlio ai lati della Croce sono un soggetto assai ricorrente. Roland Marti ricorda come nella Slavia Orthodoxa egli fu considerato non solo un santo, ma anche un modello di governante ideale (nonché, in Serbia, progenitore della locale dinastia regnante); e se Costantinopoli fu la “Seconda Roma”, una “Terza Roma” poteva essere Mosca. Questo si vede in particolare in un racconto russo analizzato nel contributo di Victor Zhivov, dove una corona simbolica donata da papa Silvestro a Costantino in occasione della “Donazione” raggiunge la Russia, legittimando così la teocrazia russa. Ancora nel pensiero russo del ‘900, secondo Adriano dell’Asta, Costantino funge da esempio per superare il dualismo tra un Cristianesimo che mantiene la purezza delle origini e un Cristianesimo piegato a mero strumento di potere.
Dopo il Costantino-santo e il Costantino-politico, anche il Costantino-uomo lasciò una traccia letteraria: Alberto Bentoglio documenta come la sua vita e le vicende della sua famiglia, talvolta ulteriormente romanzate, fornirono materiale per libretti d’opera lirica e spettacoli teatrali.
Da questo quadro emerge una figura quasi “universale”, se così si può dire, capace di fornire spunti di riflessione e materiale di discussione ai contesti culturali e alle istanze più diversi.