“Il frutto avvelenato. Il vincolo europeo e la critica all’Europa” di Daniele Pasquinucci

Prof. Daniele Pasquinucci, Lei è autore del libro Il frutto avvelenato. Il vincolo europeo e la critica all’Europa, edito da Le Monnier Università: davvero l’europeismo è così malato?
Il frutto avvelenato. Il vincolo europeo e la critica all’Europa, Daniele PasquinucciL’europeismo vive sicuramente un momento di difficoltà. La Brexit ne è stata il culmine, almeno finora, ed è sperabile che l’avanzata “euroscettica” – termine che non mi piace, e nel libro spiego perché – conosca un ripiegamento. Ma partiti, movimenti, gruppi, leader che si oppongono all’Europa unita sono ancora presenti in tutta l’Unione. In alcuni casi rappresentano quote importanti degli elettorati nazionali. D’altro canto, è vero che spesso (anche se questa non è una regola infallibile) quelle forze politiche, se capaci di andare al governo dei loro paesi, tendono a smussare molto la loro propaganda antieuropeista. La realtà (e i veri “interessi nazionali”) sovente piegano il loro estremismo “sovranista”. Ma questo non toglie nulla al fatto che quelle posizioni critiche sono state capaci (quando riescono ad avere la guida di un paese) di ottenere il consenso di molti elettori, premiando i soggetti politici che le hanno difese. Soprattutto, l’europeismo non gode più della buona, potremmo dire ottima, salute che aveva fino a non molti anni fa. Se circoscriviamo lo sguardo al nostro paese, il quasi 90% di italiani che, in un referendum consultivo, si dissero pronti a concedere al parlamento europeo il mandato costituente (di fatto un referendum sulla trasformazione della Comunità economica in una federazione) sembra appartenere a un’epoca lontana, persa nei tempi andati. Ma era soltanto il 1989. In definitiva, quindi, una diagnosi attendibile sullo stato di salute dell’ideale europeista non può fare a meno del confronto con il passato remoto (naturalmente, remoto se commisurato ai tempi dell’integrazione europea), quando l’unificazione sovranazionale era accettata dalla grande maggioranza della popolazione. In questo senso, sembra difficile negare la fine della golden age dell’europeismo – o, più ottimisticamente, una sua interruzione. Ma affinché l’età dell’oro ritorni, occorre che l’europeismo (nella sua concretizzazione storica, non parlo tanto dell’ideale) si acconci a un’autocritica, a riconoscere i suoi fallimenti, a correggere i propri errori. Come cerco di spiegare nel libro, per capire l’antieuropeismo, devi prima di tutto guardare dentro il campo europeista. Solo facendo così si può ridisegnare e ripensare (almeno in parte, non tutto è da gettare via, ovviamente) l’europeismo. Qualcosa è stato fatto. Ma molto resta da fare. Soprattutto, va superata l’idea – in cui spesso indulgono soprattutto le istituzioni comuni – che il problema sia la “scarsa conoscenza” dell’UE da parte dei cittadini e che quindi il rimedio alla contestazione sia informare meglio questi ultimi. È una posizione non priva di una certa arroganza e quindi controproducente. Il problema sono alcuni contenuti e non la forma in cui vengono presentati.

Quando e come nasce il concetto di vincolo europeo?
Generalmente si attribuisce la prima elaborazione del vincolo europeo (in forma embrionale, ma già sufficientemente chiara) al governatore della Banca d’Italia Donato Menichella, che nel 1954 individuò un peculiare rapporto di causa/effetto tra le nascenti istituzioni comuni europeo e lo sviluppo sociale ed economico che cominciava a diffondersi nel paese. Secondo Menichella, la crescita dell’economia postbellica era certamente generata agli aiuti americani concessi nell’ambito dello European recovery program (il piano Marshall, concepito nel 1947). C’era poi lo spirito di ripresa che aleggiava in Italia. Tuttavia, diceva Menichella, non meno importante era quella che lui chiamava l’“organizzazione europea”, la quale indubbiamente vincolava il paese, ma al contempo le forniva indicazioni e limitava gli errori della classe politica nazionale. Le parole del governatore segnalavano la precoce consapevolezza della nostra classe dirigente della necessità di un rapporto di funzionalità tra “l’Europa” e “noi”, che era indispensabile per giustificare (e accettare) il restringimento dei margini di manovra del paese – ossia della sua sovranità. Vi fu subito, quindi, un movente “pedagogico” attribuito “all’organizzazione europea”, il quale peraltro era benvenuto. In fondo, non poteva essere altrimenti: nelle pagine più recenti dell’autobiografia della nazione si leggeva l’ignominia del ventennio fascista e della guerra combattuta a fianco della Germania nazista. La funzione correttiva e disciplinatrice della Comunità avrebbe progressivamente reso non meno importanti, bensì qualitativamente diversi gli altri obblighi internazionali che il paese era tenuto a rispettare. In definitiva, per quanto embrionale, l’idea di “vincolo europeo” avanzata da Menichella poteva non essere incontestata e lo era indirettamente, da parte dei nemici dell’europeismo (su tutti il partito comunista e, fino alla metà degli anni Cinquanta i socialisti) ma era assai coerente con lo spirito del tempo. Ma è a un altro “tecnocrate”, Guido Carli, che fu successore di Menichella alla guida di Via Nazionale, al quale viene generalmente attribuita una concettualizzazione compiuta del vincolo europeo. La troviamo, com’è noto, nella sua autobiografia pubblicata nel 1993, intitolata Cinquant’anni di vita italiana. Essa venne pubblicata in coincidenza con l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht istitutivo dell’Unione europea, che Carli aveva firmato per il governo italiano quale ministro del Tesoro. Nella concezione di Carli il vincolo europeo costituiva la leva indispensabile per innestare nel ceppo della società italiana un insieme di ordinamenti che essa, dal suo intimo, non aveva avuto la capacità di produrre. Questa linea di continuità che lega due governatori della Banca d’Italia ha fatto sì che generalmente il vincolo europeo venga considerato una nozione di conio tecnocratico, formulato per imporre alla classe politica comportamenti rigorosi (soprattutto nell’ambito della politiche di bilancio) che essa, da sola, non sarebbe stata appunto in grado di tenere. Ma, in verità, sin dagli anni Cinquanta, anche molti settori della classe politica maturarono l’idea che la partecipazione dell’Italia alle prime istituzioni comuni europea (la Comunità del carbone e dell’acciaio e poi la Comunità economica ed Euratom) dovesse essere intesa anche come l’adozione di uno strumento capace di imporre una disciplina al paese. Attraverso quel vincolo la classe politica sarebbe stata spinta (o obbligata) a promuovere riforme altrimenti impossibili da realizzare e però necessarie per allineare l’Italia ai più avanzati partner europei. Uno dei politici che con più chiarezza interpretò i questo modo la partecipazione dell’Italia alle Comunità fu il democristiano Giuseppe Pella. Nel 1957 egli presentò la “scelta europea” con parole che anticipano quelle usate da Carli quasi 40 anni dopo. Pella parlò del costituendo mercato comune come di una sorta di “camicia” che avrebbe imbrigliato la classe politica forzandola a scelte virtuose. Ma ciò che è importante è che Pella collegò la disciplina europea a un altro aspetto destinato a diventare costitutivo del rapporto tra l’Italia e “l’Europa”: la necessità di sottrarre la scelta europea (e in particolare la sua fase discendente, ovvero l’applicazione dei trattati) alle “turbolenze” e alle incertezze del confronto parlamentare. Naturalmente, la preoccupazione era generata dalla capacità ostruzionistica e di opposizione al “progetto europeo” del partito comunista. Questo obiettivo, ovvero “emarginare” il parlamento italiano (va detto che negli altri Stati membri le cose andarono un po’ diversamente, ma in fondo non molto) si concretizzò con una serie di leggi delega che dettero all’esecutivo il controllo della fase discendente. Questa scelta causò malumori e perplessità anche in molti parlamentari europeisti (uno su tutti: Manlio Rossi-Doria), che vi vedevano un vulnus arrecato al parlamento italiano anche perché non era compensata da un corrispettivo aumento dei poteri del Parlamento europeo.

In che modo il vincolo europeo ha caratterizzato le politiche comunitarie italiane negli anni successivi all’entrata in vigore dei trattati di Roma?
Come ho spiegato prima, la formulazione del vincolo europeo coincide con la nascita delle Comunità europee. Ma nel più generale discorso pubblico, esso restò a lungo abbastanza “sottotraccia”. Questo dipende anche dal fatto che l’integrazione europea non era un tema particolarmente sentito, e vissuto, dall’opinione pubblica. Si sapeva che c’era (o meglio: alcuni ne sapevano qualcosa, pochi erano realmente ben informati), che contribuiva a garantire la pace in Europa, e che contribuiva anche al dispiegarsi delle Trente glorieuses. Questo bastava (ed era moltissimo, si intende) ad assicurarle il consenso, attivo o permissivo che fosse. Ma, in verità, la capacità delle Comunità di incidere nella vita quotidiana dei cittadini non può essere paragonato a quanto accade oggi con l’Unione. Anche il “vincolo”, quindi, resta sullo sfondo. L’eccezione più importante è rappresentata dalla crisi economica del 1963-64 (la “congiuntura”), quando il vincolo europeo (e in particolare il tentativo della Commissione europea di spingere il governo italiano ad adottare misure correttive dei nostri conti pubblici) venne usato per una partita politica interna, quella che divideva (generalizzando) le forze riformiste e le forze moderate presenti nel governo di centro-sinistra guidato ad Aldo Moro. Si tratta della vicenda della “linea Carli-Colombo”, di cui si sono occupati molti studiosi. L’“ingerenza” della Commissione europea, che in effetti agì sulla base del trattato CEE, fu auspicata o denunciata attraverso un uso apertamente strumentale – ed era la prima volta che ciò accadeva con questa modalità – del vincolo europeo. L’Europa ci avrebbe giustamente imposto un’austerità che gli italiani non volevano e, soprattutto, di cui non c’era bisogno. Oppure, vista dalla parte opposta, grazie al vincolo saremmo stati costretti a superare la crisi con scelte che non potevano rimandare ma che la nostra classe politica, da sola, non avrebbe avuto il coraggio e la forza di compiere. Entrambe le letture erano fuorvianti e mostrano una certa fragilità del nostro europeismo, come provo ad argomentare nel libro. Ma soprattutto, quell’episodio è cruciale perché rivela la conseguenza indesiderata del vincolo europea: l’idea che l’Europa sia “altro da noi” – premessa importante per le successive, più tarde manifestazioni dell’antieuropeismo populista.

Il trattato di Maastricht segna l’apoteosi del vincolo europeo: in che modo esso rappresentò un cambio di paradigma?
Il trattato di Maastricht determina un salto di qualità nel processo di integrazione europea, con il passaggio alla “europeizzazione”. L’Unione, con l’insieme delle sue azioni e delle sue politiche, diventa sempre più incisiva. Su questo non credo ci sia bisogno di dire molto – basti pensare all’Unione economica e monetaria e quindi all’euro. Ed è proprio il percorso che ci avrebbe condotto nella zona euro che crea un ambiente favorevole alla diffusione dell’idea che l’Europa sia un vincolo. I parametri di Maastricht, la disciplina di bilancio, i sacrifici “imposti dall’esterno” per “obbligarci” a stare al passo con gli altri partner europei, l’esigenza imprescindibile di “entrare in Europa” (così veniva definito il cammino verso l’UEM), creano l’ambiente ideale per la trasformazione dell’Europa “come vincolo” da locuzione padroneggiata dai pochi conoscitori del gergo comunitario in vera e propria narrazione “europeista”, che finisce per oscurare le molte altre interpretazioni che era (ed è) possibile dare della presenza italiana nel club comunitario. Questo processo è favorito dalla identificazione dell’Europa unita con l’euro, che conduce a quella che nel libro definisco la “sineddoche europea”. Si trovano qui, ovvero nella trasformazione del senso del nostro europeismo (della nostra partecipazione al cosiddetto progetto europeo), le origini della metamorfosi della disciplina europea da concezione europeista in argomento a disposizione dei critici (o dei nemici) di “Bruxelles”.

Quali prospettive, a Suo avviso, per il vincolo europeo?
Non so, sinceramente, quali prospettive abbia il vincolo europeo. Quello di cui sono certo è che la concezione che gli soggiace (un pragmatismo basato su una visione “geometrica” dell’europeismo e su un giudizio tutto sommato assai poco lusinghiero degli italiani) non solo è tutta da discutere, ma è pure dannosa. Occorre recuperare idealità e visioni elevate – oltreché obiettivi che siano ambiziosi senza sconfinare nell’utopismo – in grado di ridestare nell’opinione pubblica il senso di una impresa inclusiva, e quindi coinvolgente – e allo stesso tempo utile, conveniente per così dire. È questo, dal mio punto di vista, uno dei modi per superare la crisi, identitaria oltre che politica, dell’europeismo italiano sottraendolo a una concezione e a una narrazione che lo hanno frequentemente ridotto a vincoli, regole e obblighi dettati da un soggetto implicitamente pensato come distinto e perciò lontano da noi.

Daniele Pasquinucci è professore ordinario di Storia delle relazioni internazionali e cattedra Jean Monnet in Storia dell’integrazione europea all’Università di Siena. È autore di volumi e saggi sulla storia dell’integrazione europea.

ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER
Non perderti le novità!
Mi iscrivo
Niente spam, promesso! Potrai comunque cancellarti in qualsiasi momento.
close-link