“Sinistra senza classi” di Marco Damiani

Prof. Marco Damiani, Lei è autore del libro Sinistra senza classi, edito da Mondadori Università: in che modo il processo di trasformazione in atto nella sinistra europea si è cristallizzato in forme originali di organizzazione politica?
Sinistra senza classi, Marco DamianiIl libro nasce dalla volontà di descrivere e interpretare il processo di trasformazione che negli anni a cavallo tra XX e XXI secolo, in Europa, ha caratterizzato la comparsa di nuovi partiti di sinistra, nati con l’esplicito obiettivo di rivendicare un profondo cambiamento sociale.

L’obiettivo è oltrepassare il Novecento, superare la centralità esclusiva del conflitto capitale/lavoro, per cercare d’includere nella sfera politica e nei meccanismi di funzionamento democratico i tanti conflitti (etnici, culturali, politici, ambientali) che si vengono a determinare nella società post-industriale. In questo contesto, all’interno di un quadro di riferimento in continua evoluzione, a sinistra, emerge una proposta originale, interessata a implementare il suo progetto attorno alla mobilitazione di un soggetto collettivo non più identificato nella “classe” sociale, bensì nel “popolo”, composto da persone e cittadini disorientati e preoccupati dagli esiti prodotti dalla trasformazione in corso e dalle differenti e plurali articolazioni critiche di un processo post-democratico, che secondo molti osservatori potrebbe rischiare di creare una veloce involuzione istituzionale nei governi di tutti i Paesi occidentali.

Si afferma in questi termini la cosiddetta svolta populista (in inglese, “populism turn”), una vera e propria ondata neopopulista, sicuramente ben rappresentata dai partiti della destra ultraconservatrice, ma capace di trovare spazio anche in una certa parte della sinistra, che una volta abbandonata la dimensione ideologica di classe si dichiara interessata a costruire un progetto politico fondato sulla mobilitazione del popolo, contro il blocco di potere individuato nella “casta” dei governanti. S’inserisce in questo ragionamento il contributo fornito da Ernesto Laclau, che insieme a Chantal Mouffe cerca d’immaginare un’altra sinistra possibile, costituita sulla condivisione di “domande popolari”, capaci di connettere battaglie sociali e politiche, altrimenti disgregate. L’ambizione è quella di saldare le istanze provenienti dai tanti, distinti, e plurali strati sociali, in modo da poter comporre artificialmente una popolazione capace di condividere una critica radicale alla società contemporanea.

A quali fattori è imputabile il processo di trasformazione che ha investito i partiti della sinistra in Europa?
Il mutamento che investe i partiti della sinistra in Europa è imputabile a diversi ordini di fattori. Il primo è riconducibile alla sfera economica, alle trasformazioni del sistema di produzione capitalistico e al superamento del modello industriale di tipo fordista. A fronte di tali variazioni, la teoria delle classi tende a perdere di efficacia esplicativa, non essendo più sufficiente, in via esclusiva, a interpretare i modelli di funzionamento dell’accresciuta complessità sociale. Questo rinnovato scenario politico apre all’affermazione di conflitti nuovi, di natura post-materialista, legati ai bisogni generazionali, di genere, ambientali e pacifisti.

Il secondo ordine di fattori è di carattere culturale, imputabile alla veloce accelerazione del processo di “individualizzazione” sociale, che tende a separare il destino dei singoli individui dalle organizzazioni all’interno delle quali veniva organizzato il processo dell’identificazione collettiva. Tale sviluppo emancipativo accresce il livello di autocoscienza dell’essere umano, stimolandone l’autodeterminazione e l’autorealizzazione, inducendolo però contemporaneamente a sperimentare un maggior grado di libertà personale e un eguale livello di solitudine e isolamento sociale. A seguito di questo fenomeno si registra la progressiva disgregazione dei rapporti di classe e la formazione di una moltitudine di attori protagonisti, rappresentativi di diversi interessi, domande e bisogni concreti.

Il terzo elemento di trasformazione è di ordine sociale, intendendo con ciò l’affermazione di una società globalizzata, capace di superare i confini spazio-temporali degli Stati-nazionali protagonisti della storia europea novecentesca. In tal senso, le popolazioni residenti nei principali Paesi democratici e liberali sono soggette a un forte “contraccolpo culturale” (cultural backlash) determinato dalla diffusa insicurezza sociale, a sua volta prodotta dalla complessità di un mondo sempre più interconnesso, con riferimento al quale si registra una veloce espansione dei valori del cosmopolitismo libertario.

Oltre a tutto ciò, per meglio analizzare i cambiamenti che condizionano lo sviluppo dei partiti della sinistra in Europa è necessario contestualmente considerare gli esiti dalla rivoluzione tecnologica e informatica, capaci di costruire un “sistema dei media” complesso, che obbliga i partiti medesimi a riorganizzare profondamente la loro attività politica ed elettorale. Si considerino, per finire, gli effetti prodotti nel breve periodo dalla crisi della Great Recession, che a partire dai primi anni Duemila colpisce in modo particolare gli Stati dell’Europa meridionale, indebolendone fortemente le economie di scala nazionale, contribuendo ad accrescere la lacerazione del patto sistemico tra governati e governanti e ad aumentare la distanza percepita tra la classe dirigente e i cittadini-elettori. È in questo contesto che si fa largo una nuova proposta politica, capace di farsi portatrice di ampi contenuti di originalità rispetto al passato e assumendo come punto di partenza il riconoscimento pubblico della vulnerabilità dei vecchi partiti di massa e la ricerca di un nuovo criterio di proposta e di organizzazione politica.

Qual è lo scenario politico-culturale dei new party della sinistra populista europea?
Quello che si realizza è un cambiamento profondo che prefigura, in Europa, la costruzione di una sinistra politica, volta a organizzare il conflitto sociale attorno alla contrapposizione “alto/basso” della società, intendendo con alto l’élite di governo a tutti i livelli istituzionali e con basso l’insieme delle persone che subiscono criticamente gli effetti di processi di trasformazione e scelte politiche ritenuti sbagliati, inadeguati e dannosi. In quest’accezione, il basso trascende il proletariato, la classe operaia, i lavoratori, precostituendo e predefinendo una categoria più ampia d’individui, che dal lato politico presentano esigenze, domande e bisogni diversi rispetto a quelli rappresentati dai partiti social-comunisti. In estrema sintesi, se la classe sociale veniva concepita come un “blocco” di persone a forte contenuto di omogeneità interna, i cui membri condividevano una medesima posizione sociale nel processo di produzione capitalistico, in età post-industriale il concetto di popolo fa riferimento a un soggetto collettivo molto più fluido e più ampio, che diventa il fulcro di un progetto politico alternativo a quelli storicamente determinati.

Al di là della riflessione avanzata in ambito teorico e filosofico, nell’accezione politica di una specifica parte della sinistra contemporanea, con l’espressione “popolo” si suole definire un’entità eterogenea di persone costituita da coloro che subiscono criticamente gli effetti determinati dalle scelte politiche adottate dall’élite di governo. In tal senso, il popolo può identificarsi in una pluralità d’individui, donne e uomini, con vissuti, provenienze e interessi distinti, con culture e livelli culturali diseguali, differenti stili di vita e discordanti visioni del mondo, tutti accomunati, però, da un comparabile stato di sofferenza e malessere diffusi. Si noti, al riguardo, come una simile pluralità di singoli attori possa sperare di costituirsi in un soggetto collettivo a rilevante valore politico soltanto trovando un accordo e un’unità possibili attorno alla costruzione identitaria di un nemico comune a cui contrapporsi, indicato, in questo caso, nel blocco di potere rappresentato dalla “casta” interpretata dalle classi dirigenti, politiche, economiche e culturali, nazionali e globali, che nell’esercizio del potere costituito finiscono col rafforzare ed accrescere il rapporto di forza esistente e la distanza percepita tra il popolo e le élite.

In quale sfera identitaria si inserisce la sinistra senza classi e quali ne sono i valori fondamentali?
Dopo le esperienze latinoamericane dei primi anni Duemila, anche in Europa, una parte della sinistra finisce con il guardare nella stessa direzione, seppur se con connotazioni diverse a seconda dei casi. Tra le operazioni politiche più importanti, quelle che beneficiano di maggiore visibilità politica anche per il successo riscontrato in termini elettorali, sono essenzialmente tre. La prima è quella spagnola di Podemos, nata sulla scia del movimento degli indignados, protagonista dei fatti di Puerta del Sol del 15 maggio del 2011. La seconda è quella francese di France insoumise, che a partire dal 2016 avvia una sperimentazione nuova, dando luogo a un’organizzazione politica concepita in contrapposizione con la sinistra socialista. La terza è quella di Syriza in Grecia, che rappresenta un esempio sui generis di partito della sinistra radicale, che negli anni più difficili della crisi economica, dopo le proteste di Piazza Syntagma – esplose ad Atene nell’estate del 2011 – assume una connotazione politica diversa rispetto al suo recente passato, trasformando la propria linea politica e con ciò arrivando ad assomigliare (almeno per una parte della sua storia politica) alle esperienze europee più vicine alla sinistra populista.

Tali forze politiche, meglio attenzionate nel libro, ancorché diverse le une dalle altre, sono accomunate dalla condivisione di un medesimo valore collettivo, fondato sul principio dell’inclusione sociale. Tracciando una linea di confine con le esperienze storiche di memoria novecentesca, i new party della sinistra populista smettono di fare espresso riferimento a una società “di eguali”, da perseguire mediante gli strumenti della lotta di classe, e iniziano a pensare di poter governare il conflitto politico mediante la combinazione delle rivendicazioni provenienti dalle diverse parti sociali. Adottare il principio dell’inclusione sociale come categoria primaria del proprio “immaginario sociale” significa fare riferimento alla costruzione di una democrazia radicale, che prova a includere nel sistema istituzionale le tante anime del pluralismo politico presenti nella società contemporanea. Evitando di spaventare le classi medie in nome di un egualitarismo ideologico di stampo novecentesco, nei partiti della sinistra populista il principio dell’inclusione permette di aggregare istanze e persone di diversi ceti sociali sulla base di richieste legate a una più ampia società del benessere. Un impulso trasformativo di questo tipo, anziché prefigurare un cambiamento strutturale del sistema politico dominante e la palingenesi dell’ordine costituito, all’interno del campo definito dalle regole del gioco democratico, punta a creare le condizioni utili al perseguimento di valori legati alla giustizia sociale, all’ambientalismo e all’ecologismo, al femminismo, al gender culture, al pacifismo, solo per fare riferimento ad alcuni dei valori che compongono la sfera identitaria di tali formazioni politiche.

Quale modello organizzativo adottano i new party della sinistra populista e che rapporto si viene a determinare tra leader e struttura di partito?
Incapaci di codificare un modello univoco, la tendenza dei new party della sinistra populista è adottare modalità di funzionamento diverse a seconda dei casi e dei distinti sistemi politici di riferimento. Essendo ogni esperienza nazionale originale rispetto a tutte le altre, nell’impossibilità di fare riferimento a una vera e propria famiglia politica europea della sinistra populista, tali forze politiche cercano di trovare un assetto diverso a seconda dei casi.

Il modello organizzativo che tendono a privilegiare è – al tempo stesso – “leggero” ma “forte”. Leggero con riferimento alla struttura di apparato, poco istituzionalizzata, capace di adattarsi al contesto contingente e flessibile rispetto ai cambiamenti richiesti dagli input provenienti dall’ambiente esterno. Tali caratteristiche obbligano i partiti della sinistra populista a fare concreto affidamento su un processo di disintermediazione politica piuttosto avanzato, fondato sull’alta visibilità e sull’esposizione del leader. Ancorché leggera, la struttura di tali formazioni politiche è forte perché costituita (in particolare, nella loro fase iniziale) attorno a una richiesta di capillare mobilitazione dal basso, fondata su parole d’ordine ampiamente condivise tra iscritti e simpatizzanti. Da questo punto di vista, il leader diventa uno strumento fondamentale dell’azione politica, capace d’interpretare in prima persona la battaglia politica, nel tentativo di concentrare su di sé la forza necessaria per cercare di penetrare nel sistema politico ex-ante e per cercare di cambiarlo radicalmente. È per questa ragione che i leader di tali organizzazioni politiche esercitano un forte potere sia interno sia esterno al partito medesimo. Pablo Iglesias, Jean Luc Mélenchon, Alexis Tsipras hanno svolto a pieno titolo questo ruolo e il compito ad essi assegnato.

Come si relazionano con l’Unione Europea i partiti della sinistra populista?
I partiti della sinistra populista non sono partiti anti-europeisti tout-court, essendo semmai preferibile considerarli alla stregua di partiti avversi alle istituzioni dell’Unione europea e ai trattati internazionali che l’hanno costituita nelle forme e nelle modalità storicamente determinate. In particolare, la critica è rivolta contro il Trattato di Maastricht, in quanto fondativo dell’Unione. Lungi dall’esprimere un’ostilità ideologica verso il processo d’integrazione europea, tali formazioni politiche reclamano un diverso modello di governance sovranazionale, a favore di un’unificazione auspicabilmente più politica, non solo economica e monetaria, interessata a creare le condizioni per una maggiore solidarietà e cooperazione tra i singoli Stati membri, in contrasto con le politiche neoliberiste che – a loro avviso – guidano il processo d’integrazione.

Per i principali esponenti della sinistra populista l’UE avrebbe la responsabilità di approvare politiche di austerità economica e finanziaria, operate a vantaggio di ristrette oligarchie di potere, a danno della stragrande maggioranza della popolazione. In questa prospettiva, le condizioni critiche registrate all’inizio degli anni Duemila dai principali Paesi dell’Unione e in modo particolare da quelli della sponda nord del Mediterraneo sarebbero imputabili alle scelte dell’élite dirigente in carica e alle politiche economiche da queste implementate.

Questa analisi, o la rappresentazione politica di questo punto di vista, porta con sé un’inevitabile lettura critica della governance europea e dei suoi principali attori protagonisti, siano essi di “destra” oppure di “sinistra”, con l’auspicio e la richiesta della loro immediata rimozione e della loro conseguente sostituzione. L’unione auspicata è quella dell’Europa dei popoli, intesa come un nuovo patto costituente, in grado di garantire i princìpi di pace e di eguaglianza, a difesa delle identità e delle differenze etniche, religiose e culturali che persistono tra i vari Stati membri. Vista da sinistra, l’Europa dei popoli viene idealmente concepita in nome del superamento degli egoismi nazionali, a favore di politiche comunitarie unitarie e coordinate, a cominciare dalla politica internazionale, dalla politica delle migrazioni, dalle politiche dello sviluppo economico, sociali e di solidarietà.

Marco Damiani è Professore associato di Sociologia dei fenomeni politici all’Università degli Studi di Perugia. Tra le sue pubblicazioni, Populist Radical Left Parties in Western Europe (Routledge 2020); La sinistra radicale in Europa. Italia, Spagna, Francia, Germania (Donzelli 2016).

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