
di Paolo Prodi
il Mulino
«Circoscrivere il problema del rapporto tra cristianesimo e potere all’interno dei secoli della cosiddetta «età moderna» (dalla scoperta dell’America o dalla Riforma in poi) mi sembra limitativo e fuorviante in un momento storico come questo in cui i tradizionali contenitori elaborati dalla modernità, lo Stato e la Chiesa, sembrano aver perso gran parte della capacità di contenere il potere e il sacro: la prima riflessione da fare è dunque che bisogna inserire il problema all’interno di un ben più lungo percorso.
Una considerazione si è in me rafforzata man mano in questi anni sino a trasformarsi ora in una convinzione profonda: il potere ha sempre a che fare con il sacro e la grandezza dell’Occidente è consistita soprattutto nel recintare il sacro, non nell’espellerlo come un demone. Questo ha permesso la de-magificazione del mondo e la nascita della politica come tecnica, secondo la celebre visione di Max Weber: non il solito Weber dello Spirito del capitalismo che ancora viene trasmesso ai nostri studenti e alla vulgata giornalistica, ma il Weber più tardo dell’introduzione agli scritti di Sociologia della religione (1920). L’Occidente nella sua storia ha imparato a tenere a bada il sacro senza scacciarlo e questa è la nostra conquista della laicità, conquista che ora è in pericolo sotto il duplice attacco dei fondamentalismi e delle nuove religioni politiche. […]
Questo lungo periodo ho cercato di percorrere durante più di quarant’anni con una serie di ricerche – e di volumi – alle quali debbo per forza rinviare. Nel Sacramento del potere ho ripercorso le tappe della nascita del patto politico a partire dalla novità introdotta per la prima volta nel mondo ebraico. Con l’idea del Patto, dell’Alleanza, che lo coinvolge in prima persona, Jahvé diventa direttamente il garante dei rapporti che gli uomini stabiliscono fra di loro e persona «terza» che dall’alto giudica i conflitti di interessi tra gli uomini, senza identificarsi con il potere politico o sacrale: i profeti contestano il potere in nome di Dio. In Una storia della giustizia ho cercato di cogliere le conseguenze di questo lungo processo nella formazione di un «foro», di un luogo di giudizio che non si identifica con il tribunale del detentore del potere politico: la sovranità e il sacro si separano rendendo possibile non soltanto la resistenza di fronte agli abusi del potere – di un potere che può essere malvagio – ma anche la ricerca di un luogo terreno della giustizia diverso dalle stanze stesse del potere. Questa innovazione ha come conseguenza la prima separazione del concetto di «peccato», come colpa nei riguardi di Dio, dal concetto di «reato» come violazione della legge positiva imposta dal potere.
In tale quadro ho seguito lo sviluppo di questa tensione dialettica tra i poli nella complessa situazione che si determina nel cristianesimo con la nascita della Chiesa come «profezia istituzionalizzata». Nel mondo cristiano Stato e Chiesa si divisero fin dall’inizio, ma questa divisione si consolida soltanto in Occidente mentre nell’Oriente bizantino prevale la visione di un cosmo in cui l’imperatore è il rappresentante di Dio sulla terra, vertice unico di un cosmo a un tempo fisico e politico. In Europa invece, soprattutto a partire dall’XI secolo, con quella che è stata definita «la rivoluzione papale», il dualismo originario diviene un dualismo istituzionale e l’appartenenza plurima degli individui si trasforma in una tensione aperta che mette in fibrillazione continua tutta la società europea: la prima delle rivoluzioni europee, la madre di tutte le rivoluzioni, de-sacralizzando il potere politico, lo priva o almeno lo depaupera della sua sacralità intrinseca. […]
È questa tensione che ha permesso, come ho messo in luce nella terza tappa di tale percorso, Settimo non rubare, la nascita della rivoluzione commerciale, la nascita di un «terzo potere», accanto a quello sacro e a quello politico, capace di affermarsi come possesso e controllo del territorio. Dopo il tornante del primo millennio, tra l’XI e il XIII secolo, si sviluppa nell’Europa occidentale una rete sempre più fitta di traffici interregionali nei quali la moneta assume un ruolo centrale nel moltiplicare lo scambio delle merci: il fenomeno che gli storici dell’economia hanno denominato «rivoluzione commerciale». […] In questi secoli non nasce soltanto la prima partecipazione dei cittadini al governo della cosa pubblica con le coniurationes collettive e la nascita dei comuni, ma nasce anche un potere economico autonomo, indipendente dal dominio sul territorio, in rapporto dialettico e non sovrapposto con il potere sacro e il potere politico: in queste circostanze nasce la dialettica complessa tra il bene comune come fine della politica, l’interesse come fine dell’attività economica e il sacro, dialettica che ci porta sino ai nostri tempi.
A conclusione di queste tre tappe mi è parso di poter intravedere che il nostro Occidente, o, se si vuole, la nostra modernità è nata proprio dalla tensione fra questi tre poli. […] La tesi che ho avanzato molti anni or sono ne Il sovrano pontefice e che mi sembra essere ancora valida è che il papato abbia fornito con questo percorso un «prototipo» per le moderne monarchie assolute con un esempio dell’unione tra potere spirituale e temporale e con la trasformazione della politica stessa da mero atto d’imperio a nuovo potere che tende a formare e disciplinare l’uomo dalla nascita alla morte. Il risultato positivo del papato moderno è stata la conservazione, almeno in parte, dell’universalismo e del dualismo: si deve al papato se le Chiese dei paesi rimasti legati a Roma non sono diventate Chiese di Stato; questo, però, ha comportato molte ambiguità come le pratiche concordatarie concordatarie nell’alleanza fra trono e altare e la chiusura nella difesa dei privilegi clericali.
Ma un prezzo altissimo, più nascosto e meno studiato, è stato pagato all’interno della Chiesa stessa in questi secoli per il processo di imitazione dello Stato da parte della Chiesa: la persona del principe è entrata in simbiosi con quella del capo della Chiesa dando un’impronta sempre più segnata da un parallelismo tra le uniche due societates perfectae, sovrane, esistenti sulla terra, particolarmente nell’esaltazione della centralizzazione e della giuridicizzazione, ben oltre il termine cronologico della fine dello Stato pontificio. […]
Tutto cambia intorno alla metà del XV secolo, con la conclusione della crisi conciliarista, la fine della respublica christiana e l’affermazione del papato rinascimentale, a partire dalla stessa configurazione delle entrate della Chiesa di Roma. Generalmente si parla della Riforma protestante come reazione agli abusi della Chiesa medievale, ma in realtà, come la storiografia degli ultimi decenni ha mostrato, la reazione è cagionata non tanto dalla corruzione dei sistemi antichi di tassazione previsti nel diritto canonico, quanto dalle novità che sono state introdotte nel tardo medioevo per far fronte all’indebolimento della struttura fiscale della Chiesa derivante dalle pretese delle nuove monarchie e dall’economia monetaria. Le tasse fondamentali tradizionali, le decime e le «annate», tutte le tasse riscosse da secoli sul conferimento e sulle rendite dei benefici ecclesiastici, vengono meno; le proprietà e le rendite ecclesiastiche cominciano a essere confiscate o manomesse dai principi ben prima della Riforma e per rimediare Roma accentua le riscossioni di entrate straordinarie, per la concessione di esenzioni, dispense dalle irregolarità canoniche e privilegi da parte della Penitenzieria Apostolica. In questo nuovo quadro si apre anche il problema della vendita delle indulgenze che funge da elemento scatenante.
Sulla base di queste grandi coordinate cronologiche e spaziali, soltanto ora siamo quindi in grado di cogliere con la necessaria distanza il significato della Riforma protestante e della stessa riforma cattolica promossa dal concilio di Trento, avvenimenti con i quali di solito si apre nei manuali di storia l’età moderna. Questi avvenimenti ci appaiono sempre di più non come un’improvvisa frattura o come una reazione alla corruzione e agli abusi che si erano introdotti nella vita ecclesiastica, ma come la conclusione di un lungo periodo di crisi della cristianità medievale: non un punto di partenza, ma in qualche modo il culmine, il punto di arrivo di un processo di trasformazione sia nel nuovo rapporto dell’individuo con Dio, sia nel rapporto pubblico tra il sacro e il potere, tra la Chiesa, lo Stato e il mercato. […]
Anche se nell’età confessionale ci si avvicina al monopolio del potere (è il momento in cui più pericolosamente il potere politico e quello religioso tendono a unirsi), rimane sempre una concorrenza tra gli Stati e tra le confessioni, rimane quella distinzione di piani tra la sfera pubblica e la sfera privata che aveva permesso la nascita dell’individuo. Il sistema dualista che aveva caratterizzato i secoli del pieno medioevo, nella tensione tra papato e impero, tra potere ecclesiastico e potere laico, subisce una specie di metamorfosi. Non viene meno il dualismo tipico del cristianesimo occidentale, ma si dislocano diversamente i punti di attrito di questa continua tensione: nella concorrenza tra gli Stati, tra le Chiese, nella rivendicazione di diversi fondamenti dell’autorità, nella distinzione tra la sfera della coscienza e la sfera del diritto statale positivo.
Non vi è dubbio, d’altra parte, che negli ultimi secoli questo dualismo si sia indebolito anche sul piano del diritto e dell’etica, delle norme relative al comportamento umano. Il processo di modernizzazione del diritto, processo che si era concluso con la statizzazione e la positivizzazione delle leggi, con l’età delle costituzioni e dei codici, aveva posto fine al pluralismo degli ordinamenti giuridici medievali, ma il dualismo non era scomparso: negli ultimi due secoli sino ai nostri giorni, esso ha continuato a svilupparsi spostandosi tra la sfera del diritto positivo (civile o ecclesiastico) e la sfera della coscienza e permettendo così l’espansione del moderno Stato di diritto.
Solo negli ultimi tempi questa tensione, questo dualismo sembra essere venuto meno con il passaggio nel nuovo millennio. La norma positiva, statale o sopra-statale (nella crisi della sovranità statale comprendo in questa categoria anche le norme derivanti da autorità metastatali), tende ora a definire qualsiasi aspetto della vita sociale occupando ogni giorno sempre di più i territori che sino alla nostra generazione erano regolati da altri tipi di norme, morali e deontologiche: dai rapporti sessuali a quelli familiari, dal gioco alla scuola, ai grandi temi della morte e della vita, gli antichi sistemi di norme sono caduti. […].
D’altra parte, sul piano dell’etica appare indubbia la difficoltà attuale delle Chiese a esprimere norme aventi un valore universale: l’insistenza stessa della Chiesa romana per l’imposizione delle norme etiche nella legislazione con strumenti politici finisce per mettere in secondo piano il problema fondamentale della sua autorità in relazione al perdono del peccato e alla salvezza. Nella stessa riflessione teologica degli ultimi decenni il problema del peccato come offesa unicamente a Dio (e quindi ben distinto dal reato) pare quasi dimenticato: pensiamo alla crisi della pratica del sacramento della penitenza.
Attualmente, però, la gestione etica delle coscienze non deve essere tanto difesa nei confronti degli Stati, quanto in primo luogo nei confronti dei nuovi poteri che si affacciano prepotentemente all’orizzonte con la pretesa di un nuovo monopolio normativo dei comportamenti fondato non più sull’autorità dello Stato ma sui mass media e sulle leggi del consumo. […]
Sono certamente d’accordo sul fatto che la secolarizzazione è profondamente penetrata all’interno della Chiesa cattolica con la progressiva emarginazione della coscienza e del foro interno. Questo riporta il discorso alla necessità della riunione dei cristiani non soltanto per un generico ecumenismo, ma anche per il recupero di valori che sono andati persi o che in ogni caso si sono maggiormente conservati nelle altre confessioni cristiane nate dalla Riforma. Un discorso analogo deve essere condotto anche nei riguardi delle Chiese ortodosse orientali (anch’esse ora più libere dall’abbraccio politico) per il recupero della componente interiore, comunitaria ed eucaristica, del cristianesimo.
In sostanza, penso che le possibilità aperte dai progressi della scienza e della tecnologia, le sperimentazioni genetiche, le manipolazioni della natura e dell’ambiente pongano l’umanità di fronte a un bivio in cui si deve scegliere tra l’adeguamento a un nuovo monopolio cosmico del potere in cui il cielo e la terra si identificano in un nuovo ordine mondiale (di tipo confuciano o di commissioni etiche onnipotenti) oppure un cammino che tiene aperta la porta alla coscienza dell’individuo e alla ricerca di una salvezza personale.
I saggi raccolti in questo volume sono usciti in un arco di tempo di cinquant’anni. Sin dall’inizio avevo studiato il problema della Chiesa e del cristianesimo prevalentemente dall’angolatura del rapporto con il potere […].
Il rapporto tra cristianesimo e potere rappresenta quindi una specie di filo rosso di tutta la mia attività di ricerca: il grande punto interrogativo che mi è stato di continuo davanti agli occhi nel cammino di questi decenni. Ho inserito all’inizio due testi nei quali si manifesta la sensibilità verso il problema dei rapporti con il potere finanziario e con quello politico che sarebbe poi maturata più tardi […]. Il primo, sulle finanze pontificie durante il concilio di Trento […] mi sembra conservi una sua permanente attualità: la crisi delle quotazioni del debito pubblico papale e del valore degli uffici curiali durante l’ultima fase del concilio di Trento rappresenta particolarmente oggi un esempio forte delle correlazioni storiche necessarie per comprendere la realtà effettuale delle cose, le implicazioni concrete del potere economico nella vita delle istituzioni ecclesiastiche. Il secondo saggio, sulle strutture della Chiesa veneziana, mi coinvolse […] nell’avventura della storia di Venezia: storia che mi introdusse quasi per forza nel problema dell’intreccio fra le strutture politiche e quelle religiose all’interno dello Stato moderno, lo scenario in cui si svilupparono la figura e l’azione di Paolo Sarpi.
Certamente il problema del rapporto tra cristianesimo e potere è maturato in modo organico soltanto dopo, negli anni Settanta-Ottanta, per motivi sia storiografici che storici. […] Sul piano storico avevano pesato le discussioni che si erano aperte con la conclusione del concilio Vaticano II sul tema della ricchezza e della povertà, sul rapporto tra la Chiesa come popolo di Dio e la Chiesa gerarchica, sulla teologia della liberazione come ideologia. Nella Chiesa cattolica non si aprì allora soltanto la contrapposizione fra conservatori e riformatori, ma si manifestò un contrasto (forse molto più profondo) tra due concezioni diverse del potere nella Chiesa: da una parte coloro che vedevano la Chiesa come strumento per la liberazione dei popoli da ogni forma di colonialismo e di povertà, quella che assunse poi la bandiera della «teologia della liberazione»; dall’altra coloro che ritenevano necessaria la conferma del patto tra la religione e la struttura di potere che si era venuta consolidando nell’Occidente liberale e democratico. La tragedia che si consumò nel pontificato di Paolo VI avviene più su questo piano che sul piano dogmatico o sullo stesso piano della riforma liturgica. In sostanza, a mio avviso, la disputa non era tra coloro che volevano superare la «Chiesa costantiniana» e la tesi di coloro che difendevano le strutture secolari del potere sacerdotale, ma su chi dovesse essere il nuovo Costantino: se l’Occidente o il nuovo mondo che stava liberandosi dal capitalismo. […]
Di qui l’inizio di un percorso che mi ha portato dallo studio della doppia personalità del pontefice come papa-re, come prototipo della politica moderna per l’unione tra il potere politico e l’ideologia capace di formare l’uomo dalla nascita alla morte (Il sovrano pontefice, 1982), al tema del patto politico che è confluito ne Il sacramento del potere (1992), al passaggio dalla coesistenza dei diversi ordini giuridici del medioevo al moderno dualismo tra la legge positiva dello stato e la coscienza (Una storia della giustizia, 2000). […]
In realtà il cristianesimo, come qualsiasi religione, aveva sempre avuto a che fare con il potere, anche prima di Costantino, e si era poi evoluto nella Chiesa feudale, nella Chiesa dei comuni e delle città medievali sino a raggiungere la sua maturità con le Chiese territoriali dell’età moderna nelle diverse formulazioni confessionali.
Qui occorre però enunciare chiaramente un problema di metodo che lo storico deve affrontare e che non può non avere riflessi sulla visione ad intra della Chiesa: se è vero che la Chiesa ha sempre a che fare con il potere, è importante conoscere le forme che concretamente il potere assume per comprendere tutti gli inevitabili passaggi. Un conto è la Chiesa post-costantiniana che penetra i gangli del comando e fonda le sue diocesi sulla base della rete delle città dell’impero romano; un conto è la Chiesa che deve affrontare la frammentazione feudale o i nuovi poteri comunali; un conto è la Chiesa tridentina che per salvare la sua missione universale viene a patti con i moderni Stati sovrani con i concordati e le nunziature.
Se questo è vero, non si può non affrontare il problema cruciale della nuova epoca della globalizzazione che comporta un mutamento radicale nella nuova dislocazione del potere: la crisi degli Stati sovrani, il predominio del grande capitale finanziario senza fissa dimora ecc. Dire che il sistema concordatario non regge più in questa situazione sembra dire una cosa ovvia, ma di fatto non abbiamo alcuna seria riflessione su questo, mentre le strutture interne che reggono l’organizzazione ecclesiastica sembrano emettere pericolosi scricchiolii sia per quanto riguarda la curia romana, sia per quanto riguarda le chiese locali, sia per quanto riguarda gli ordini religiosi tradizionali. […]
In realtà vi sono nella Chiesa romana mutamenti istituzionali che si sono già introdotti in modo quasi sotterraneo e contraddittorio e che, qualsiasi sia la valutazione che si dà sugli avvenimenti, sono destinati a mutare radicalmente il governo della Chiesa: l’attenzione su di essi è stata quasi nulla da parte di teologi o canonisti, ma non possono sfuggire all’attenzione dello storico. Pensiamo, ad esempio, alla creazione di diocesi non territoriali, di diocesi senza territorio (la «prelatura personale»), un’innovazione che modifica davvero la storia millenaria che eravamo abituati a studiare nel diverso rapporto (verticale e di collegialità) tra il papa e l’episcopato territoriale, un ordinamento riepilogato nella doppia persona del pontefice, vescovo di Roma e pastore della Chiesa universale, da cui siamo partiti, e nei vescovi come responsabili delle chiese locali. Mai i grandi ordini religiosi, pur così importanti e potenti, erano riusciti nel passato a ottenere uno statuto episcopale, cioè a costituirsi in diocesi senza territorio così come è avvenuto ora per l’Opus Dei e come sta avvenendo per altre comunità (ad esempio quelle anglicane che si sono ricongiunte a Roma) non legate a una giurisdizione territoriale diocesana. Su questo piano il cardinale Joseph Ratzinger ha scritto un tempo – nei secondi anni Sessanta – pagine realmente innovatrici in cui si intravede la necessità di un ripensamento completo dell’assetto territoriale delle province e delle diocesi che il cristianesimo ha ereditato dall’impero romano, assetto dal quale è partito il nostro ragionamento. Questa de-localizzazione della Chiesa in un mondo secolarizzato e multiculturale non può non mutare radicalmente la gestione del ministerio petrino, del primato papale, e può portare a un recupero delle diverse personae del papa come vescovo di Roma e primate d’Occidente, figure messe in ombra negli ultimi secoli da quella di capo della Chiesa universale.»