
Qual è l’intuizione centrale della riflessione di Giussani?
La riflessione di Giussani trova il suo punto di sintesi nel concetto di «avvenimento», assunto – sotto il profilo teologico – come definizione dell’essenza del cristianesimo, e si articola in una costellazione di categorie connesse. Giussani si domanda: «Che cosa è infatti il cristianesimo? È forse una dottrina che ci si può ripetere in una scuola di religione? È forse un seguito di leggi morali? È forse un certo complesso di riti? Tutto questo è secondario, viene dopo. Il cristianesimo è un fatto, un avvenimento»[2].
La definizione non dice soltanto che il cristianesimo “è stato” un avvenimento – l’Incarnazione, duemila anni fa –, ma che esso “è” un avvenimento, cioè che quell’avvenimento permane nella storia come avvenimento, come «qualcosa che sta accadendo ora». Vi è una contemporaneità dell’incarnazione. Come? Osserva Giussani: «Perfino quando Gesù era nel vivo della sua attività terrena, il suo avvenimento assumeva una forma che non si identificava solo con la fisionomia fisica della sua persona, ma anche con la fisionomia della presenza di coloro che credevano in Lui, sì da essere inviati da Lui a portare le sue parole, il suo messaggio, a ripetere i suoi gesti portentosi, a recare cioè la salvezza ch’era la Sua persona»[3]. Nei luoghi in cui andavano, la persona del «Verbo fatto carne» diventava pertanto avvenimento attraverso la presenza di coloro che erano inviati da lui. Lo stesso «metodo» continua dopo la scomparsa di Gesù dall’orizzonte terreno. «L’avvenimento di Cristo permane nella storia attraverso la compagnia dei credenti, che è un segno, come tenda nella quale sta il sancta sanctorum, il Mistero diventato uomo»[4]. La compagnia dei credenti, cioè la Chiesa, il “Corpo di Cristo”, secondo la potente intuizione paolina, costantemente ripresa da Giussani, si propone a tutti gli uomini come la forma dell’avvenimento ora.
Il concetto di avvenimento è strettamente connesso con quello di incontro. «L’avvenimento cristiano ha la forma di un incontro: un incontro umano nella realtà banale di tutti i giorni»[5]. Gli apostoli Andrea e Giovanni si sono imbattuti in una presenza umana effettiva: «Mettiamoci ai tempi di allora, non c’era Gesù Cristo per l’aria, non era un nome diventato abituale: quello che vedevano era un uomo!»[6]. Se lo sono trovato davanti, l’hanno seguito, hanno vissuto con lui. Era un uomo senza paragoni, suscitava uno stupore senza precedenti; in lui si trovavano un potere e una bontà, una intelligenza e una misericordia, uno sguardo rivelatore dell’umano cui non ci si poteva sottrarre. Corrispondeva in modo inimmaginabile alle esigenze irresistibili e innegabili di ogni uomo. Il suo margine di eccezionalità era tale che nasceva spontanea una domanda paradossale: «Chi è?»; paradossale in quanto di lui si conoscevano benissimo l’origine, i dati anagrafici, la sua famiglia, la sua casa. Lo stesso vale oggi. Il cristianesimo è un avvenimento che ha la forma di un incontro con una realtà «fisica, corporale, fatta di tempo e di spazio, in cui è presente Dio fatto uomo e che di Lui è segno»[7]: essa è costituita di persone le cui vite rappresentano un punto di discontinuità rispetto al contesto, documentano tratti umani inconfondibili (una gratuità, una letizia in tutte le situazioni, belle e brutte, una intensità di vita, una disponibilità verso gli altri, una instancabilità nel costruire il bene di tutti ecc., che non si riescono normalmente a reperire), non riducibili alle loro doti naturali o al loro impegno. Di fronte alla loro testimonianza altri sono portati a interrogarsi: «Ma chi sono? Come fanno ad essere così?», ripetendo duemila anni dopo la domanda che sorgeva davanti a Gesù di Nazareth: «Chi è?». È in questo modo che il cristianesimo diventa avvenimento nell’esistenza dell’uomo.
Occorre ora capire perché Giussani elegga la categoria di avvenimento come la più adeguata a dire l’essenza del cristianesimo, che cosa essa ha di peculiare e di unico nella sua prospettiva.
Normalmente chiamiamo avvenimento non qualunque fatto, ma «qualcosa di non previsto, di non prevedibile, di non deducibile dall’analisi degli antecedenti»[8], che «supera e spacca tutte le nostre misure»[9]. Non tutto insomma sembrerebbe caratterizzabile come avvenimento, bensì solo ciò che non potevamo prevedere e che, accadendo, ci sorprende. Per Giussani, tali dimensioni – imprevedibilità, indeducibilità, inappropriabilità – e dunque il carattere di avvenimento devono essere estesi a tutto ciò che accade, a ogni fatto, a ogni realtà. Con avvenimento egli indica infatti «l’emergere nell’esperienza di qualcosa che non può essere analizzato in tutti i suoi fattori, che ha in sé un punto di fuga verso il Mistero e che mantiene il riferimento a un’incognita»[10]. In tale prospettiva, anche i cieli e la terra che ci sono da milioni di secoli, così come tutte le altre realtà, sono un avvenimento, e la creazione è il primo e fondamentale avvenimento. L’ontologia di un avvenimento può essere definita allora come «la trasparenza del reale emergente nell’esperienza in quanto proveniente dal Mistero, cioè da qualcosa che noi non possiamo possedere e dominare». Avvenimento, evento è ogni realtà, ogni fatto, in quanto implica una provenienza (evento significa «venire da», ex-venio, avvenimento «venire a», ad-venio) che in ultima istanza non può essere dominata dalla ragione calcolante: è «il contingente, l’apparente, lo sperimentabile in quanto apparente, come nato dal Mistero, come un dato, non nel senso scientifico, ma nel senso profondo e originale della parola: “dato”, ciò che è dato». Avvenimento è pertanto «un fatto che emerge nell’esperienza rivelando il Mistero che lo costituisce»[11].
Nella parola avvenimento viene insomma espressa «la “coincidenza” tra realtà e Mistero»[12], tra il fatto e la sua origine ultima, tra il segno visibile, concreto, sperimentabile, e la provenienza che ne costituisce la fonte misteriosa. Ma allora l’incarnazione – il farsi carne del Mistero nell’uomo Gesù di Nazareth – è l’avvenimento per eccellenza, poiché in esso si realizza la totale coincidenza di realtà e Mistero, segno e significato, immanenza e trascendenza: «Cristo è il Segno con cui il Mistero coincide totalmente, realmente»[13] («In Cristo abita corporalmente tutta la pienezza della divinità», scriveva Paolo). Nel concetto di avvenimento sono salvaguardate sia l’indeducibilità dell’incarnazione, la sua assoluta gratuità, la sua irriducibilità alla struttura trascendentale del soggetto (al senso religioso, all’attesa e a qualsivoglia iniziativa umana), sia la sua storicità, concretezza, sperimentabilità, di contro a ogni forma di monofisismo e di docetismo, nonché di riduzione a “parola” del cristianesimo. L’avvenimento dell’incarnazione è l’irrompere di Dio nella storia come uomo: esso è tanto radicalmente imprevedibile, inimmaginabile, prima di accadere, quanto visibile, tangibile, udibile una volta accaduto; è inconcepibile e “conveniente”, cioè supremamente corrispondente alle esigenze più proprie della natura dell’uomo.
Come si sviluppa in lui l’intuizione del cristianesimo come avvenimento? Qual è l’originalità della riflessione giussaniana?
Il punto di partenza è la cosiddetta “Scuola teologica di Venegono”, dove Giussani si è formato, e in particolare Gaetano Corti, il riferimento per lui più decisivo tra i professori del Seminario. Il discorso teologico dell’amato professore muove dalla affermazione che il cristianesimo è un fatto storico: egli mette in rilievo l’aspetto concreto e realisticamente fisico, materiale, di Cristo, uomo fra gli uomini, per contrastare il monofisismo inconscio che sembrava allora dominare nei riguardi di Cristo. Corti sottolinea altresì l’idea della Chiesa come «prolungamento» di Cristo nella storia, come tramite attraverso il quale l’uomo di ogni tempo e luogo potrà mettersi in contatto con la Sua persona. Si tratta di due aspetti condivisi nella Scuola teologica di Venegono: il cristianesimo come avvenimento di grazia che sfida il mondo; la Chiesa come avvenimento cristiano che si prolunga nel tempo (un’idea patristica). Ma alle influenze dirette occorre poi aggiungere quelle indirette, recepite tramite gli autori che circolavano nella Scuola di Venegono o che furono studiati da Giussani negli anni della sua formazione. Tra questi, nella linea del protestantesimo inaugurata da Karl Barth, si può citare Gerhard Ebeling, che elabora un concetto di «evento» (la parola di Dio come avvenimento) prossimo a quello cattolico. Anche nel protestantesimo americano, di cui Giussani si occupa a fondo, e soprattutto in Reinhold Niebuhr – al cui pensiero dedica la tesi di dottorato – è presente la nozione di «evento rivelativo», una comprensione della figura di Cristo come «un evento nella storia», sebbene in un senso lontano da quello giussaniano (e cattolico in generale). Ancora, bisogna certamente citare Romano Guardini e in particolare la riflessione che si trova ne L’essenza del cristianesimo, in cui il termine avvenimento è proposto secondo una ricca articolazione lessicale-concettuale. Si potrebbe proseguire, ampliando la ricerca.
Credo però che anche una più attenta ricognizione delle influenze non riuscirebbe a ricondurre o a ridurre il senso e la consistenza della categoria giussaniana di «avvenimento» a delle fonti. Sarebbe vano il tentativo di fare una genealogia del concetto per “spiegarne” l’emergenza. L’eredità ricevuta e assunta svolge naturalmente un ruolo importante, ma il risultato è un effetto superiore alle cause note o comunque analizzabili, per riecheggiare le affermazioni di prima. Se da una parte Giussani mutua dai maestri e dagli autori citati – e non solo da essi – gli elementi che sollecitano e sostengono l’emergenza del concetto in questione, dall’altra in nessuno degli antecedenti si trova una riflessione specifica e sistematica paragonabile a quella che egli ha fornito sull’«avvenimento», né esso riveste nelle loro impostazioni la stessa centralità. Si può dire, un po’ rapidamente, che Giussani elabora un concetto inedito di avvenimento. Lo stesso vale per altre nozioni che caratterizzano il pensiero giussaniano, come quelle di «incontro», di «esperienza», di «corrispondenza», di «verifica» e di altre ancora (legate all’originale ripensamento del rapporto tra «ragione» e «fede», per esempio).
È a questo proposito – ma il discorso andrebbe esteso, poiché non si tratta di singoli concetti, bensì di un’intera costellazione concettuale e della sua organizzazione interna – che diventa necessario parlare, relativamente a Giussani, di un «pensiero sorgivo», come ha proposto Angelo Scola, oppure, prendendo a prestito l’espressione di Hans Urs von Balthasar, di uno «stile di pensiero». Si può dire che un autore inauguri uno stile di pensiero quando apre una nuova via di accesso all’esperienza umana – e, in questo caso, anche all’esperienza cristiana –, fornendone una comprensione capace di coglierne le dimensioni e le strutture costitutive in modo pertinente all’epoca storica, rilanciandone perciò l’intelligibilità.
Che importanza riveste, per Giussani, l’impegno educativo?
L’impegno educativo è stata la scelta di vita di Giussani: egli ha voluto dedicarsi interamente a esso. Nel 1960 scrive: «Bisogna che al Paradiso della Teologia venga premesso il Purgatorio del lavoro in questa vita. Sentii ciò veramente come un dovere. Come si poteva rimanere fermi a contemplare l’essere e l’essenza, cose stupendamente belle quando la gente fosse tranquilla, se i miei fratelli cristiani continuavano a restare nell’ignoranza e nell’indifferenza?»[14]. Quindi, per rispondere alla domanda, l’impegno educativo ha avuto per lui un’importanza capitale, primaria. Sono proprio gli imponenti frutti di esso, come accennavo, ad avere reso noto al mondo Luigi Giussani e ad aver catalizzato le principali attenzioni attorno alla sua figura. Nei primi anni Cinquanta del secolo scorso, dopo un periodo passato nella tensione tra coinvolgimento educativo e ricerca accademica, Giussani rompe gli indugi e domanda ai superiori di Venegono il permesso – che gli viene accordato – di entrare nella scuola statale come insegnante di religione (dal 1951-1952 aveva cominciato a insegnare religione nella scuola non statale) e di abbandonare il Seminario e la Facoltà Teologica. È una decisione che cambia la sua vita e quella di migliaia di altre persone.
Nel 1954 varca dunque la soglia del Liceo Classico Berchet di Milano, gettandosi a capofitto nell’avventura educativa. Nel giro di pochi anni, nasce attorno a lui un grande movimento giovanile, Gioventù Studentesca, che si diffonde presto in altre città italiane. Tutto ciò, si badi, accade prima del Concilio Vaticano II e del ‘68. Da subito Giussani e Gioventù Studentesca diventano un polo di attrazione e di discussione: in primo piano, insieme alla dirompente personalità di Giussani, vi è la sorprendente novità di metodi e contenuti della proposta giussaniana, che investe l’intero mondo scolastico milanese (poi anche extra-milanese) e non solo gli ambienti cattolici. Una novità di metodi e contenuti che ha a che fare con quella del pensiero. Lo ha sottolineato significativamente Papa Francesco nell’udienza concessa a CL lo scorso 15 ottobre: «Giussani è stato padre e maestro, è stato servitore di tutte le inquietudini e le situazioni umane che andava incontrando nella sua passione educativa e missionaria. La Chiesa riconosce la sua genialità pedagogica e teologica, dispiegata a partire da un carisma che gli è stato dato dallo Spirito Santo per l’“utilità comune”».
L’impegno educativo è stato il terreno su cui è fiorita l’originalità del suo pensiero. Non c’è infatti un pensiero teologico a lato della proposta cristiana che egli rivolge ai suoi interlocutori: esso coincide con quest’ultima, si elabora e si esprime in essa. Giussani non ha scritto “altri” libri per mettere nero su bianco il suo pensiero teologico (i suoi testi accademici, prodotti prima dell’insegnamento al Liceo Berchet e in una breve parentesi alla fine degli anni Sessanta, sono dedicati al pensiero di altri). Ciò rende ancora più notevole il caso di Giussani, l’apporto originale del suo pensiero, il quale ha preso forma nel dialogo ininterrotto con migliaia di giovani e adulti, a contatto con le loro situazioni, aspirazioni, problematiche, rispondendo alle sollecitazioni provenienti dal contesto sociale di cui egli è sempre stato profondamente partecipe. Nell’incontro con le persone vive a cui si rivolgeva e con cui aveva vitalmente a che fare, il suo pensiero si è per così dire incendiato e chiarificato, essenzializzato, acquistando una grande potenza sintetica ed espressiva, una singolare capacità di atterrare sull’affascinante, decisivo e accidentato terreno dell’esistenza. Dimensione educativa e dimensione teoretica si sono trovate in un rapporto di mutua fecondazione, plasmandosi reciprocamente. Alla domanda che gli fu rivolta, se egli per via del suo coinvolgimento educativo si sentisse ormai un ex-teologo, risponde che per lui fare teologia ed essere impegnati sul fronte di un’attività educativa e di una vita comunitaria non sono cose né separate né incompatibili: egli non riesce anzi «a comprendere come si possa fare della teologia se non come autocoscienza sistematica e critica di un’esperienza di fede in atto». La teologia si presenta dunque in Giussani come un pensiero dell’esperienza, in cui si riassume e si rilancia tutta la ricchezza della tradizione, e non come un discorso su – o che nasce semplicemente da – altri discorsi.
Quali sono gli apporti, le intuizioni, i concetti chiave della teologia di Luigi Giussani?
Avendo già avuto modo di mettere l’accento sulle categorie di avvenimento, incontro, contemporaneità, vorrei ora menzionare rapidamente quelle di esperienza, verifica, corrispondenza, che rappresentano per così dire un correlato delle prime e che consentono poi almeno un accenno al tema della ragionevolezza della fede, che evidenzia da un ulteriore punto di vista l’originalità del pensiero giussaniano.
Nella seconda metà degli anni Cinquanta, all’inizio del suo insegnamento al Liceo Berchet, Giussani entra nell’agone educativo proponendo il cristianesimo come «fatto», «avvenimento», e come «esperienza»: due categorie costitutivamente correlate. Infatti, solo se il cristianesimo è un avvenimento nel presente, di esso vi può essere esperienza in senso proprio, intero (e non semplicemente metaforico o interioristico). Ciò ebbe un grande impatto negli ambienti giovanili cattolici e non solo, delineando una sorta di spartiacque: di qua le persone entusiaste, che coglievano la feconda novità della proposta giussaniana, di là coloro che la guardavano con diffidenza e difendevano una più tradizionale impostazione dottrinaristica (già ampiamente rivelatasi infeconda).
La parola «esperienza» si presentava come notevolmente scivolosa a quel tempo, poiché sembrava offrire il fianco al soggettivismo di stampo protestante e modernista. Il concetto giussaniano di esperienza non aveva tuttavia niente a che fare né con l’accezione interioristica e soggettivistica di matrice protestante, né con quella del modernismo, duramente criticata nella Pascendi dominici gregis da Pio X in quanto accusata di comportare la riduzione della trascendenza a immanenza, della verità oggettiva del dogma a sentimento soggettivo, della rivelazione a prodotto della coscienza. Quella di cui parla Giussani è un’esperienza integrale, generata e sostenuta dalla grazia, in cui la componente interiore ed esteriore, soggettiva e oggettiva, sono ugualmente essenziali. Essa è caratterizzata da tre fattori[15]. Primo: l’incontro con una realtà obbiettiva, originalmente indipendente dalla persona che compie l’esperienza e che ha il volto della comunità cristiana, guidata dall’autorità. Non c’è versione dell’esperienza cristiana, per quanto interiore, che non comporti in ultima istanza tale incontro con la comunità e tale riferimento all’autorità. Secondo: il potere di percepire adeguatamente il significato di quell’incontro. Ora, poiché il valore della realtà in cui ci si imbatte trascende la facoltà di comprensione della ragione, lo stesso gesto con cui Dio si rende presente all’uomo nell’avvenimento cristiano esalta anche la sua – dell’uomo – capacità conoscitiva, adeguandone l’acume dello sguardo alla realtà eccezionale a cui lo provoca: è ciò che si chiama «grazia della fede». Terzo: la capacità di verifica, cioè di percepire la corrispondenza fra quell’avvenimento incontrato e la propria struttura originale. In tale verifica sono impegnate e valorizzate ragione e libertà dell’uomo. L’esperienza cristiana – così come affermata da Giussani – è insomma qualcosa di ben diverso sia da una impressione e da una ripercussione sentimentale sia da una riduzione della verità del cristianesimo a sentimento soggettivo o a prodotto della coscienza.
Esperienza, verifica, corrispondenza, dunque. L’urgenza della «verifica» si lega nel suo affiorare al problema della convinzione. Vale a dire: come si genera, relativamente a un’idea o a una visione della vita o a una verità ricevuta, con cui in vario modo si entri in contatto, una convinzione motivata, che regga alla prova della critica? Se la tradizione costituisce l’originario veicolo dei significati vitali, di quello religioso come di tutti gli altri, la semplice immersione in essa non è, secondo Giussani, sufficiente affinché maturi una certezza personale fondata riguardo all’ipotesi di senso che viene trasmessa e ricevuta. È una valutazione scaturita da tanti dialoghi con giovani che, avendo ricevuto una educazione cattolica, hanno lasciato cadere nel vuoto ciò che è stato loro trasmesso. Di qui la presa di posizione di Giussani: una ipotesi di significato – religiosa o filosofica – può essere riconosciuta come “vera” e diventare il contenuto di una convinzione fondata solo in forza di una esperienza della verità, vale a dire – sono i termini in cui egli ne parla – di una «verifica esistenziale», il cui «metodo decisivo» risiede nella «sperimentazione di ciò che è stato dato»[16]: idea, insegnamento, proposta. Nelle categorie di «esperienza», di «verifica», di «sperimentazione» si ritrova anche l’eco di istanze caratteristiche del protestantesimo americano, a fondo studiato da Giussani – l’appello all’esperienza come luogo privilegiato di verifica dei valori, di Reinhold Niebuhr; il metodo esperienziale come valorizzazione dell’esigenza di verifica pragmatica, di Paul Tillich[17] –, ripensate però in una prospettiva essenzialmente tomista, essa stessa assunta e rielaborata in chiave esistenziale (distante perciò da un certo intellettualismo neotomista).
In che cosa consiste la verifica esistenziale, la «sperimentazione personale»? In un confronto tra l’idea o la visione ricevuta e le proprie situazioni, esigenze, aspirazioni: il soggetto dovrà scoprire la «connessione vitale» di quella con queste, la sua pertinenza a esse, e solo per tale via «ne realizzerà il valore e ne sorprenderà l’esistenziale validità»[18].
È proprio in questo confronto che entra in gioco la definizione aristotelico-tomista di verità imperniata sulla corrispondenza. Alla questione se, come taluni effettivamente interpretarono, si potesse considerare quella del movimento di Gioventù Studentesca «un’esperienza per diversi aspetti esistenzialista…», Giussani risponde: «Ritengo esatta questa osservazione in quanto i ragazzi di GS erano sollecitati a puntare sull’esperienza come sul luogo dove può essere adeguatamente verificata la validità dei criteri che la persona si vede proporre da chi incontra e dall’ambiente che la circonda. Il luogo di tale verifica – noi affermiamo – non è infatti la dialettica quanto l’esperienza. Mi sembra che questo modo di procedere si possa ultimamente ricollegare alla definizione di verità che è propria di San Tommaso d’Aquino: la verità come adaequatio rei et intellectus, ossia come corrispondenza di quanto viene proposto (sia esso un evento o una affermazione) con la propria vita, con la coscienza di sé in quanto implica esigenze ed evidenze originarie»[19]. Il criterio ultimo per cui l’uomo aderisce a una proposta con convinzione è dunque la sua corrispondenza alla propria percepita struttura esigenziale: la verità si scopre infatti attraverso l’esperienza di quella corrispondenza. Per Giussani, la definizione tomista di verità è dunque «pura esistenzialità»[20], poiché stabilisce il vitale e concreto banco di prova di ogni proposta.
Sull’esperienza della corrispondenza si fonda la scoperta personale della verità del cristianesimo e quindi – ulteriore passaggio – la ragionevolezza della fede. La fede, osserva Giussani, «viene proposta come la suprema razionalità in quanto l’incontro con l’avvenimento che la veicola genera una esperienza e una corrispondenza all’umano impensabili»[21]. Egli entra in dialogo con la domanda di Dostoevskij, in cui si esprime l’inquietudine dell’uomo contemporaneo: «Un uomo colto, un europeo dei nostri giorni, può credere, credere proprio, alla divinità del figlio di Dio, Gesù Cristo?».
La posizione in cui gli uomini d’oggi si trovano di fronte alla questione della fede è, egli sottolinea, la stessa dei primi che hanno conosciuto Gesù di Nazareth. «È stata per loro ed è anche per noi l’esperienza della presenza di qualcosa di radicalmente diverso dalle nostre immagini e al tempo stesso di totalmente e originalmente corrispondente alle aspettative profonde della nostra persona»[22]. In forza di tale esperienza, più quei primi stavano con lui, più avvertivano l’irrompere in loro di una domanda paradossale, come si è detto, perché di lui sapevano tutto: «Chi è costui?». Era una domanda provocata dallo stupore continuo per l’esorbitanza della sua presenza. C’era un fattore della realtà di quell’uomo che non riuscivano a spiegare e che al tempo stesso non potevano eliminare o minimizzare. Quando a un certo punto Gesù domanda loro: «Voi, chi dite che io sia?», Pietro risponde con le parole che il racconto evangelico riporta: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». Giussani osserva: egli ripete «probabilmente, anche se non ne possedeva appieno il significato, qualcosa che aveva sentito dire da Gesù stesso»[23]. Ma, questo è il punto, perché Pietro ripete e fa sue quelle parole? Ciò poteva accadere solo perché, dopo i tre anni passati con quell’uomo, l’imparagonabile esperienza di corrispondenza vissuta, una cosa gli era diventata chiara: se non poteva fidarsi di lui non poteva fidarsi neppure di se stesso. Sul fondamento della certezza morale raggiunta su Gesù di Nazareth, Pietro accetta come vero quello che egli dice di sé. Si affaccia la fede: «La fede è riconoscere come vero quello che una Presenza storica dice di sé»[24]. «La fede è un atto della ragione mossa dall’eccezionalità di una Presenza, che porta l’uomo a dire: “Costui che parla è veritiero, non dice menzogne, accetto quello che dice”»[25].
Duemila anni dopo, afferma Giussani, ci troviamo esattamente nella stessa situazione. Come Pietro e gli altri avevano a che fare con l’uomo Gesù di Nazareth, con la sua eccezionalità, così le persone oggi hanno a che fare con la realtà umana dei suoi testimoni, attraverso cui Cristo diventa avvenimento nel presente. Nella misura in cui quella realtà umana si dimostra capace della stessa corrispondenza alle esigenze strutturali dell’uomo, portatrice della stessa evidenza di verità, si ripropone la stessa domanda: «Come fanno ad essere così?»[26]. In virtù della eccezionalità del “fatto” incontrato, della corrispondenza sperimentata, della certezza morale raggiunta sui testimoni, ci si può disporre motivatamente a far propria la risposta che fu di Pietro, veicolata dalla realtà stessa della Chiesa, della compagnia cristiana, in cui ci si imbatte.
Ora come allora il contenuto divino del fenomeno umano emergente nell’esperienza non può essere conosciuto o riconosciuto dalle sole forze della ragione, poiché l’oggetto della fede (il divino presente nell’umano) è costitutivamente oltre l’oggetto normale e proprio della ragione. «Il riconoscimento della presenza di Cristo avviene perché Cristo “vince” l’individuo. Perché avvenga la fede nell’uomo e nel mondo deve cioè accadere prima qualcosa che è grazia, pura grazia: l’avvenimento di Cristo, dell’incontro con Cristo, in cui si fa esperienza di una eccezionalità che non può accadere da sola»[27]. La fede, osserva ancora Giussani, «è parte dell’avvenimento cristiano perché è parte della grazia che l’avvenimento rappresenta, di ciò che esso è. La fede appartiene all’avvenimento perché, in quanto riconoscimento amoroso della presenza di qualcosa di eccezionale, è un dono, è una grazia. Come Cristo si dà a me in un avvenimento presente, così vivifica in me la capacità di afferrarlo e di riconoscerlo»[28]. Correlativamente, però, la libertà dell’uomo è chiamata a domandare e ad accettare di riconoscerlo, in forza di tutta l’esperienza vissuta. La fede perciò è un dono che sempre implica una posizione di apertura e di domanda nell’uomo.
Conviene fermarsi qui, rimandando anzitutto alle opere giussaniane e in secondo luogo al volume di saggi sul pensiero teologico di Giussani che è oggetto del nostro dialogo. Pubblicato in occasione del Centenario della sua nascita, esso intende rappresentare un tentativo di illuminare ulteriormente il carattere sorgivo e lo spessore del suo pensiero, offrendo un contributo e un incentivo a un’indagine organica del corpus giussaniano.
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[1] A. Savorana, Vita di don Giussani, Rizzoli, Milano 2013.
[2] L. Giussani, Un avvenimento di vita cioè una storia, a cura di C. Di Martino, Edit-Il Sabato, Roma 1993, p. 338.
[3] L. Giussani, Perché la Chiesa. Volume terzo del PerCorso (1990 e 1992), Rizzoli, Milano 2003, p. 26.
[4] L. Giussani, S. Alberto, J. Prades, Generare tracce nella storia del mondo, Rizzoli, Milano 1998, p. 43.
[5] L. Giussani, Generare tracce nella storia del mondo, p. 24.
[6] L. Giussani, Qui e ora (1984-1985), BUR, Milano 2009, p. 426.
[7] L. Giussani, Generare tracce nella storia del mondo, p. 25.
[8] L. Giussani, Generare tracce nella storia del mondo, p. 17.
[9] L. Giussani, In cammino, p. 104.
[10] L. Giussani, Generare tracce nella storia del mondo, pp. 17-18.
[11] L. Giussani, Generare tracce nella storia del mondo, p. 18.
[12] L. Giussani, Generare tracce nella storia del mondo, p. 19.
[13] L. Giussani, Dare la vita per l’opera di un Altro (1997-2004), BUR, Milano 2021, p. 127.
[14] L. Giussani, Porta la speranza. Primi scritti, Marietti 1820, Genova 1997 (nel volume compaiono in un’unica edizione testi pubblicati tra il 1951 e il 1964), p. 54.
[15] Cfr. L. Giussani, Il cammino al vero è un’esperienza (1995), Rizzoli, Milano 2006 (nel volume sono riproposti in un’unica edizione tre testi pubblicati separatamente: Gioventù Studentesca. Riflessioni sopra un’esperienza, 1959; Tracce d’esperienza cristiana, 1960; Appunti di metodo cristiano, 1964), pp. 155-157.
[16] L. Giussani, Porta la speranza, pp. 22-23.
[17] Cfr. L. Giussani, Teologia protestante americana (1969), Marietti1820, Genova-Milano 2003, p. 304 e p. 192.
[18] L. Giussani, Porta la speranza, pp. 36-37.
[19] L. Giussani, Il Movimento di Comunione e Liberazione (1954-1986). Conversazioni con Robi Ronza, Jaca Book, Milano 1987, p. 28.
[20] L. Giussani, Il Movimento di Comunione e Liberazione, p. 29.
[21] L. Giussani, Il rischio educativo (1977), Rizzoli, Milano 2005, p. 30.
[22] L. Giussani, Generare tracce nella storia del mondo, p. 28.
[23] L. Giussani, All’origine della pretesa cristiana. Volume secondo del PerCorso (1988), Rizzoli, Milano 2001, p. 86.
[24] L. Giussani, Generare tracce nella storia del mondo, p. 22.
[25] L. Giussani, Generare tracce nella storia del mondo, p. 23.
[26] L. Giussani, Si può (veramente?!) vivere così?, BUR, Milano 1996, pp. 130-131.
[27] L. Giussani, Generare tracce nella storia del mondo, p. 30.
[28] L. Giussani, Generare tracce nella storia del mondo, p. 31.