
Sul piano politico-diplomatico la questione dell’Alto Adige nacque più tardi e più precisamente nei mesi successivi allo scoppio della prima guerra mondiale, durante le trattative che precedettero l’intervento italiano nel conflitto. Fu nella complessa fase in cui la diplomazia italiana compì i suoi “giri di valzer” tra la Triplice Intesa e la Triplice Alleanza che il neo ministro degli esteri Sidney Sonnino maturò la richiesta del Brennero. Non risulta che una simile rivendicazione fosse mai stata avanzata prima di allora. Si consumò in quei mesi una sorta di gioco al rialzo alla ricerca del miglior offerente che portò l’Italia ad abbandonare l’alleanza con Austria e Germania per legarsi agli stati dell’Intesa Russia, Inghilterra e Francia con il Patto di Londra dell’aprile 1915.
Da un punto di vista politico-amministrativo invece la questione dell’Alto Adige nacque dopo la fine della guerra nel momento dell’occupazione della provincia da parte dell’esercito italiano. Si trattava di un’occupazione che avrebbe dovuto avere carattere provvisorio, in virtù dell’armistizio firmato a Villa Giusti il 3 novembre 1918. Ma anche se l’annessione fu decisa solo dieci mesi più tardi con il Trattato di Saint Germain en Laye del 10 settembre 1919, l’Italia si comportò da subito come se l’acquisizione delle terre a sud del Brennero fosse già decisa.
Ecco perché anche la questione dell’Alto Adige sul piano politico-sociale ed economico ebbe inizio già nel novembre 1918, dal momento in cui l’amministrazione italiana si affacciò su quel territorio, iniziando ad avviare trasformazioni che fin da subito andavano più o meno timidamente nella direzione dell’italianizzazione e che naturalmente non trovavano d’accordo né la popolazione, né gli amministratori locali, primo fra tutti Julius Perathoner che da più di vent’anni era stimato sindaco di Bolzano.
Ciò che tardò ad arrivare in Italia è la consapevolezza dell’esistenza di una questione altoatesina: l’opinione pubblica italiana, ma anche lo stesso governo a lungo non si resero conto delle implicazioni che l’annessione portava con sè: l’Italia non era solo inesperta e impreparata a interfacciarsi con una situazione di plurinazionalità, ma fu anche incapace di riconoscere le difficoltà che la presenza di una minoranza linguistica e etnica avrebbe comportato.
In che modo l’acquisizione della regione ha contribuito alla definizione dell’identità nazionale italiana?
Fino all’annessione dell’Alto Adige l’obiettivo del Regno d’Italia era stato l’unificazione nazionale: il mito fondante dello stato sabaudo era stato fino ad allora quello di un’unità che si basava su una certa identità etnico-linguistica. L’acquisizione di una terra abitata da “allogeni”, come venivano definiti i gruppi linguistici non italiani, non poteva che essere in contraddizione con tale mito. Nel relazionarsi con i nuovi sudditi e con la loro identità nazionale, l’Italia ha dovuto trovare temi e assumere atteggiamenti non solo per affermare la propria identità, ma anche per provare ad integrare le identità etniche e culturali dell’Alto Adige, sia quella del gruppo linguistico ladino che quella del più numeroso gruppo tedesco.
Quale politica adottò l’Italia liberale per l’Alto Adige?
L’atteggiamento dei governi dell’Italia liberale mutò sensibilmente nel corso del quadriennio tra l’armistizio e la marcia fascista su Bolzano che precedette di poche settimane la marcia su Roma. Dal novembre 1918 al luglio 1919 il governatorato militare della Venezia Tridentina guidato dal generale Guglielmo Pecori Giraldi adottò una politica prudente contrassegnata da quella che lui stesso definì “penetrazione pacifica”. Il fatto che parlasse di “penetrazione” chiarisce tuttavia che fin da subito le istituzioni italiane, anche nella fase più moderata, avevano l’intenzione di compiere una forma di conquista, per quanto pacifica, della regione. Dall’estate del 1919 l’Alto Adige fu governato da un “commissariato generale civile” che aveva sede a Trento e che dipendeva dall’Ufficio centrale delle nuove provincie. Il primo ministro Nitti nominò Commissario generale civile Luigi Credaro, un pedagogo originario di Sondrio che, oltre a conoscere bene la lingua tedesca, era un grande estimatore della cultura tedesca. Questa scelta, che dimostra lo sforzo del governo italiano di avvicinarsi alla popolazione dell’Alto Adige, fu però oggetto fin da subito di pesanti critiche da parte dei nazionalisti italiani. Essi infatti lo accusarono di essere filogermanico. Credaro cercò di conquistarsi la fiducia dei sudtirolesi, senza però mai mettere in dubbio l’obiettivo di appropriazione nazionale della regione. Ne derivò che Credaro, e con lui la politica italiana in Alto Adige, si trovò ad agire in un precario equilibrio tra gli opposti nazionalismi: quello sudtirolese e quello italiano. A partire dall’annessione ufficiale dell’Alto Adige che avvenne solo due anni dopo la fine della guerra, nell’ottobre del 1920, la politica italiana si mosse in maniera sempre più decisa nella direzione dell’italianizzazione dell’amministrazione e della vita pubblica dell’Alto Adige. Parallelamente le richieste di autonomia da parte dei politici sudtirolesi si fecero più chiare e insistenti. Dal 1921 le tensioni emersero con sempre maggiore drammaticità: non solo quelle tra italiani e sudtirolesi, bensì anche quelle che vedevano contrapposti il governo di Roma, il commissariato di Trento e gruppi di nazionalisti italiani. Nell’aprile 1921 entrò in campo prepotentemente un ulteriore attore: il fascismo, un paio di mesi prima del suo ingresso in parlamento, spedì un gruppo di squadristi a Bolzano dove seminarono violenza in una sfilata tradizionale, tanto da trasformare il 24 aprile 1921 in quella che in Alto Adige viene ricordata come la “domenica di sangue”.
Tra l’aprile del 1921 e l’ottobre 1922 la situazione di forte instabilità e l’incapacità del governo italiano di imporre le proprie decisioni nel territorio prepararono la strada alla marcia fascista su Bolzano, con la quale la politica dell’Italia liberale nella provincia venne definitivamente interrotta.
Risulta difficile dare una valutazione di questi primi quattro anni di convivenza tra lo stato italiano e l’Alto Adige. Bisogna prima di tutto considerare che l’Italia stava attraversando la profonda crisi che nel primo dopoguerra travolse la vita sociale, culturale, economica e politica. In soli quattro anni si susseguirono cinque governi diversi, e ciò spiega in parte perché si possa parlare di un quadriennio senza programmi: l’Italia non riuscì a realizzare l’idea di una politica democratica e di rispetto delle minoranze soprattutto perché si affacciò in Alto Adige con impreparazione, saccenza e ingenuità. I fallimenti dell’Italia sono però anche da ascrivere all’opposizione che il governo dovette affrontare su più fronti: la politica italiana in Alto Adige dovette continuamente fare i conti con le pressioni dei nazionalisti italiani e le resistenze dei nazionalisti sudtirolesi.
Quale attenzione suscitò, nel dibattito culturale italiano, l’Alto Adige?
Se si eccettua qualche rara voce che si espresse per l’acquisizione dell’Alto Adige già nel tardo Ottocento, si può affermare che l’interesse per l’Alto Adige si diffuse negli ambienti culturali italiani solo in seguito alla campagna di propaganda di Ettore Tolomei. Egli dal 1906 fece della conquista dell’Alto Adige e della sua italianizzazione la sua missione di vita. Ovviamente non si può presentare Tolomei come un visionario isolato: egli era figlio della sua epoca, vissuto negli ambienti dell’irredentismo trentino e nutrito dell’antigermanesimo di quel periodo. Tuttavia la sua figura è stata fondamentale nella creazione del mito dell’Alto Adige italiano e nella diffusione in tutta Italia di informazioni e interpretazioni sulla storia e la tradizione della provincia. Senza troppa esagerazione si può affermare che il mondo della cultura italiana è stato indottrinato sull’Alto Adige da Tolomei e dalle numerosissime conferenze e pubblicazioni che egli portò in tutta la penisola con la collaborazione di un paio di altri entusiasti della prima ora. Il mito dell’Alto Adige italiano professato da Tolomei non trovava corrispondenza nelle esperienze dirette dei pochi italiani che poterono visitare il territorio nel primo dopoguerra, eppure la versione di Tolomei non fu mai messa seriamente in discussione e i sostenitori del crescente nazionalismo italiano fecero proprie le teorie di Tolomei alimentandole con nuove pubblicazioni e arricchendole con nuove dimostrazioni.
La geografia fu senz’altro la scienza che più di tutte contribuì a sostenere l’idea di un Alto Adige italiano e da italianizzare, insistendo sull’importanza del confine naturale del Brennero per la definizione del territorio del Regno. Ci furono però anche voci dissonanti, soprattutto tra coloro che conobbero la provincia più da vicino. Il Touring Club Italiano ad esempio si fece fautore di un’immagine più veritiera e, pur non esprimendo mai posizioni rinunciatarie che mettessero in dubbio l’annessione dell’Alto Adige all’Italia, descrisse con interesse le tradizioni e la cultura sudtirolesi e si espresse a favore di una politica che tutelasse la minoranza.
Quale atteggiamento mantenne la stampa italiana nei confronti dell’annessione dell’Alto Adige?
La stampa italiana iniziò a parlare di Alto Adige all’indomani dell’armistizio. Ma per lungo tempo l’attività dei giornali si limitava a qualche articolo di cronaca o a qualche corrispondenza che esaltava trionfalmente la vittoria dell’esercito italiano. Durante le trattative parigine la questione altoatesina rimase all’ombra della più discussa questione del confine orientale. Non che non si ritenesse importante il confine del Brennero, ma in un certo senso si dava per scontata l’assegnazione dell’Alto Adige all’Italia perché il presidente americano Wilson, che si opponeva all’attribuzione all’Italia di Fiume e della Dalmazia, fin da subito si mostrò meno restio a cedere il Brennero all’Italia.
Ciò che stupisce è che non si trovino enormi differenze nell’atteggiamento dei diversi giornali. Nessuno era contrario all’annessione del Brennero e solo l’organo dei socialisti, “l’Avanti!” si schierò a favore di un plebiscito per i sudtirolesi. Sulla stampa italiana si definirono nel corso del quadriennio due narrazioni contrapposte: da un lato si affermava che gli abitanti della nuova provincia avrebbero dovuto beneficiare di una politica democratica e di rispetto, dall’altra, nel tempo, emerse il desiderio di una politica più repressiva che imponesse ai nuovi concittadini le istituzioni, la lingua e le tradizioni italiane. Queste due narrazioni convivevano nella narrativa giornalistica e non facevano necessariamente capo a orientamenti politici opposti: inizialmente anche il “Popolo d’Italia” di Mussolini si schierava per un atteggiamento di pacifica convivenza, mentre dal 1921 anche giornali della stampa liberale come ad esempio il “Corriere della sera” invitavano il governo italiano ad imporsi con maggiore fermezza in Alto Adige.
Naturalmente la stampa ebbe un ruolo importantissimo nel costruire una consapevolezza italiana sull’Alto Adige e l’immagine negativa che l’opinione pubblica ne trasse in quegli anni stenta a cambiare ancora oggi, a distanza di un secolo.
Magda Martini è dottore di ricerca in Storia contemporanea all’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo” e collabora con il Centro di competenza Storia regionale della Libera Università di Bolzano. Tra le sue pubblicazioni: La cultura all’ombra del muro. Relazioni culturali tra Italia e DDR (1949-1989) (Il Mulino, 2007).