
Le sfide che a guerra conclusa si presentarono ai responsabili politico-amministrativi locali parvero pressoché insormontabili: dopo anni di conflitto la regione era allo stremo, l’economia e la società erano a pezzi. 33.000 soldati tirolesi avevano trovato la morte in guerra. E senz’altro molto più alto era il numero dei mutilati, di quelli che avevano subito danni fisici o psichici. Intere aree della regione, soprattutto nella zona meridionale italofona dell’ex territorio della Corona, erano state fortemente colpite dai combattimenti lungo il vicino fronte montano. Se uno si figura l’intricata e caotica situazione che regnava in Tirolo alla fine della guerra, coglie senza possibilità di errore quanto oggettivamente difficile fosse passare all’ordinaria amministrazione politica.
Quali aspirazioni territoriali spense la conferenza di pace di Parigi del 1919?
Un senso di frustrazione e di smarrimento era dilagato fra i politici e gli abitanti del Tirolo. La sua parte meridionale fino al Brennero era occupata da truppe italiane, e riguardo al futuro assetto costituzionale della regione regnava grande incertezza. Doveva il Tirolo entrare a far parte della piccola Repubblica austriaca, che era stata fondata il 12 novembre 1918 – uno staterello che all’epoca nessuno riteneva capace di sopravvivere? O bisognava mirare a una “annessione” dell’Austria, e del Tirolo, alla Germania? A guerra conclusa i politici conservatori puntarono sulla costituzione del Tirolo in Repubblica indipendente, cioè sulla creazione di una sorta di stato cuscinetto fra Germania e Italia. Solo così, si pensava, si sarebbe potuto evitare di perdere quel territorio cedendolo all’Italia. Nelle settimane e nei mesi che seguirono la fine del conflitto, ai politici regionali premette soprattutto impedire l’annessione del Tirolo meridionale all’Italia. Questo fu l’obiettivo primario della politica tirolese, che tuttavia fallì. Grandi speranze erano riposte nel presidente americano Woodrow Wilson e nel diritto all’autodeterminazione nazionale, anche se alla conferenza di pace di Parigi questo principio non divenne mai un vero principio guida. Queste speranze andarono deluse. Il trattato di Saint-Germain riconobbe all’Italia il confine del Brennero. A Bolzano per molto tempo non si riuscì né si volle accettare il fatto che, come conseguenza della definizione di tale confine, il Tirolo meridionale fosse divenuto italiano.
Come si articolarono i “negoziati” di Saint-Germain relativamente alla questione tirolese?
In questa difficilissima fase di tracollo politico e sociale, alla conferenza di pace di Parigi si decise in merito alla questione del Tirolo. Nel momento in cui gli Alleati assegnarono il Tirolo meridionale all’Italia e stabilirono la nuova frontiera sul Brennero, la regione precipitò in una profonda depressione. I memoriali, i memorandum e l’impegno della delegazione di pace austriaca a Parigi non erano riusciti a ottenere assolutamente niente. La decisione, nelle sue linee di fondo e nella sua sostanza, era stata presa già prima dell’inizio della conferenza. Il presidente americano lasciò il Brennero all’Italia in cambio della sua adesione alla Società delle Nazioni e soprattutto perché intendeva opporsi con fermezza alle rivendicazioni territoriali avanzate dal Paese lungo il confine iugoslavo (si pensi a Fiume). In parole povere, l’Alto Adige era il “contentino” destinato all’Italia in cambio del fatto che Roma rinunciasse a pretendere molti (troppi) territori lungo la nuova frontiera nel Nord-est. Il fatto che gli Alleati, già nel Patto segreto di Londra dell’aprile 1915, avessero promesso all’Italia di stabilire il confine sul Brennero in cambio della sua entrata in guerra a fianco delle potenze della Triplice intesa fece il resto, restringendo notevolmente il margine d’azione austriaco in questa vicenda. Nel trattato di Saint-Germain fu messa per iscritto, definitivamente e in termini giuridicamente vincolanti, la richiesta degli Alleati, e con la cosiddetta “annessione” dell’Alto Adige, nell’ottobre 1920, l’integrazione del territorio nello Stato italiano poté considerarsi formalmente conclusa.
Quali sviluppi politici, sociali, economici e di mentalità segnarono la società tirolese del dopoguerra?
Soprattutto le conseguenze economiche e sociali si fecero sentire ben oltre la fine degli scontri militari. Numerose famiglie avevano perso tutto. In tanti erano stati letteralmente privati delle fonti di sussistenza: le famiglie operaie, che in guerra si erano impoverite e che vivevano alla giornata anche a guerra conclusa; le cerchie borghesi i cui risparmi si erano rapidamente esauriti durante il conflitto e che risultavano particolarmente colpite dall’alta inflazione registrata durante e dopo la guerra; infine l’agricoltura, la cui produttività calante aveva progressivamente ostacolato la tenuta dell’attività contadina e fatto precipitare tanti masi in una crisi esistenziale.
La focalizzazione dello Stato sulla guerra con l’obiettivo della vittoria finale non permetteva di accordare la necessaria attenzione a tutti quei bisogni elementari al cui soddisfacimento la società regionale, in tempo di guerra, dovette via via rinunciare. Inoltre, tale volontà di vittoria aveva favorito la nascita, nel 1914-15, di un regime militare, i cui provvedimenti portarono in Tirolo, regione frontaliera e di combattimento, uno spropositato peggioramento delle condizioni di vita e restrinsero fortemente soprattutto i diritti fondamentali e quelli civili della popolazione. In seguito all’entrata in guerra dell’Italia nel maggio 1915 e all’apertura del fronte italiano, fu l’esercito a dettare le regole di vita in Tirolo. Nel 1918, ultimo anno di guerra, la frustrazione per il conflitto e per l’invadenza sfrenata dello Stato interventista rischiò di esplodere. Il malessere, che era andato crescendo nel corso della guerra, finì col virare in aperta protesta. La popolazione contestò sempre più, e con maggiore determinazione, lo Stato interventista e chiese – per dirla tutta – pane e una pace immediata. Quando poi nel novembre 1918 sopravvenne la pace, dopo una prima fase di sollievo e appagamento, non tardarono a farsi strada il disincanto e lo sconforto: con la pace non si erano affatto dissolti tutti i problemi riconducibili alla guerra. Anzi, dal punto di vista economico e sociale, la guerra non terminò affatto nel novembre 1918 ma proseguì per anni sotto forma di innumerevoli, sgradite e impopolari conseguenze: perciò la stabilizzazione della società postbellica – anche in Tirolo – tardava a concretizzarsi.
Quali conseguenze ebbe l’assetto disegnato a Parigi e in che modo esso investì tutta la Mitteleuropa?
Il diritto all’autodeterminazione nazionale, che a Parigi nel 1919 era sulla bocca di tutti, fu trasformato in una specie di slogan politico al quale le parti in causa si richiamavano per rivendicare i contenuti, spesso in contraddizione tra loro, che apparivano più consoni sotto il profilo ideologico e in un’ottica di realpolitik. A Parigi il diritto all’autodeterminazione nazionale non assunse mai lo status di un principio regolatore universale a cui ispirarsi. Un dato di fatto reso evidente già dalla semplice constatazione che a seguito della conferenza di pace 25 milioni di persone si ritrovarono nella condizione – i più contro la loro espressa volontà – di nuove minoranze nazionali all’interno di altre realtà statali.
Tracciare precisi confini nazionali sarebbe stato difficile anche, e soprattutto, nel pot-pourri etnico dell’Europa centrale, orientale e sudorientale. Se si considerano gli Stati succeduti alla monarchia asburgica, a Parigi, a rigor di termini, non videro la luce Stati nazionali, come spesso si afferma, bensì – potremmo dire – «complessi Stati di nazionalità». Dopo il crollo della monarchia asburgica e dell’impero ottomano, il problema delle minoranze nazionali non solo non fu risolto, ma si inasprì notevolmente e fu trasferito dagli ex imperi ai nuovi cosiddetti Stati nazionali, che talora inglobavano ingenti quote di minoranze, come ad esempio la Cecoslovacchia e il nuovo Stato jugoslavo. La pace di Parigi accrebbe, dunque, in un certo senso il problema delle minoranze, con conseguenze profonde nel periodo fra le due guerre. Per via delle trasformazioni politiche, quasi 10 milioni di persone, intorno alla metà degli anni Venti, erano in fuga o vittime di espulsione e trasferimento.
L’ordine di pace creato a Parigi era dunque estremamente fragile. Gli Stati nazionali non divennero i soggetti della sicurezza collettiva, l’internazionale del mantenimento della pace restò una chimera. Da ultimo fallì anche la Società delle Nazioni, che non poté mai fare da contrappeso all’aggressività e al sentimento di rivalsa degli Stati nazionali.
Oswald Überegger insegna Storia contemporanea alla Libera Università di Bolzano, dove dirige il Centro di competenza Storia regionale. Inoltre, negli ultimi anni, è stato visiting fellow all’Università Andrássy Gyula di Budapest, all’Institut für Zeitgeschichte München-Berlin e all’Institut für Geschichte dell’Università di Vienna. Nel semestre estivo 2020 è stato visiting professor di Storia austriaca all’Università di Graz.