
La seconda direzione è di tipo filosofico-politico. Qui l’importanza di Strauss si misura con la riscoperta della scrittura reticente e con la sua critica della modernità. Si tratta di temi noti, che talvolta sono stati anche troppo enfatizzati dalla critica, e che possono essere condensati nella sua critica del relativismo della filosofia moderna. Strauss è convinto che, a partire da Machiavelli, la filosofia abbia abbandonato il proprio status di pensiero critico per abbracciare l’immagine di un pensiero al servizio della politica. Il filosofo moderno è il consigliere del potere, è colui che – ebbro di un’onnipotenza senza fondamento derivante dalla vittoria della nuova scienza naturale – intende costruire il “paradiso in terra” dimenticandosi che la vita umana è invece dominata dal limite, dalla caducità, dalla provvisorietà. A partire da questa considerazione generale sulla traiettoria della filosofia moderna prendono corpo le riflessioni di Strauss sui principali concetti della filosofia politica (sovranità, diritto naturale, democrazia, tirannide ecc.), per arrivare ad affermare il rapporto problematico tra giustizia e legalità. Infatti, seguendo il ragionamento di Socrate contro Trasimaco contenuto nel primo libro della Repubblica, il formale rispetto dei criteri della giustizia politica può diventare addirittura un espediente che favorisce l’ingiustizia, cioè il tacito sfruttamento della legge per il perseguimento del bene privato. L’obbedienza alla legge non è in sé giusta, visto che la legge può essere ingiusta, anche perché la legge è in sé contraddittoria: da una parte pretende di essere giusta per sua natura, dall’altra è manifestamente il prodotto di una decisione politica in qualche modo arbitraria. Ma, una volta presi in considerazione questi limiti della legalità, Strauss è ben consapevole che un governo fondato sulla legge è superiore a un governo che opera senza leggi. Questo rapporto problematico tra legge, potere e giustizia rappresenta un esempio paradigmatico di ciò che si perde nella modernità, quando la filosofia diventa ideologia o strumento tecnico al servizio del potere; mentre, in epoca classica, essa si fonda sulla propria capacità critica nei confronti di ogni ordine costituito.
Quali vicende hanno segnato la vita del filosofo tedesco?
Sono molte le vicende importanti nella vita di Strauss, che è stata davvero difficile e turbolenta. Se procediamo in senso cronologico, certamente sono stati decisivi numerosi fattori: i suoi studi classici al liceo di Marburgo, il suo incontro e scontro con il sionismo politico agli inizi degli anni Venti, l’abbandono della Germania (prima per andare a Parigi, poi in Inghilterra), l’emigrazione negli Stati Uniti sul finire degli anni Trenta, infine l’arrivo all’Università di Chicago nel 1949. Ma altre vicende sono state centrali, e per molti aspetti drammatiche: la morte di tutti i suoi famigliari, molti dei quali uccisi dal regime nazista; i prolungati e pesanti problemi legati alla sua salute; l’ostracismo del mondo accademico americano. Infine, molti incontri con studiosi di filosofia hanno segnato la sua vita. Franz Rosenzweig, per esempio, è stato una figura centrale per la formazione di Strauss. Jacob Klein, filosofo della matematica greca, è stato il suo più grande amico e spesso lo ha supportato nelle grandi difficoltà personali ed economiche che hanno caratterizzato la sua emigrazione. Ma un ruolo importante nella biografia straussiana è stato giocato da altri incontri, in particolare con Alexandre Kojève, Gershom Scholem, Karl Löwith, Richard H. Tawney e Hans-Georg Gadamer.
Da questo quadro poliedrico, qui riassunto in breve ma che in realtà è molto più complesso, emerge una caratteristica del pensiero straussiano: quella di essere sempre stato esposto a innumerevoli confronti – pensiamo al fatto che le sue opere si presentano quasi sempre come un confronto con i classici – proprio mentre ha seguito una linea di originalità e, per certi aspetti, di solitudine, visto che Strauss non ha mai fatto organicamente parte di un movimento di pensiero, di un gruppo accademico, di un partito politico (o di una fede religiosa) e ha sempre preso le parti della “critica”. L’estraneità di Strauss ai contesti che ha attraversato – il suo essere sempre “fuori luogo” – è mostrata dalle vicende concrete della sua vita. Negli anni Venti frequenta i corsi di filosofia nelle università tedesche mentre partecipa ai congressi sionisti. In Germania tiene corsi di educazione per gli ebrei adulti nelle città di provincia mentre – all’Akademie für die Wissenschaft des Judentums di Berlino – costruisce percorsi di ricerca specialistici su Spinoza, Hobbes, Maimonide e Mendelssohn. Vive da emigrato a Parigi e in Inghilterra – in misere stanze d’albergo o in piccoli appartamenti in affitto, povero e assillato da una continua incertezza sul futuro – senza riuscire ad avere un vero contatto con le istituzioni accademiche locali, nonostante la stima di cui godono i suoi studi. Anche a New York Strauss lavora in solitudine, con pochi contatti personali e con la difficoltà di far parte – lui, conservatore contrario a ogni modello di filosofia della storia – di un’istituzione come la New School che del progressismo culturale e politico fa la propria bandiera. A Chicago insegna nel Dipartimento di Scienze politiche perché i Dipartimenti di Filosofia e di Lettere classiche non lo vogliono tra le proprie fila: inoltre, da critico feroce del positivismo sociale, si trova a insegnare scienza politica negli Stati Uniti, dove le scienze sociali sono dominate proprio da un’inclinazione “scientifica” in chiave empirista, comportamentista e behaviorista. Ebreo attento alla propria tradizione, per ben due volte ha l’occasione di andare alla Hebrew University of Jerusalem, senza tuttavia che ciò si realizzi. E, alla fine della sua carriera preferisce abbandonare Chicago, dove subisce l’ostracismo dei suoi colleghi, per trovare rifugio da amici, in piccoli ambienti accademici quali Claremont e Annapolis. Questa solitudine interiore e questa estraneità al mondo sono in parte dovute al suo carattere difficile: riservato e involuto, schivo e permaloso, sospettoso e impacciato, pignolo e ossessivo, spesso ruvido e aggressivo nei dibattiti, altezzoso nelle critiche e nelle relazioni accademiche. Ma, in grande parte, sono riconducibili all’originalità e all’indipendenza della sua posizione filosofico-politica.
In che modo la condizione dell’esilio riguarda non solo la sua vita, ma anche il suo pensiero?
Qui si tratta della complessità della sua biografia intellettuale, sempre svolta su una linea di frontiera, tanto da poter essere definita una sorta di esilio permanente, un continuo viaggio di uno straniero in una terra nota e conosciuta ma che non gli appartiene. Sempre a cavallo di numerose frontiere (filosofia/politica, Atene/Gerusalemme, tradizione/modernità), l’esilio straussiano non consiste tanto in una condizione concreta di vita, quanto in una categoria dello spirito e dell’esistenza. Di esilio, nel pensiero straussiano, è infatti possibile parlare non solo rispetto a un’origine data biologicamente o culturalmente, ma rispetto a tre diversi luoghi dello spirito – Berlino (la modernità), Atene (la filosofia), Gerusalemme (l’ebraismo) – la cui essenza, continuamente viva e presente nelle sue corde interiori, si dimostra inafferrabile e inesauribile proprio nel momento in cui essa viene ricreata. In esilio politico e filosofico rispetto a Berlino (a causa del suo antistoricismo e del suo antimodernismo) e in esilio interiore rispetto a Gerusalemme (a causa del suo scetticismo), Strauss non può trovare casa nemmeno ad Atene. Senza dubbio la città di Platone rappresenta per Strauss sia una forma di conoscenza, sia una forma di vita: ma la vita filosofica classica, oltre a essere intrinsecamente impossibile nella modernità, rappresenta di per sé un’esistenza che si svolge comunque sul confine della solitudine e sulla soglia della città. Il filosofo è infatti, per sua natura, uno straniero in patria, è colui che appartiene alla comunità senza tuttavia identificarsi tout court con il cittadino, è colui che vive in esilio anche quando vive a casa, nella propria città. Solitario e in esilio, Strauss attraversa il Novecento rimanendo sempre al confine tra più mondi, contemporaneamente: è stato infatti, allo stesso tempo, affascinato dall’umanesimo tedesco e dai movimenti sionisti, dalla filosofia e dall’ebraismo, da Platone e Nietzsche, da Maimonide e Hobbes, da Machiavelli e Lessing, da Senofonte e al-Farabi. Anche per questo motivo la filosofia è, in Strauss, “saggezza straniera” e il filosofo è sempre uno straniero che interpreta la meraviglia come ricerca della conoscenza, anche se ciò comporta uno sguardo critico nei confronti delle opinioni condivise e consolidate dalla tradizione sociale, politica e religiosa di appartenenza.
Quali sono i capisaldi del pensiero straussiano?
L’intero lavoro filosofico-politico di Strauss è teso a individuare un punto di mediazione tra filosofia e politica. La filosofia cerca la verità, mentre la politica si fonda sulle opinioni. La ricerca filosofica della verità è un’attività essenzialmente transpolitica e irreligiosa. In più occasioni Strauss, sulla scorta dell’Eutidemo platonico, ricorda che «il più grande nemico della filosofia, il più grande sofista, è la moltitudine riunita in assemblea cittadina», cioè la società politica: l’unico discorso politicamente pronunciabile è dunque lontano dall’unico discorso filosoficamente vero. Al contrario della politica, la filosofia è il tentativo di sostituire alle opinioni sulle cose la conoscenza delle cose, proprio perché essa fonda la propria esistenza sulla distinzione tra ciò che è “primo per noi” e ciò che è “primo in sé”. La verità teoretica, dunque, non solo non è politicamente realizzabile, ma è anche pericolosa, perché mina le credenze che sono alla base del sistema di convivenza sociale. Nell’assumere un punto di vista che non è comunemente accettato, la filosofia può diventare un’attività sovversiva nei confronti dell’ordine politico: per evitare questo rischio (sia per sé, sia per evitare la rovina del consorzio sociale), il filosofo deve possedere, accanto al desiderio della saggezza, un alto grado di moderazione pubblica che renda possibile distinguere tra verità filosofica e opinione politica, cioè tra saggezza privata e comunicazione pubblica. Il rapporto tra filosofia e politica è dunque complesso. Da un lato, la politica è necessaria per tutti (gli esseri umani non possono vivere senza società) ma è dominata dalle opinioni; dall’altro lato, la filosofia consente la ricerca della verità, ma è necessaria solo per i pochi filosofi. Pertanto, ciò che ha il primato “logico” (la filosofia) non ha il primato “cronologico” (la politica), e viceversa; o meglio: l’affermazione del primato “cronologico” della vita politica non cancella l’affermazione della superiorità “logica” della vita teoretica, proprio perché la filosofia, nel suo essere felicità, è il bene più grande, ma non è il “primo” bene.
Su questa base diventa più comprensibile anche la teoria straussiana della scrittura reticente: i testi classici sono caratterizzati dalla compresenza di più piani di lettura. In questo modo il filosofo può selezionare tra la moltitudine “superficiale” e coloro che sanno individuare la strada che conduce alla ricerca della verità, nascosta esotericamente “tra le righe” del testo esplicito. Questa teoria ermeneutica è stata spesso fraintesa e accusata ingiustamente di essere elitaria, cioè il prodotto di un atteggiamento settario tipico delle confraternite segrete. Strauss ha inteso fare altro, cioè riportare all’attenzione degli studiosi il fatto che, nel passato, i filosofi dovevano individuare schermi di reticenza che, da un lato, permettessero una difesa della filosofia di fronte ai poteri politici e religiosi e, dall’altro, rendessero possibile una comunicazione pubblica riguardo alla ricerca filosofica (cioè privata) della verità: la scrittura reticente si presenta così come il punto di equilibrio tra le esigenze della filosofia e le necessità della città. Per questi motivi la necessità della scrittura “tra le righe” non si perde nemmeno nelle società liberali, per due ragioni: in primo luogo, perché – in quanto educazione liberale – è una barriera contro il conformismo, a favore di un’educazione intesa come scavo minuzioso all’interno dei dettagli del testo filosofico; in secondo luogo, perché non esistono società interamente democratiche o liberali (basta pensare al “maccartismo” che ha dominato negli Stati Uniti negli anni Cinquanta).
La figura di Leo Strauss è stata talvolta associata al neoconservatorismo americano: in che modo il suo pensiero ha influenzato le recenti politiche statunitensi?
Negli ultimi vent’anni il nome di Strauss è stato al centro del dibattito statunitense (soprattutto giornalistico) in quanto presunto “padre” dei neoconservatori, protagonisti della controversa amministrazione di G.W. Bush junior: in quest’ottica lo stesso Strauss avrebbe una notevole responsabilità nella politica estera neoconservatrice di tipo aggressivo e interventista. In realtà questa vicenda – il desiderio di cercare un legame diretto tra l’insegnamento filosofico-politico di Strauss e la politica dei neoconservatori – rappresenta una delle pagine più inutili della letteratura contemporanea. Filosofia e politica rappresentano infatti due poli in continua tensione in Strauss che, pur consapevole delle necessità della politica, ha sempre preso le difese della filosofia: Strauss non avrebbe mai difeso ideologicamente e strumentalmente – come hanno fatto i neoconservatori – una concezione aggressiva dell’esportazione della democrazia in paesi non occidentali. Quasi tutta l’accusa contro Strauss si regge poi su un unico fatto: che alcuni neoconservatori abbiano studiato con lui o con suoi allievi diretti. L’accusa è però facilmente smontabile. In primo luogo, perché gli allievi che Strauss considerava promettenti sono stati avviati alla carriera accademica, non militare o politica; in secondo luogo, perché Strauss ha insegnato per venti anni a Chicago e tra le centinaia di studenti che ha laureato o dottorato non possono far testo una decina di studenti che hanno costituito il gruppo dei neoconservatori; in terzo luogo, perché Strauss non può essere ritenuto responsabile se qualche suo allievo (Allan Bloom, soprattutto) ha favorito l’emergere di figure che poi sarebbero transitate nei neoconservatori. Strauss era un conservatore, ma non un neoconservatore, che ha sempre considerato la politica una dura necessità della vita umana, ma non lo scopo della vita umana, che è la felicità della vita contemplativa, cioè la filosofia. E la filosofia deve stare in guardia contro la tentazione di entrare nelle stanze del potere.
Carlo Altini è professore di Storia della filosofia nell’Università di Modena e Reggio Emilia, direttore scientifico della Fondazione San Carlo di Modena e membro di direzione della rivista “Filosofia politica”. Ha studiato la nascita, lo sviluppo e la crisi della modernità filosofica e politica attraverso l’analisi storica e teorica di concetti quali progresso, potenza, utopia, sovranità, democrazia. È tra i principali studiosi, a livello internazionale, di Leo Strauss, su cui ha pubblicato saggi e monografie, tra cui Leo Strauss (Il Mulino, 2000) e Introduzione a Leo Strauss (Laterza, 2009). Tra i suoi volumi: Potenza/atto (Il Mulino, 2014), Progresso (Edizioni della Normale, 2015), Issues of Interpretation (Franz Steiner Verlag, 2018).