
Quali sono le principali edizioni del corpus tragico senecano tra il 1478 e il 1514?
Tra le edizioni a stampa del corpus tragico senecano che ho studiato nel mio volume, le principali sono sei. La prima è l’editio princeps, cioè la loro prima edizione a stampa in assoluto: fu impressa entro il 1478 a Ferrara per cura di André Belfort, detto ‘il Gallico’, in quanto fu un tipografo originario della Piccardia, in Francia. Questa edizione, pur essendo a stampa, conserva una mise en page molto simile a quella dei codici umanistici, ed è del tutto priva di paratesti (ovvero, di testi a corredo del testo principale, quali prefazioni, commenti, avvertenze al lettore etc.). In questo caso, lo stampatore, che inizialmente aveva svolto il mestiere di copista, sfruttò il sistema di stampa a caratteri mobili – introdotto poco tempo prima, lo ricordiamo, da Johann Gutenberg – per riprodurre in tempi rapidi e in molteplici copie un’opera di cui, con ogni evidenza, era crescente la domanda (l’invenzione della stampa a caratteri mobili fu rivoluzionaria nel permettere la riproduzione di opere in tempi contenuti e su larga scala). Assai importante è anche la seconda edizione, che vide la luce tra il 1488 e il 1490 a Parigi ad opera di tre stampatori (che, come spesso accadeva, operavano insieme per suddividersi le spese di produzione): Johann Higman, Wilhelm Probst e Wolfgang Hopyl. Questa edizione, a differenza della precedente, presenta due paratesti: la lettera dedicatoria di Charles Fernand all’avvocato regio Pierre de Courthardy e gli argumenta in versi delle tragedie scritti da Girolamo Balbi, che è anche il curatore del testo. La lettera dedicatoria è un documento molto prezioso, in quanto si configura come un vero e proprio manifesto in difesa della poesia e in particolare del genere tragico, di cui Fernand promuove la lettura e lo studio, opponendosi alle opinioni dei ‘castigatori dei costumi’ che consideravano le tragedie letture immorali. D’altronde, sia Fernand che Balbi erano membri del circolo umanistico di Robert Gaguin, il quale riteneva possibile conciliare lo studio della poesia con quello della teologia. Nel 1491, per i tipi di Antoine Lambillon e Marin Sarrazin, apparve a Lione la prima edizione a stampa corredata di commento: a curarlo fu l’umanista Gellio Bernardino Marmitta da Parma, che in quegli anni si trovava in Francia. Nell’edizione veneziana del 1493, stampata da Matteo Capcasa, al commento di Marmitta venne aggiunto quello di un altro umanista, Daniele Caetani da Cremona. Caetani, al contrario del collega di Parma, era esperto in lettere greche, pertanto poté aggiungere informazioni sulle tragedie e sulle loro trame mitologiche traendole direttamente dagli autori greci. I commenti di Marmitta e Caetani conobbero varie ristampe, nelle quali era sempre presente anche il testo senecano, che però, di ristampa in ristampa, risultava sempre più corrotto. Di questo si rese conto l’umanista Benedetto Riccardini, a buon diritto soprannominato ‘il Filologo’, che fornì un nuovo testo delle dieci tragedie attribuite a Seneca completamente ricontrollato sulla base dei codici: tale testo fu stampato nel 1506 dal celebre tipografo fiorentino Filippo Giunti. Una caratteristica peculiare di questa edizione fu la messa in evidenza delle sententiae, ovvero delle massime, presenti nelle tragedie attraverso un particolare espediente: la scrittura in lettere maiuscole della prima, o delle prime, parole che le compongono. A prima vista, questo sembra un dettaglio marginale, ma in realtà è la vivida testimonianza di uno dei principali motivi della fortuna – di qui in poi sempre crescente – di questi testi: l’abbondanza di massime, che potevano essere memorizzate per poi essere riutilizzate in scritti e orazioni. Di grande importanza fu anche l’edizione parigina del 1514 pubblicata per iniziativa del tipografo e umanista Josse Bade, che coinvolse nell’operazione anche Erasmo da Rotterdam: Erasmo si occupò, insieme ad altri filologi, della revisione del testo. In questa edizione, Bade corredò le tragedie del proprio commento e dei commenti di Marmitta e Caetani. Rispetto ai precedenti, il suo commento era più sintetico e adatto ai principianti, contenendo anche indicazioni per la comprensione di base del testo, ad esempio l’ordo verborum, ovvero l’ordine lineare delle parole, non alterato da figure retoriche quali l’iperbato e l’anastrofe.
Segnalo infine due edizioni molto eleganti, illustrate da xilografie (copie a stampa di incisioni a rilievo su tavolette di legno): la prima, che contiene illustrazioni dai tratti essenziali, è l’edizione veneziana del 1510 stampata da Filippo Pinzi; la seconda, che mostra illustrazioni molto più ampie e dettagliate, è l’edizione parigina del 1511 stampata dai tipografi Jean Petit, Jean Marchand e Michel Le Noir. La funzione delle illustrazioni all’interno di queste edizioni non era solamente decorativa, ma era anche esplicativa: servivano infatti a riportare gli antefatti delle vicende tragiche, a presentarne i personaggi e a indicarne le scene principali.
Quanti e quali furono i volgarizzamenti delle tragedie di Seneca?
Con la diffusione dei primi commenti, le tragedie senecane divennero testi più accessibili e furono oggetto di vari volgarizzamenti, ovvero di traduzioni dal latino al volgare. Fino alla fine del Quattrocento, furono prodotti cinque volgarizzamenti in lingua fiorentina delle tragedie di Seneca: uno, in prosa, di tutte e dieci le tragedie attribuite all’autore antico; due, in versi e parziali, di singole tragedie (Hippolytus e Agamemnon); due, in versi e completi, di singole tragedie (Hercules furens e Hippolytus). Il primo in ordine cronologico è il volgarizzamento di Sinibaldo da Perugia, autore perugino del Trecento, che però è rimasto incompleto in quanto l’autore morì prematuramente. Dobbiamo tuttavia specificare che non si tratta di un semplice volgarizzamento. Sinibaldo, infatti, aveva cominciato a scrivere un poemetto di argomento mitologico, intitolato Ippolito e Fedra dal suo editore moderno, Daniele Piccini (cfr. Daniele Piccini, Sinibaldo da Perugia. Un poeta del Trecento e la sua opera, Perugia, Deputazione di Storia Patria per l’Umbria, 2008). Sul modello della Commedia di Dante, Sinibaldo scrive in terzine incatenate la narrazione della spedizione di Teseo agli Inferi e del contemporaneo innamoramento di Fedra per il figliastro Ippolito; oltre a Seneca, le sue fonti sono Ovidio (Metamorfosi) e Virgilio (Eneide). Sinibaldo aveva avviato un esperimento molto interessante di intreccio della materia epica (spedizione agli Inferi dell’eroe) con quella tragica (amore proibito della matrigna per il figliastro). Egli giunse a tradurre l’Hippolytus fino al secondo coro.
Il volgarizzamento in prosa di tutte e dieci le tragedie è opera di un autore anonimo di area napoletana; fu composto presumibilmente agli inizi del Quattrocento e sembra ricollegarsi al progetto di volgarizzamento dei classici latini promosso dal marchese di Santillana Iñigo López de Mendoza. Il testo del volgarizzamento è stato pubblicato nella tesi di dottorato di Matilde Guarducci Il primo volgarizzamento delle tragedie di Seneca. Edizione critica del ms. Italien 1096 della Bibliothèque Nationale de France, relatore Cesare Segre, Università degli Studi di Firenze, 2006.
Gli autori dei restanti tre volgarizzamenti furono protagonisti di un curioso caso letterario che ebbe luogo alla fine del Quattrocento. Gli autori sono Evangelista Fossa da Cremona e Francesco Ghinucci alias Pizio da Montevarchi, entrambi frati, ma di ordini diversi: il primo servita, il secondo minorita. I due si scontrarono in una polemica sulle tecniche di traduzione, che fu la prima relativa a un volgarizzamento, secondo quanto notò Carlo Dionisotti. Cos’era successo? Il 28 gennaio 1497 Evangelista Fossa pubblicò a Venezia il volgarizzamento (parziale, fino al verso 391) dell’Agamemnon di Seneca (per i tipi di Pietro Quarenghi). Tra i paratesti dell’incunabolo, inserì un carme di due distici elegiaci dedicato a Pizio da Montevarchi e alla sua produzione poetica, di cui evidentemente era un estimatore. Pochi mesi dopo, il 2 ottobre 1497, Pizio pubblicò a Venezia, per i tipi di Cristoforo de’ Pensi, il volgarizzamento dell’Hippolytus di Seneca. Nella lettera dedicatoria all’amico Giovanni Badoer, Pizio gli ricorda un episodio accaduto qualche tempo prima: mentre si trovavano insieme nel suo studio, qualcuno portò loro in lettura proprio l’Agamennone di Fossa. Pizio non presta minima attenzione ai distici elegiaci d’elogio a lui indirizzati dal collega, anzi, sostiene con disprezzo di non conoscerlo ed espone una critica feroce contro lo stile della sua traduzione, considerato rozzo e sgraziato. Tuttavia, poiché l’amico Giovanni si era dimostrato interessato all’operazione di traduzione delle tragedie, Pizio decise di donargli un volgarizzamento migliore rispetto a quello che aveva confezionato il collega, che secondo lui non meritava affatto il nome di poeta. Che scorno per il povero Fossa!
Pizio fu anche autore del volgarizzamento dell’Hercules furens di Seneca, conservato nel manoscritto 106 della Biblioteca Classense di Ravenna. Nel mio volume, dalla pagina 301 alla pagina 470, si possono leggere i testi dei volgarizzamenti di Fossa e Pizio, che finora erano privi di un’edizione moderna.
Quali caratteristiche stilistiche e linguistiche presentano i volgarizzamenti?
La lingua dei cinque volgarizzamenti è il volgare fiorentino, sul modello di Dante e Petrarca. Nel testo di Sinibaldo da Perugia e in quello anonimo si riscontrano alcuni tratti rispettivamente del perugino e del napoletano. Nei testi di Fossa e Pizio si scorgono alcuni tratti veneti.
Il volgarizzamento in prosa non ha particolari velleità letterarie: l’anonimo autore si limita a riportare il senso letterale del testo di partenza, talvolta integrandolo traendo spunto dal commento di Nicola Trevet. Le amplificazioni, tuttavia, sono rare e consistono principalmente in dittologie sinonimiche: il traduttore, infatti, per illustrare al meglio il significato di sostantivi e aggettivi latini, spesso li rende attraverso due sinonimi in volgare. Nelle coppie di sinonimi, solitamente uno è un latinismo, mentre l’altro rientra nel repertorio del volgare d’uso. Lo scopo di questo volgarizzamento doveva essere quello di illustrare al lettore che non conosceva – o conosceva poco – il latino i contenuti delle tragedie di Seneca, che restavano testi difficili da leggere senza ausili esegetici.
Anche per Sinibaldo da Perugia lo scopo principale è quello didattico e divulgativo: nell’incipit del quarto canto del suo poemetto, infatti, dichiara di voler tradurre in volgare la storia di Ippolito e Fedra per farla conoscere a chi non comprendeva il latino. Nel volume, mostro come Sinibaldo si avvalga spesso del commento di Trevet per inserire amplificazioni esplicative del contenuto dell’originale. Le amplificazioni si rendevano inoltre necessarie per adattare i contenuti senecani allo schema metrico dell’opera in volgare, ovvero le terzine incatenate. Descrivo inoltre l’ipotesi che il nucleo originario del poemetto fosse costituito dal semplice volgarizzamento in terzine; successivamente – proprio per favorire una maggiore intelligenza della storia mitologica da parte dei lettori – Sinibaldo potrebbe aver pensato di integrare la vicenda tragica di Fedra e Ippolito con quella della spedizione di Teseo negli Inferi, che ne costituisce l’antefatto. Il principale modello letterario per Sinibaldo è Dante.
Dante, e in particolare il suo Inferno, fu un modello di riferimento anche per Evangelista Fossa, che, traducendo l’Agamemnon in terzine incatenate, riprende spesso termini e serie rimiche della Commedia. Come già Sinibaldo, Fossa ricorre di frequente alle amplificazioni; nel suo caso, però, lo scopo principale è quello di dare una lettura edificante della tragedia. Pertanto, assai numerosi sono gli inserimenti di massime morali di suo conio. Inoltre, Fossa, per amor di semplicità, in qualche caso tralascia di tradurre brani particolarmente complessi del testo senecano. Innovativa è la resa del secondo coro: esso non viene propriamente tradotto, ma se ne propone una sintesi generale; inoltre, in questa parte, il volgarizzamento non segue un preciso schema metrico, bensì presenta una serie di versi endecasillabi, settenari e quinari liberamente rimati. Le motivazioni di questa soluzione restano misteriose: sarà stata una scelta ponderata oppure dettata dalla fretta di concludere, seppur approssimativamente, l’opera per mandarla in stampa? (In ogni caso, ricordo che Fossa ha volgarizzato solo la prima parte dell’Agamemnon). Ciò che colpisce di più dell’opera fossiana è lo sperimentalismo linguistico che si manifesta con neoformazioni quali «astrolicho», «agammennolicha», «roxulo»… create per ottenere rime sdrucciole.
Pizio da Montevarchi ha fornito le prove di traduzione più mature e raffinate. A differenza dei predecessori, riesce a riprodurre – almeno in parte – le variazioni metriche dell’originale, cambiando schema metrico nei punti in cui lo cambia anche il testo latino (con qualche eccezione). Infatti, Pizio generalmente impiega le terzine incatenate per tradurre i dialoghi, mentre per i cori tragici adopera altre forme metriche: gli endecasillabi frottolati, la canzone, la barzelletta, il sonetto, la strofe saffica italiana. Tuttavia, non c’è una precisa corrispondenza tra metri latini e metri volgari. Inoltre, pur non impiegando mai la terzina incatenata per i cori, riservandola ai dialoghi, Pizio non esclude dalle parti dialogate forme metriche quali la canzone o il sonetto altrove impiegate nei cori: ciò serve a dare rilievo ai momenti di maggiore pathos. Un’altra caratteristica che differenzia le prove di traduzione di Pizio da quelle dei suoi predecessori è il ridotto ricorso alle amplificazioni: per evitarle, in qualche caso opta per non tradurre il testo di partenza, lasciando quindi nel volgarizzamento veri e propri inserti in latino: sono casi sporadici, che tuttavia rivelano la volontà di rimanere il più possibile aderente al testo senecano, limitando le aggiunte o le omissioni. Per comprendere meglio lo stile dei volgarizzamenti piziani, occorre specificare che l’autore, insieme al dedicatario Giovanni Badoer e al loro amico Filippo Galli, alias Filenio Gallo, si dilettavano nella scrittura di egloghe: l’impiego frequente di endecasillabi sdruccioli e di latinismi da parte di Pizio derivava proprio da questo esercizio poetico. I tre dovevano essere piuttosto conosciuti come poeti bucolici in area veneta e non solo; il più famoso tra loro era Filenio Gallo, la cui Saphyra funse da modello per la celeberrima Arcadia di Jacopo Sannazaro, secondo quanto è stato riscontrato da Maria Corti.
Nel complesso, possiamo dire che i volgarizzamenti delle tragedie di Seneca in età umanistica sono testimonianze di un intenso lavorio sperimentale sul volgare letterario, che non poteva fare a meno del latino per arricchirsi ed elevarsi: l’interesse per i contenuti delle tragedie antiche andava di pari passo con quello per il loro stile e il loro lessico, stimolando la ricerca di esiti nuovi per il volgare e i suoi generi letterari. La conoscenza dei capolavori di Dante e Petrarca coniugata con la lettura delle opere dei grandi autori latini ispirò testi di grande rilevanza culturale, letteraria e linguistica, che oggi colpiscono per la loro caleidoscopica varietà in cui sono prodigiosamente combinate l’eredità letteraria classica e quella due-trecentesca.
Arianna Capirossi ha conseguito il Dottorato di ricerca in Filologia, Letteratura italiana, Linguistica curriculum internazionale di Italianistica nel 2019 presso l’Università degli Studi di Firenze in consorzio con Universität Bonn e Sorbonne Université. Nel 2020 è risultata vincitrice del ‘Premio ricerca Città di Firenze’ per la tesi di dottorato La ricezione di Seneca tragico tra Quattrocento e Cinquecento: edizioni e volgarizzamenti. I suoi interessi di ricerca vertono sulla letteratura di età umanistica e rinascimentale e sulla ricezione dei classici latini.