“Terra irredenta, terra incognita. L’ora delle armi al confine orientale d’Italia 1914-1918” di Fabio Todero

Dott. Fabio Todero, Lei è autore del libro Terra irredenta, terra incognita. L’ora delle armi al confine orientale d’Italia 1914-1918, edito da Laterza. Il territorio variamente denominato Litorale austriacoVenezia Giulia o Primorska/Primorje costituì l’epicentro della Grande Guerra ma anche l’oggetto di una grande costruzione mitopoietica: cosa rappresentava, nell’immaginario collettivo del tempo, il confine orientale italiano?
Terra irredenta, terra incognita. L'ora delle armi al confine orientale d'Italia 1914-1918, Fabio ToderoLa risposta a questa domanda va declinata al plurale: è infatti necessario operare delle distinzioni di carattere sociale e culturale per capire quale sia l’immaginario collettivo in questione: parliamo cioè dell’immaginario collettivo italiano o di quello diffuso nella multiforme realtà della duplice monarchia asburgica? Quando ci si riferisce alla storia di queste terre, infatti, terre di frontiera e quindi di incontri, scontri e sovrapposizione di culture, occorre sempre ragionare in termini di – almeno – duplicità, come aveva ammonito un uomo di frontiera come Scipio Slataper… Ad ogni modo, se ci riferiamo all’immaginario collettivo italiano occorre distinguere tra la parte colta della popolazione – una minoranza, direi un’élite nella quale pure non mancavano alcuni elementi di scarsa conoscenza se non di confusione relativamente a queste terre – e la stragrande maggioranza degli italiani, in un paese in cui gli indici di analfabetismo erano assai elevati. Per quanto riguarda questi ultimi, mi piace sempre ricordare un personaggio dei Malavoglia che nel sentir parlare della battaglia di Lissa – isola della Dalmazia –, indica quella località come un indistinto luogo “verso Trieste”, distante in realtà quasi 200 miglia nautiche. Ciò che se ne sapeva, insomma, era che si trattava di un luogo “lontano”, quanto lontana poteva apparire Gorizia – le “terre lontane” di un noto canto popolare della Grande guerra – ai fanti che vi venivano mandati a morire. In buona sostanza, ai più non era del tutto chiaro quale fosse e quali fossero le caratteristiche – geografiche, culturali ecc. – del territorio che nel 1863 un grande studioso come Graziadio Isaia Ascoli aveva denominato “Venezia Giulia”. Il termine non ebbe immediata fortuna, non fu universalmente utilizzato nemmeno in ambito geografico, e fu accolto più tardi, nel periodo della battaglia interventista, quando peraltro la formula più diffusa per indicare le terre irredente era quella, fortunatissima, Trento-Trieste, un binomio che fu alla base di non poche sviste, innanzi tutto di natura geografica… Dunque, i più partirono – e in molti casi morirono – per un luogo indeterminato, che peraltro rappresentava l’epicentro del fronte di guerra austro-italiano.

Quali diverse appartenenze si scontrarono nel primo conflitto mondiale?
Se parliamo di Venezia Giulia, dobbiamo ancora una volta far ricorso alla categoria della “complessità” e della “pluralità”. Stiamo parlando cioè di una società attraversata da numerose linee che attraversavano, dividendole, anche le diverse comunità che la componevano. Innanzitutto parliamo dei tre maggiori gruppi linguistici che vi convivevano – italiani, sloveni e croati – animati ciascuno da propri obiettivi di natura politica. Con il formarsi della coscienza nazionale, si era sviluppata la concorrenza politica per il controllo del territorio e la sua amministrazione: conquistare l’egemonia avrebbe significato rinforzare ciascuno il proprio gruppo di riferimento. Non a caso, fino allo scoppio della Grande guerra, il terreno privilegiato del conflitto nazionale era stato il mondo della scuola e dell’educazione. Ciò detto, non possiamo nemmeno far riferimento a comunità nazionali compatte al loro interno. Prendiamo la comunità italiana: c’erano gli irredentisti, un gruppo non maggioritario ma socialmente e culturalmente importante, per non dire che lo stesso irredentismo poteva essere declinato in modo diverso: da un atteggiamento di mantenimento e tenuta dell’egemonia culturale e politica, a quello più spinto di chi pensava alla separazione dall’Austria tout-court, ma che anche qui poteva seguire le strade del nazionalismo – qui rappresentato da un personaggio come Ruggero Timeus – o del mazzinianesimo. Le differenze però, allo scoppio della guerra, sfumarono e finirono per confondersi nella comunità dei volontari “irredenti”. Tra gli italiani però – incluse le classi popolari – vi era chi dimostrava fedeltà all’Austria mentre forte era il movimento operaio, animato dai valori dell’internazionalismo. Infine, una “zona grigia”, i tanti partiti per la guerra – con l’uniforme dell’esercito di Francesco Giuseppe, intendiamoci – con rassegnazione, accogliendo quell’esperienza come tanti fecero in Europa nell’estate del 1914. Non si trattava, insomma, di una comunità contraddistinta da un solo atteggiamento verso la guerra. A sua volta, il mondo sloveno era attraversato da proprie dinamiche interne; non mancò, per quanto ridotto, il fenomeno dei volontari, animati da ideali jugoslavisti, che si unirono all’esercito serbo. Ad animare il movimento operaio erano naturalmente anche sloveni e croati, tra i quali però lo spirito internazionalista era meno pronunciato di quanto non fosse tra i compagni italiani. In quanto ai croati, erano da sempre ritenuti il nerbo dell’esercito austro-ungarico. Insomma, come si vede, una realtà davvero complicata, che gli esiti della Grande guerra non avrebbero certo contribuito a semplificare.

Come vissero soldati e opinione pubblica italiana il contrasto tra realtà e mito della guerra sul Carso?
L’impatto con un fronte e un territorio dalle caratteristiche così marcate, in senso negativo, come il Carso fu tragico per tutti i combattenti che vi furono inoltrati, indipendentemente dalla loro provenienza. Si tenga presente che in un quest’area geograficamente poco estesa, si concentrarono decine di migliaia di combattenti provenienti da ogni angolo d’Europa: italiani, austro-tedeschi, sloveni, croati, rumeni, ungheresi, bosniaci, ruteni… Se la Galizia – un’altra “terra lontana” dove decine di migliaia di uomini della Venezia Giulia conobbero l’esperienza terribile della guerra e della morte di massa – poté essere definita il “cimitero dei popoli” o “delle nazioni”, altrettanto si potrebbe dire dell’altipiano carsico, dove le perdite furono elevatissime e il fenomeno orrendo della morte di massa e della forzata vicinanza tra vita e morte fu esasperato proprio dalle caratteristiche del terreno. La morfologia e il clima di questo non resero infatti la vita più facile ai combattenti, tormentati dalla mancanza d’acqua, dalle rocce affioranti che rendevano più difficile lo scavo delle trincee, dalle asperità della linea – gli italiani si trovarono a dover partire da posizioni poste più in basso rispetto a quelle austriache: un vero calvario. Così, se la stampa cercò di diffondere un’immagine mitica di quegli scontri, per lo più distante dalla realtà, chi vi si trovò effettivamente non ebbe tempo di mitizzare la propria esperienza, ciò che appartiene alla stagione della memorialistica post-bellica. Del resto, si trattava di un territorio che l’opinione pubblica italiana conosceva assai poco, se è vero che non mancarono pubblicazioni e conferenze che cercavano di spiegare che cosa fosse il territorio dove si combatté per due anni e mezzo dal quale tanti non facevano ritorno. Le parole di Carlo Pastorino, letterato e ufficiale di complemento ligure, inoltrato dalle vallate del Pasubio sul Carso con la sua brigata, commentano in modo emblematico quel passaggio: «la parola Carso, nonostante la lettura del libro del poeta, rimaneva di colore oscuro: con un che di questo Carso che non riuscivo a raffigurarmi, perché non doveva assomigliare a nessun’altra terra della mia esperienza. Forse l’avrei visto in un tempo non lontano perché il libro aveva messo in me grande curiosità di esso; ma come e quando non potevo immaginare». Il poeta cui Pastorino si riferiva era Scipio Slataper, ed il libro era Il mio Carso: una delle opere più importanti della stagione che aveva preceduto lo scoppio del conflitto, libro che si concludeva con l’accorato appello alla costruzione di una civiltà del lavoro e dell’amore. La Grande guerra avrebbe purtroppo cancellato queste nobili aspirazioni: perché la pace tornasse davvero sulle colline carsiche e nella Venezia Giulia ci vollero molti anni, una nuova guerra, e molte dolorose vicende.

Fabio Todero, Dottore di ricerca in italianistica, ricercatore dell’Istituto regionale per la storia della Resistenza e dell’Età contemporanea nel Friuli Venezia Giulia, si occupa da anni di Grande guerra e della sua memoria e di storia della frontiera orientale. Su queste tematiche ha pubblicato numerose monografie e saggi in volumi collettanei e riviste. Ricordiamo, tra gli altri, Pagine della Grande guerra. Scrittori in grigioverde (Mursia, Milano 1999); “Morire per la patria”. I volontari del Litorale austriaco nella Grande guerra (Gaspari, Udine 2005); la curatela del volume “Si scopron le tombe”. Ricordare, commemorare, evocare i caduti della Grande guerra (con L.G. Manenti, Irsrec FVG, Trieste 2018); Di un’altra Italia. Miti, riti e simboli dell’impresa fiumana (con Luca G. Manenti, Gaspari, Udine 2021), e da ultimo Terra irredenta, terra incognita. L’ora delle armi al confine orientale d’Italia 1914-1918 (Laterza, Roma-Bari 2023).

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