
E S., effettivamente, non c’è più quando torna a casa Matteo.
Al suo posto, c’è soltanto un corpo penzoloni dal soffitto.
Si è ucciso all’ingresso della casa in cui si sono amati per sette anni.
«I miei ricordi con S. riguardano sette anni di vita in comune. I traslochi da una casa all’altra, le vacanze, i tragitti in macchina, le serate sul divano a guardare la TV, le cene sul tavolino microscopico in balcone… Una valanga di minutaglie che ora mi appaiono tutte preziose in egual misura e dolorosamente irrecuperabili».
Febbraio 2023, Mondadori pubblica La vita di chi resta.
Sono passati venticinque anni dalla morte di S., ma solo ora Matteo B. Bianchi decide di raccontare il suo dolore. Una storia che è sì «piena di buchi di memoria», ma al contempo è quasi una carezza per chi ha conosciuto la perdita. Perché con La vita di chi resta Matteo utilizza una grammatica emotiva, una lingua universale, in cui chi ha perso non solo può riconoscersi, ma può non sentirsi solo.
«Mi sono abituato presto a un nome che, invece di identificarmi, mi rendeva uno fra i tanti. L’anagrafe come condanna all’impersonalità. Tra i motivi per cui ho deciso di scrivere questo libro c’è anche il mio anonimato, che una volta tanto ha un senso, simbolico e concreto. Che sia io o non lo sia, non importa. Perché so bene che se hai vissuto la stessa esperienza che ho vissuto io, allora hai provato le stesse cose. Sei Matteo Bianchi quanto me. Può anche cambiare la circostanza, il periodo, l’età, la relazione, il sesso: ma questi, lo sappiamo bene, sono solo dettagli»
E ancora: «Se scrivo questo libro è anche perché avrei voluto leggere io allora un libro così, sul dolore di chi resta».
Qualche settimana dall’uscita e il libro è già in ristampa.
Molti ne parlano come di un romanzo urgente. Eppure, più che un’urgenza, per natura impellente e disorganica, La vita di chi resta sembra il compimento naturale, pensato e pesato, di un processo. Quello di interiorizzazione del dolore di chi resta in vita dopo il suicidio di una persona cara, un amico, un compagno, un familiare.
La vita di chi resta diventa subito, agli occhi del lettore, un libro necessario. Un testo che attraverso parole e immagini cerca di sbrogliare i sentimenti e le tensioni di chi, a un certo punto, si trova a fare i conti da vicino con il lutto.
Non c’è nulla di superfluo, ogni pagina sembra perimetrare e dipingere perfettamente gli stati d’animo dei Survivor, coloro che sopravvivono a chi muore, nello specifico a chi muore per suicidio.
Se la letteratura è un’ancora di salvezza per Matteo B. Bianchi, e sul tema si trovano «solo materiali sulle vittime, non sui superstiti», allora, La vita di chi resta si fa portavoce di questi ultimi: i superstiti. Vittime anche loro di un dolore che è ignorato.
Intorno al suicidio, in Italia, ci sono ancora molti tabù, ma con La vita di chi resta, Matteo restituisce dignità a un argomento tanto delicato quanto attuale. Perché gli stigmi sociali non rendono soltanto difficile inquadrare il fenomeno e prevenirlo, con sistemi di divulgazione e prevenzione diversi rispetto alla letteratura sociologica, clinica o epidemiologica, ma coinvolgono anche tutto ciò che, al suicida, ruota attorno, restando invisibile: la sofferenza di chi deve affrontare quel lutto.
Di chi sprofonda come Matteo nell’abisso, senza trovare conforto in nessun protocollo scientifico.
Con una prosa scorrevole, a tratti sincopata, e intervallata da pensieri, citazioni e riflessioni, Matteo B. Bianchi prende per mano il lettore, mostrandogli le fasi di quel vortice, un dolore puro, quasi insensato che passa dall’incomprensione allo sconforto più profondo. Un sentimento di inesistenza che nessuno ci spiega, perché il lutto tocca sempre ad altri e perdere una persona amata è qualcosa che non ci appartiene mai, finché palesandosi non ci inghiotte. E a quel punto ci si chiede come affrontarla: come si affronta la perdita non preventivata? Come si affronta la perdita improvvisa, lacerante, non calcolata?
Per un po’, dopo lo shock, si vaga. Ci si dibatte «dentro sentimenti opposti, di odio e amore, di rabbia e compassione, di furia e tenerezza, di condanna e comprensione, due forze antagoniste» che stritolano.
Si va, come Matteo, in cerca di risposte, sperimentando ogni percorso, persino il più mistico. Si prova spasmodicamente a risalire, a riprendere aria come da un’apnea che pare infinita. Si «anela a una tregua», si «prega per un breve armistizio. Qualche minuto con la testa sopra la superficie dell’acqua, in cui tornare a respirare a pieni polmoni, prima di immergersi di nuovo in quella perenne apnea».
Ci si distrae, si va al lavoro, pur scoppiando in improvvisi pianti; ci si annichilisce, ci si anestetizza al dolore. Ci si sente «perennemente altrove, in un luogo» dove non si è stati mai prima, «un personale e irraggiungibile abisso» da cui nulla pare riguardarci più. Tanto che sembra quasi ci sia «una forma di arroganza nella sofferenza pura», come la chiama Matteo «un’onnipotenza al contrario» che ci fa dire: «voi non sapete dove sono io. Credete di vedermi, credete di parlare con me, ma vi sto solo illudendo. Andate pure avanti con le vostre cose. Le banalità del mondo non mi riguardano più, ora che ho conosciuto la vera oscurità».
Infine, si sceglie di. Matteo decide di farlo quando incontra Alberto.
«La prima sensazione, quando ha proposto di lasciarmi, è stata di sollievo […] Poi è successo qualcosa. Alberto si è addormentato, stremato. Io non ho chiuso occhio […] Capivo con una chiarezza di visione assoluta che mi trovavo davanti a un bivio: da un lato abbandonarmi di nuovo al dolore, farmi avvolgere dalla coperta ormai familiare del malessere, quello strato annebbiante che da mesi mi separava dal mondo, collocandomi in un luogo dove niente e nessuno riusciva a raggiungermi; dall’altro lui, la vita. Il futuro. Mi sono chiesto cosa volessi. Mi sono chiesto: vuoi continuare a vivere? […] Il giorno in più che Alberto mi ha concesso si è prolunga- to per ventidue anni. Si sta prolungando tuttora. Mentre non lo stavo cercando affatto, mentre ero nel mio stato peggiore, ho trovato l’uomo della mia vita. […] Non si guarisce. Non si smette di soffrire. Non ci si perdona. Non ci si salva. Si sceglie di».
Perché se è vero – per dirla con Neruda – che è «una casa sì grande» l’assenza, è pure uno spazio «trasparente» da cui si può tornare a vedere fuori.
Il futuro e il “dopo” diventano allora uno slancio. Una scelta tra il rifiuto Nietzschiano e la vita che, invece, continua a passarci attraverso, sopra, di fianco. Una vita che è anche un tessuto di relazioni, di persone che continuano a viverci intorno e che provano persino ad amarci, ad amare il nostro peggio, anche se si fa fatica – una fatica esistenziale – a vederle e riconoscerle, perché la sofferenza, tanto quanto la morte, è uno strappo, una lacerazione che pervade e attutisce ogni altra capacità. È un blackout, un buco nero.
«Forse tutti noi abbiamo un limite. Io l’avevo raggiunto. Oltre c’era solo l’abisso. C’era la rinuncia alla vita. L’uomo che ora dormiva al mio fianco era una persona meravigliosa al punto da starmi vicino nel mio periodo più cupo, di essere innamorata di me mentre io ero incapace di alcuna forma di romanticismo. Di amarmi al mio peggio. Non ero stato in grado di riconoscere neanche questo. Era venuto il momento. Ora o mai più. Il momento di salvarmi».
Buona lettura!
Francesca Rossi