
Quale ruolo rivestivano la terra e l’agricoltura nel sistema economico e sociale romano?
Un ruolo assolutamente determinante. La potenza di Roma era strettamente legata a due fattori, la terra e l’esercito. Il ruolo sociale della funzione terriera era così profondo che dalle origini alla fine la proprietà terriera segnò profondamente la struttura dello Stato, in tutte le sue quattro forme (regno, repubblica, impero e dominato) e costituì la base anche della teoria del diritto che assegna non a caso alla proprietà il rango di diritto assoluto.
Quale ferrea logica presiedeva all’espansionismo militare romano?
La logica dell’utile. Con questo concetto però bisogna procedere con moltissima attenzione. Per “utile” non si deve intendere solo l’espressione di un vantaggio direttamente economico o addirittura finanziario ma la sintesi di una visione moto più ampia. Era “utile” difendere gli alleati quando il non farlo avrebbe indebolito il nomen romanum, la potenza di Roma. Una penetrazione militare nella Scozia più settentrionale e la costruzione lì di una piazzaforte non era “utile” perché ne derivassero seri vantaggi economici o gestionali ma metteva in chiaro che Roma non avrebbe consentito nel proprio territorio le consuete scorribande dei Caledoni o Pitti (diciamo gli antenati degli Scozzesi). “Utile” era dividere la figura del servo in diverse sotto-figure e consentire a non pochi di loro di lavorare, pagare le tasse e perfino riscattarsi. “Utile” era finanziarie spedizioni alle sorgenti del Nilo non per disegnare una nuova carta geografica del continente ma per capire se vi fossero fonti di reddito o addirittura miniere d’oro. E così via.
Quale debolezza caratterizzò sempre il sistema finanziario dell’impero romano?
La modesta conoscenza dei meccanismi che presiedono alla circolazione monetaria. Per secoli Roma praticò un’economia monetaria molto arcaica e quasi il baratto. Ancora oggi in italiano si adopera l’antico nome latino al posto della parola denaro o moneta e cioè pecunia, da pecus, pecora; oppure, al posto di “corrispettivo” o “stipendio” si dice ancora “salario”, dall’usanza romana di pagare con il sale un corrispettivo. Tutto ciò non “può” ma deve fare riflettere. Come deve fare riflettere la spaventosa disinvoltura con la quale nei secoli Roma, specie in occidente, variò il tenore della moneta togliendo sempre più oro o argento e sprofondando persino nella suberazione, cioè nel verniciare un a moneta di metallo bronzeo dandole un valore nominale simile a quello di un metallo nobile.
Quale peso ebbero, in tale processo, corruzione, crollo demografico ed epidemie?
Roma conobbe il fenomeno della corruzione immediatamente; una leggenda che oggi chiameremmo “metropolitana”, vuole che Romolo fosse stato descritto come rapito dal divino solo per mascherare il fatto che invece fosse stato ucciso dai senatori che non avrebbero apprezzato alcune sue scelte “interessate”. I fenomeni di corruzione sono veramente molto antichi e la Lex de repetundis contro la corruzione voluta da Giulio Cesare intendeva porre rimedio a un male plurisecolare. Sul crollo demografico io collocherei il tema se non al primo posto comunque nei primissimi motivi della crisi. Impossibile affrontarlo non solo ovviamente in questa sede ma neppure in un congruo numero di pagine. In sintesi diremo che innanzi tutto la frantumazione della famiglia nucleare italica con conseguente proletarizzazione, la conseguente grande paura di dovere sostenere un peso inutile come la prole e poi la diffusione delle pratiche contraccettive e anche abortive ebbero molta importanza. Lo Ius trium liberorum voluto dalla lungimiranza di Ottaviano Augusto non ebbe un grande risultato. Quanto alle epidemie, fattore fatto oggetto di saggio da illustri storici, certamente esse furono molto gravi, specialmente perché colpivano un tessuto demograficamente fragile; non è un dettaglio. Ogni epidemia va misurata nella perdita percentuale della forza lavoro; se la forza lavoro necessaria è per esempio 100 e già prima dell’epidemia se ne dispone solo di 50, una perdita del 10% che porta la forza lavoro a 45 diventa molto più micidiale di un’epidemia che colpisce una forza lavoro già corrispondente al fabbisogno. In quest’ultimo caso, diciamo 100, perdere il 10% porterebbe a 90 la disponibilità e permetterebbe a quel 90 rimanente di riprodursi in 18 anni con un normale tasso tre per due (una coppia per tre figli). Ma anche ad ammettere un tasso identico (e Roma fu colpita dalle epidemie quando già il tasso di riproduzione era compromesso) se si parte da 45 non si riesce ad arrivare in 18 anni al 100 necessario. Dunque si formano agri deserti e la base produttiva si sfalda. Ma alla base, ripeto, vi era già l’insufficienza della forza lavoro.
Quali esiti ebbe la barbarizzazione dell’esercito?
Non vi è dubbio che le mutate condizioni demografiche e l’estensione delle aree da controllare modificarono in profondità il modo romano di condurre una guerra e dunque la struttura dell’esercito. I due fattori si intrecciano: meno uomini disponibili e ampiezza dei confini da presidiare sempre più sottoposti a pressione esterna, costrinsero Roma non solo ad arruolare sempre più uomini provenienti da aree totalmente barbare e refrattari alla disciplina militum dell’esercito ma ad adottare tattiche diverse e potenziare il ruolo della cavalleria. Qui si annida un equivoco: il fatto che la fanteria romana avesse guadagnato la stessa antonomasia dell’estrema efficacia in battaglia non significa che Roma avesse vinto sempre con la fanteria. Questa è una sciocchezza. La cavalleria svolse sempre un ruolo di grandissima importanza ed aveva regole, usi, disciplina etc. tipicamente latini. Il punto è che se si deve utilizzare fanteria di origine e nazionalità barbare la si deve usare in un certo modo; di più: se la si deve spostare rapidamente da un fronte all’altro non la si può gestire come prima del secolo III. Pertanto la barbarizzazione dell’esercito, se la vogliamo chiamare così (e ci può stare) non è una causa ma un effetto.
Come si giunse alla latifondizzazione dell’agricoltura romana?
“Come” vi si giunse è semplice, vale a dire attraverso la combinazione di tre processi: l’ampliamento delle disponibilità economiche dei senatori/proprietari terrieri accoppiata all’impoverimento del fondo tipico latino gestito dalla famiglia mononucleare e la crescita di disponibilità della manodopera servile. Quando scese la disponibilità di manodopera servile e si mostrò più conveniente la formula del colonato, i latifondisti cambiarono formalmente veste. Il “perché” invece i tre fattori entrarono in gioco, è ovviamente un altro discorso la cui trattazione coincide con il mio l’intero mio lavoro al quale modestamente sono costretto a rinviare.
In che modo il Cristianesimo influì sul declino del sistema?
Nel caso della fine dell’impero domano d’occidente se si parla di “influenza” del Cristianesimo (mi si chiede: “In che modo il Cristianesimo influì..”) si deve parlare di influenza positiva, nel senso che la diffusione del Cristianesimo costituì un fattore di coesione sociale e di miglioramento delle condizioni generali; i Cristiani pagavano le tasse e non commettevano abusi o illeciti. I Cristiani non limitavano le nascite e frenavano la crisi demografica, inoltre essi adempievano lealmente agli obblighi militari; certe volte lo facevano meglio dei pagani come dimostrano le vittorie di Costantino. In Oriente, per inciso, il Cristianesimo costituì per mille anni l’ossatura sociale e religiosa dell’impero poi chiamato “bizantino”. La leggenda dei Cristiani che avessero causato, non si sa bene perché, dei danni all’impero deriva da Gibbon e segue non una logica di investigazione storica ma il desiderio (legittimo, s’intende, ma in tal caso fuori luogo) di criticare comunque la cultura religiosa come elemento di forza o debolezza di un organismo statale. Ebbene, lo storico inglese ritenne di intravvedere nella diffusione del Cristianesimo un elemento di debolezza ma da lui non furono addotti argomenti veramente convincenti, sempre tenendo presente che l’impero d’oriente, un impero cristiano, rimase in piedi come ho detto, altri 1000 anni.
Quali vicende dettero la “spallata” finale all’impero d’Occidente?
Questo è uno dei casi nei quali se invece a un elenco di domande mi trovassi all’interno di una intervista nel senso vero e proprio, chiederei al mio interlocutore (alias intervistatore) che cosa intende per “spallata”. Poiché tuttavia il termine, almeno per il mio vissuto culturale, richiama eventi bellici – e se non è questo l’intento di chi ha formulato la domanda me ne scuso – assumerò la valenza militare. La “spallata” è il disastro di Adrianopoli. Anche qui propongo questa risposta con la preghiera di focalizzare un aspetto: non si tratta soltanto della sconfitta della leggendaria fanteria romana e non perché non era più “romana” come ai tempi di Marco Aurelio e meno che mai di Giulio Cesare ma perché non si trattava certo della prima volta anche se va sottolineato che le dimensioni dell’evento certamente furono molto eclatanti sul piano morale e psicologico. Il punto è che dopo le varie sconfitte vi furono sempre puntualmente vittorie eclatanti e decisive, dove la superiore organizzazione dell’esercito romano e (perché non dirlo?) il grande valore anche individuale dei soldati, ebbero sempre il sopravvento. Dopo Adrianopoli no, in quel senso la sconfitta della fanteria romana fu un evento tragico. Dopo, qualche vittoria certamente, alcune anche molto importanti come ai Campi Catalaunici o Pollenzo e Verona etc. ma si trattava di vittorie non risolutive. Adrianopoli fu dal mio punto di vista la “spallata” della quale mi si chiede, almeno spero. Tuttavia, poiché però nella domanda si adopera il plurale (“spallate”) ritengo importante, anche se meno di Adrianopoli, segnalare le decine di battaglie interne alle guerre civili. Alcune furono (parliamo sempre della parte finale della storia dell’impero d’occidente) molto più letali delle questioni limitanee; e la lista sarebbe lunghissima.
Pier Luigi D’Eredità è nato a Palermo nel 1952 e si è laureato in Filosofia nel 1977. Si è formato nell’area dell’ermeneutica storica, pubblicando su Marx, Hegel e Gadamer. Successivamente, dall’ermeneutica storica è passato poi all’area storico-economica al cui interno è stato uno dei curatori di uno studio sullo sviluppo economico dell’est europeo per il Ministero del Commercio con l’estero. Ha nel frattempo lavorato per varie Società come consulente strategico d’impresa. Come storico dello sviluppo economico ha pubblicato per la casa editrice Mimesis la Storia dello sviluppo economico medievale, il testo Lo sviluppo economico autodistruttivo e ora Regressvs. I motivi economici della fine dell’impero romano d’occidente. Ha inoltre pubblicato alcuni articoli di economia sulla rivista Scenari della quale è stato anche redattore, nonché un capitolo di storia economica del testo di Enrico Petris Margini del 68. Profeti e servizi segreti. È stato anche il curatore de l’Ascolto del Friuli e del Codice etico d’impresa. Vive a Colloredo di Monte Albano, in provincia di Udine, è sposato, ha due figli e due nipotini.