“Deus. Un’introduzione alle prime questioni della Somma teologica” di Paolo Fedrigotti

Prof. Paolo Fedrigotti, Lei è autore del libro Deus. Un’introduzione alle prime questioni della Somma teologica edito da Cantagalli: in che senso il magistero filosofico e teologico di Tommaso d’Aquino è attuale?
Deus. Un'introduzione alle prime questioni della Somma teologica, Paolo FedrigottiCredo che il magistero filosofico e teologico dell’Aquinate possa dirsi attuale perché sempre vero, almeno nella sua struttura essenziale. In particolare trovo che esso sia in grado di provocare il tempo che stiamo attraversando proprio attraverso il confronto con la dimensione della verità. Nessuno – sembra volerci dire Tommaso mediante le sue opere – può esimersi dal misurarsi con la verità. Non può farlo l’uomo; non può farlo neppure la filosofia: ponendosi come amore per la sapienza, tale disciplina è chiamata, per statuto e vocazione, a germogliare e svilupparsi nella luminosa compagnia del vero perché radicata sin dai primordi nel terreno buono del pensiero puro e dell’essere. Sbaglieremmo dunque se approcciassimo la verità come un quid in cui ci si possa imbattere, magari al termine di una strada o di un cammino. Essa va intesa diversamente: va concepita come lo spazio ontologico entro cui vivere e muoversi, come l’habitat nel quale ogni cosa risulta inserita per costituzione. Con una metafora mi sembra bello paragonare la verità ad un mare in cui ciascuno è immerso per il fatto stesso d’esistere e di pensare: un oceano nel quale è impossibile non nuotare. Occorre certo, per Tommaso, fare attenzione a dove si nuoti: in simili acque, infatti, non è lo stesso boccheggiare annaspando in superficie o immergersi trattenendo il fiato. Come si può solcare il mare della verità limitandosi a galleggiare e a lasciarsi sballottare dalle onde, così è lecito – ed auspicabile, aggiungo – puntare al suo fondale per spingersi giù, giù e ancora più giù, dato che quello di cui stiamo parlando è un bacino dalla profondità infinita. Ebbene, Tommaso ci mostra come attendendoci, la verità ci preceda, sempre, ponendosi tanto all’inizio quanto alla fine. Parimenti, penso che l’Angelico sia maestro nell’insegnarci l’umiltà che è opportuno mantenere innanzi al Mistero dell’essere. Chi tra noi – dato per assodato quanto abbiamo prima detto – potrebbe sostenere di possedere una conoscenza onnicomprensiva del vero? La risposta a quest’interrogativo non può che essere retorica, eppure quanta perspicacia e quanta lucidità servono – mi dico – per appropriarsi consapevolmente di tale scontatezza! Voglio rimadravi al fastidio suscitato nel contesto attuale dal solo uso del vocabolo verità. Ricorrere ad esso, oggi, è pericoloso oltre che impegnativo: chi ardisse a tanto dovrebbe rassegnarsi a passare per un intollerante, un facinoroso o un prevaricatore. Manco ci si accorge di come la verità, dal punto di vista metafisico, sia la dimensione più umile che esista. La più umile, sì! Lo sottolineo. La verità è semplicemente lo stato delle cose e dire la verità – come Tommaso dichiara, echeggiando Aristotele – altro non è che congiungere ciò che nella realtà è congiunto e disgiungere ciò che al suo interno è disgiunto. Fa specie doverlo rammentare ad un mondo sazio e disperato come il nostro in cui l’umiltà – avendo abbandonato inopinatamente l’organo dell’ambizione per insediarsi in quello della convinzione – ha finito per perdere ogni diritto di cittadinanza tramutandosi in miseria. Mi viene in mente un icastico passo di Ortodossia. «Ci si aspettava – leggiamo nella straordinaria e profetica opera di Gilbert Keith Chesterton – che l’uomo giungesse a nutrire dei dubbi su se stesso, non che arrivasse a dubitare della verità, ma la cosa, al momento, è stata completamente capovolta». È indiscutibile che la diagnosi chestertoniana colga nel segno. Per averne conferma basti centrare lo sguardo sull’imperversare delle due grandi ideologie che intridono fino al midollo la Weltanschauung dell’uomo postmoderno: il relativismo – cioè – che proclama «A ciascuno la sua verità» e lo storicismo il quale afferma «La verità muta col tempo». Sirene ingannevoli quelle a cui sto alludendo che, malgrado i proclami in difesa della dignità della persona e gli appelli a tutela della fedeltà dell’uomo alla terra, conducono alla distruzione della prima e al tradimento della seconda. Da un lato, quasi ci si trovasse in una novella Odissea, la Scilla del relativismo, mostro avverso ad ogni eteronomia, creatura incline ad azzerare le differenze tra valori e disvalori e a nientificare, senza darlo a vedere, la stessa libertà del soggetto. Dall’altro, la Cariddi dello storicismo, gorgo infernale propenso a ridurre la verità a dimensione puramente storica e a coartare subdolamente i rapporti tra individui entro dinamiche legate a relazioni di costrizione o di seduzione, forme egualmente pericolose di violenza e sopraffazione.

Di cosa trattano le prime tredici questioni della Summa theologiae?
Le prime tredici questioni della Summa vanno a comporre il cosiddetto Tractatus De Deo e si configurano come un approccio, filosofico e teologico insieme, al Mistero di Dio. Misurarsi con il loro sviluppo equivale – come ho scritto in Deus – ad approcciare un orizzonte di senso luminosissimo, capace di iniziarci con la sua potenza alla sublime arte della contemplazione. Preservandoci dal naufragio nel mare dell’immediatezza, le pagine introduttive del capolavoro tommasiano non ci separano, come l’apparenza potrebbe far credere, dal reale, ma ci consentono di penetrarne la trama in profondità, fino a raggiungerne il Logos: la loro analisi, in grado di suscitare insieme la gioia dell’estasi e l’ebbrezza dell’elevazione spirituale, può essere metaforicamente paragonata all’attraversamento di una solenne cattedrale d’idee, dove tutto è ritmato da un preciso criterio architettonico. L’accesso a tale stupendo ed immaginifico complesso avviene mediante un maestoso portale rappresentato dal breve prologo e dalla prima quaestio, corposo ragguaglio epistemologico concernente la fisionomia della Sacra Doctrina. Di qui si può passare al meraviglioso nartece, misticamente individuabile nel trattato sull’esistenza di Dio. La terza e la quarta questione, riguardanti la semplicità dell’Ipsum esse per se subsistens e la sua perfezione, si pongono come la navata centrale della straordinaria costruzione innalzata da Tommaso. Procedendo sotto le sue ampie volte e apprendendo la cadenza seria e pensosa dell’ascesi, siamo condotti al transetto, sezione che, nelle chiese, incrocia la navata principale all’altezza del presbiterio per dare alla pianta dell’edificio sacro la forma di croce: nella sua imponenza tale struttura può essere senz’altro accostata alle questioni quinta e sesta, chiarificazioni teoretiche relative alla natura del bene in generale e alla bontà divina. Alzando lo sguardo verso l’alto, gli occhi dell’intelletto possono posarsi sulla magnifica crociera centrale della settima e dell’ottava questione, situazioni speculative concentrate sull’infinità di Dio e sulla presenza dell’Assoluto nelle cose. Il coro, dislocato tra la navata e la zona retrostante l’altare, si presta a raffigurare allegoricamente le quaestiones nona, decima e undicesima, frazioni dedicate rispettivamente all’immutabilità di Dio, alla sua eternità e alla sua unità. Le ultime questioni oggetto della nostra attenzione – quelle che trattano della nostra conoscenza di Dio e dei nomi divini – rimandano finalmente ad un pregevole claristorio, la cui traforazione permette al bagliore della luce di rischiarare l’interno dell’etereo edificio in tutta la sua ampiezza.

Quali sono i pilastri della filosofia tommasiana?
Rispondendo sinteticamente alla domanda, potremmo dire che essi siano individuabili nell’essere in quanto actus essendi (e in quanto dimensione manifestantesi nelle nature generiche, specifiche e individuali dei singoli esistenti) e nella visione che, in ottica realista, designa l’intelletto come facoltà dell’essere. L’essere – non una sua rappresentazione – è l’oggetto proprio della nostra conoscenza, il vivente pane di cui essa si nutre – direbbe Maritain – e, al tempo stesso, il chiarore che ne illumina l’esercizio. Sostenere che la conoscenza consista nel cogliere le cose così come sono, non vuol certo reputare che essa possa cogliere compiutamente ogni ente così com’è né che possa esaurire in un solo atto il contenuto del proprio oggetto: ciò che la conoscenza afferra del suo oggetto è reale sebbene la sua realtà sia, per noi, impossibile da sondare in tutto il suo spessore; quand’anche l’intelletto ne avesse saputo cogliere le possibili sfaccettature – ammesso e non concesso che tale eventualità possa essere considerata plausibile – questi si scontrerebbe ancora con il mistero dell’esistenza stessa dell’oggetto. Chi ritiene di afferrare infallibilmente e con una sola intuizione tutta la realtà è l’idealista; il realista sa bene come questa pretesa – la pretesa di intuire i principi dell’essere e di lì di arrivare a conoscere la totalità delle cose – sia una posa filosofica rivelatrice di una presunzione infinita. Le virtù proprie del realista – quelle che animano l’impostazione di Tommaso e che penso debbano essere, più che ammirate, imitate – sono per contro la moderazione, che lo porta e ci porta a soppesare equilibratamente e lucidamente possibilità e limiti della propria conoscenza, e il rispetto per ciò che è così com’è. Possiamo senz’altro dire che, in forza di tale rispetto, la filosofia tommasiana sia capace di dare equilibrio all’esercizio della nostra intelligenza speculativa e pratica, aiutandoci a vivere in modo veramente confacente alla nostra natura, con i piedi ben piantati per terra, cioè, e con gli occhi orientati al cielo. Per l’essere umano – e soprattutto per l’uomo del terzo millennio – tutto questo è più importante che non la lussureggiante proliferazione delle matematiche, delle fisiche o delle ingegnerie dei fenomeni e della tecnologia: a nulla giova infatti conquistare il mondo e perdere la dirittura della ragione e con essa il gusto del sapere più libero e più radicalmente regale, quello che permette l’ingresso alle altitudini della contemplazione, dove davvero l’intelligenza può respirare, guadagnando anagogicamente la cima delle cause.

In cosa consiste l’anagogia e di quale importanza è questa categoria per l’ascesa speculativa verso l’ordine di ciò che è primo?
Bè, confrontarsi con l’anagogia significa in qualche modo penetrare l’anima più intima della teologia di Tommaso. Parafrasando e fondendo tra loro alcune felici espressioni del Cardinal Giacomo Biffi e di p. Giuseppe Barzaghi Op, miei maestri e fondatori della Scuola di anagogia di cui mi onoro di far parte, potremmo parlare dell’anagogia come del puro esame della realtà in Cristo e, insieme, come della perfetta contemplazione della realtà di Cristo visto come il Primeggiante – desumo tale definizione dalla Lettera ai Colossesi – come colui, cioè, nel quale, per mezzo del quale e in vista del quale ogni ente creato – da sempre – è progettato e costituito. Pensare di poter osservare l’Intero a partire da un simile punto di vista sembrerebbe, di primo acchito, irragionevole. A ben vedere, la cosa si segnala come più che plausibile, almeno se si è intenzionati ad accostare il Cristianesimo e la teologia per ciò che realmente sono e pretendono di essere, ovvero Rivelazione definitiva che l’Eterno fa di sé in Cristo ed impronta della scienza divina in noi. Tali definizioni mostrano come la speculazione teologica sub ratione Dei – riprendo qui un’espressione di Tommaso – rappresenti l’unico modo realmente adeguato per avvicinare il Mistero Santo: se ci si limitasse d’altra parte a concepire il divino rifacendosi a presupposti meramente umani il Cristianesimo si risolverebbe in una semplice dottrina terrena, oppure – il che è poi lo stesso – si configurerebbe come comprensione psichica di ciò che invece ha densità pneumatica. La giustapposizione di queste dimensioni non solo è dogmaticamente legittima, è anche decisamente opportuna sul piano metafisico: recepirla significa conformarsi alla Singolarità dell’Agnello immolato fin dalla fondazione del mondo (così Cristo è descritto nel tredicesimo capitolo dell’Apocalisse) e, in parallelo, orientare il nostro sguardo all’orizzonte nel quale Dio si colloca: un al di là che non rinnega ma prolunga all’infinito la positività di tutto ciò che esiste; un al di là, ancora, che si manifesta come la sorgente e, insieme, il traguardo a cui tutti gli esistenti anelano.

Paolo Fedrigotti (Rovereto, 1981) si è laureato in filosofia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano con una tesi su Dante e la filosofia medioevale. Si è specializzato nell’insegnamento secondario presso la Ssis della Libera Università di Bolzano. Ha conseguito il baccellierato in Sacra Teologia presso lo Studio teologico accademico di Trento. È docente di storia della filosofia e di filosofia della conoscenza ed epistemologia all’Istituto teologico affiliato e all’Istituto di scienze religiose della medesima città. È membro della Scuola di Anagogia di Bologna e autore di numerosi articoli specialistici e monografie. Tra queste ricordiamo: La nottola e il sole. Nove lezioni di gnoseologia (2019), Aletheis dialogoi. Un’introduzione inattuale alla filosofia della conoscenza (2015).

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