
Nel libro viene descritto il cerimoniale di corte: quali riti prevedeva?
Invero nel libro mi sono limitato a dare alcuni cenni forse utili al lettore non specialista, essenzialmente per sottolineare la natura profondamente ritualizzata del potere bizantino. Per antica tradizione (già dai tempi di Costantino I nel IV secolo) si scorgeva nell’imperatore bizantino il “vicario di Cristo” in terra. E come l’universo era stato dotato dal suo Creatore di “un armonioso movimento”, così l’esercizio del potere doveva riprodurlo, “con ordine e misura … per la maggior gloria e maestà dell’Impero stesso”. Sono parole che leggiamo in uno dei più significativi testi a noi giunti dal mondo bizantino, ossia il Libro delle cerimonie, opera che – se non fu interamente scritta – quanto meno fu certamente commissionata dal figlio di Leone, ossia da Costantino VII Porfirogenito. Erano gli anni immediatamente successivi al 950. Non vi è aspetto della vita cerimoniale che non sia attentamente regolato nel Libro, con una precisione di linguaggio e una attenzione prescrittiva che ben danno l’idea della taxis, ossia di quell’”ordine” che è uno dei princìpi dominanti del mondo bizantino. Chi volesse provare a farsi un’idea di questo tempo ieratico e imperiale non dovrebbe limitarsi a studiare tutto quanto il Libro delle Cerimonie, di cui a cura di studiosi francesi è stata di recente prodotta una nuova edizione critica, integralmente tradotta e commentata in sei poderosi tomi; oltre che “conoscere” occorre anche sperimentare, “sentire”. Una traccia di questo tempo “altro” è ancora offerta dai tempi lunghissimi della tradizione liturgica ortodossa, che però ha perduto l’elemento imperiale di tradizione romana.
Quali forme assumeva la rappresentazione del potere imperiale?
La stessa capitale dell’impero bizantino era già di per sé una rappresentazione del potere imperiale, con il suo nome di Costantinopoli, “città di Costantino”, in cui riecheggiava la presenza del primo imperatore cristiano che elesse a sua sede operativa la preesistente Byzantion (Bisanzio). Costantinopoli era la Miklagård delle popolazioni nordiche, “la grande città” per antonomasia, e per gli slavi era Zargrad, la città dell’imperatore. Si trattò dell’unica vera metropoli del mondo cristiano medievale, in cui i monumenti di grande scala ereditati dalla tradizione tardoantica continuarono a esistere, a essere in uso, anziché venire ridotti a miniere di scavi per spolia di edificazione. Ciò accadeva grazie alla continuità del potere imperiale, di cui la città era vetrina. Era in primo luogo una vetrina la basilica giustinianea di Santa Sofia, decisiva per l’evoluzione in senso cristiano ortodosso della Russia; l’imperatore la raggiungeva nelle feste in base a un minuzioso protocollo processionale (descritto nel Libro delle Cerimonie) e in questo la devozione individuale si fondeva con ciò che potremmo definire il display d’apparato (con ciò che comportava in termini sensoriali: musiche, colori, profumi). Ma gli imperatori non si limitavano a utilizzare, onorandoli, i monumenti di un tempo: ne costruivano di nuovi. Per esempio si deve a Basilio I, padre di Leone, la Chiesa Nuova, il cui profilo, con quattro cupole “dorate” intorno a una cupola “dorata” centrale più alta, si impose poi nella tradizione ortodossa. Per restare in un periodo non troppo lontano da quello di Leone basterebbe ricordare anche il famoso trono imperiale citato da Liutprando di Cremona: un ingegnoso sistema meccanico consentiva agli addetti di alzare o abbassare il trono dell’imperatore durante le udienze che egli concedeva agli ambasciatori stranieri. Piegati nel gesto della prosternazione, ne derivavano una esperienza di inaccessibilità o di condiscendenza dell’imperatore che nel percorso mutava abito. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi ma per evitare l’aneddotica o l’oleografia potremmo ricordare che, soprattutto in epoca tardo antica e protobizantina, fu l’Ippodromo di Costantinopoli ad avere grande ruolo nella promozione del potere e della presenza imperiale. Una loggia collegava il Palazzo – detto “sacro”, in quanto imperiale – con l’Ippodromo e da quella loggia l’imperatore si palesava in occasione delle corse dei cocchi che erano anch’esse ritualizzate. In quelle occasioni poteva anche accadere che subisse contestazioni, come capitò allo stesso Giustiniano nel 532, all’esordio della famosa rivolta del Nika. Giustiniano peraltro seppe prendersi la sua vendetta pochi anni dopo, quando mise in scena nell’Ippodromo una rivisitazione dell’antico trionfo imperiale romano: in apparenza gli onori del trionfo venivano tributati al suo generale vittorioso, Belisario, ma in realtà fu la manifestazione del potere imperiale a rubare la scena. Il discorso potrebbe continuare a lungo, specie se si considera che non tutti gli imperatori bizantini furono stanziali nella capitale: alcuni di essi si palesarono volentieri anche nelle province. In oltre mille anni di storia, un po’ di differenza è il minimo che ci si possa aspettare.
Che rapporto esisteva tra la Chiesa e l’Impero a Bisanzio?
Ancora una volta, dobbiamo saper cogliere i segni della discontinuità, senza cadere in cliché facili, come quello del cosiddetto “cesaropapismo” (termine non bizantino!) ossia prevalenza del potere dell’imperatore rispetto a quello della Chiesa, con intervento diretto imperiale in questioni di teologia e di dottrina. Il problema è tanto più complesso quanto meno ci lascia sedurre dalle enunciazioni astratte in merito a chi debba prevalere nell’eterno braccio di ferro tra imperium e sacerdotium: il secondo, ovviamente, nella prospettiva del Papato, specie dopo il 476, quando cessa la presenza di un potere “civile” in Occidente; il primo invece in prospettiva bizantina, con un apice all’epoca di Giustiniano, quando iura et arma romani (dei romani di Costantinopoli: ma romani) tornano in Italia e ci restano per secoli. Bisogna dire che la debolezza militare bizantina in Occidente nel corso dell’VIII secolo, quando a Costantinopoli gli imperatori sposarono la causa dell’iconoclastia (poco sentita e comunque avversata in Occidente), contribuì ad allargare la distanza tra Bisanzio e Papato, la cui successiva attenzione per il regno franco è ben nota, con tutte le sue conseguenze. Bisanzio si concentrò nel corso del tempo sulla “sinergia” tra impero e patriarcato di Costantinopoli, ma restava ancora percepita l’idea di una communitas Christianorum: non a caso l’intervento del papa romano fu decisivo per risolvere la diatriba che opponeva Leone al patriarca di Costantinopoli in relazione al suo quarto matrimonio (dopo Teofano, rimase vedovo altre due volte), quello da cui nacque finalmente il già menzionato Costantino VII Porfirogenito, l’erede che Leone tanto attendeva per dare continuità alla sua dinastia. Poi però le cose sarebbero cambiate: la riforma della Chiesa occidentale pose il papa come guida e indirizzo dei poteri civili occidentali, e fu decisiva per il successo delle Crociate, dapprima incomprensibili o sospette a occhi bizantini e infine rovinose per Bisanzio (come dimostra la IV Crociata del 1204). Anche in un nadir del potere politico dell’imperatore bizantino come la fine del XIV secolo, il patriarca costantinopolitano Antonio scrisse al granduca di Russia Basilio I che “non è possibile per i cristiani avere una Chiesa e non avere un Impero. Chiesa e Impero sono strettamente uniti e formano una comunità e non è possibile che siano separati”. Sono accenti molto diversi da quelli occidentali.
Quali vicende segnarono il regno di Leone VI?
Il regno di Leone VI (886-912) fu caratterizzato da eventi più interni che esterni, anche perché Leone non fu un imperatore militare e non fu neanche un imperatore edificatore, diversissimo in questo dal padre Basilio I. Leone era stato istruito dal più grande intellettuale della sua epoca, il patriarca Fozio; giunto al potere assai giovane, fu essenzialmente un uomo di libri e di ricerche; compose un fitto corpus di testi, per lo più retorici e liturgici, e si prodigò per la rivisitazione del diritto bizantino, riconducendolo alla fonte giustinianea. Ma la sua vita non fu tranquilla. Il fratello Alessandro era coimperatore e fu coinvolto in alcune macchinazioni contro di lui; tanto più che Leone non riusciva ad assicurare continuità al suo potere con un figlio maschio. Né la prima moglie Teofano né la seconda Zoe (forse il suo “vero amore”) né la terza Eudocia gli diedero un erede che gli sopravvivesse. Si ritrovò per tre volte vedovo e quando pose gli occhi, pressoché quarantenne, su un’altra Zoe, gli risultò difficilissimo coronare con un matrimonio questa unione: che un vedovo giungesse a risposarsi tre volte era inaccettabile agli occhi della Chiesa. E però quell’unione inaccettabile era imperiale e “benedetta”, perché finalmente il figlio maschio c’era (il già menzionato Costantino VII). Vedete come la persistenza della tradizione giuridica diviene un ostacolo per lo stesso imperatore. La Chiesa, nella persona del patriarca, non riconobbe veramente mai il quarto matrimonio ma accolse il figlio. La continuità del potere dinastico era assicurata.
Che ruolo ebbero le sue mogli?
Al di là della forzatura esercitata dalla madre per la giovane parente Teofano e della passione personale di Leone per Zoe, le prime due mogli hanno anche il ruolo, voluto o meno, di cementare alleanze con stirpi di un certo rilievo. La terza e la quarta moglie sono invece libera espressione delle scelte dell’imperatore. Non si trovano tracce rilevanti della loro presenza nell’opera letteraria di Leone (del resto neanche Dante, più “moderno” di quattro secoli rispetto a Leone, parla mai della sua sposa Gemma Donati!), sì invece, almeno a tratti, in altre opere della letteratura bizantina. In particolare è la delicata Teofano, che negli ultimi anni della sua vita (quando era negletta da Leone) si votò a una severa ascesi, a lasciar traccia di sé, specie nella letteratura agiografica. Resta comunque che la vita di Leone è a tal punto marcata dalla contesa con la Chiesa in merito al quarto matrimonio che le quattro nozze (con relative mogli) di Leone costituiscono tutte insieme una questione storica, la questione della cosiddetta Tetragamia.
In che modo Teofano assurse alla gloria degli altari?
Le procedure di canonizzazione bizantine non hanno niente a che vedere con quelle gerarchiche del cattolicesimo romano, di cui anche recentemente abbiamo avuto esempi. Diciamo che esiste uno spartiacque storico, che è la realizzazione del Sinassario della Chiesa di Costantinopoli, opera anch’essa promossa dal figlio di Leone, ossia da Costantino VII, a metà del X secolo. In questo Sinassario, che costituisce una sorta di “olimpo” dei santi bizantini, Teofano è compresa ed è una santa “molto vicina” cronologicamente alla compilazione del testo. Ma è anche molto vicina in senso.. familiare e dinastico. Accogliere Teofano nel Sinassario significava in qualche modo e politicamente ridefinire se non “sbiancare” il controverso matrimonio di cui Costantino era il frutto: se lei “è una santa”, anche le quarte nozze di Leone divengono meno problematiche. Comunque non ci sarebbe stato nessun culto di Teofano se alla sua figura non si fossero accompagnati miracoli; e di questi miracoli ci parla una Vita agiografica composta a poca distanza dalla morte dell’imperatrice, che già definisce Teofano una santa taumaturga. Certo, sono tutti miracoli post mortem e compiuti nell’ambito della famiglia dell’anonimo autore: famiglia per ora senza nome, ma che aveva una certa distinzione a corte, così come una certa distinzione continuava ad avere la famiglia dei Martinakioi, da cui Teofano proveniva, e che probabilmente va scorta come la prima promotrice della santificazione della defunta; Leone doveva essere a conoscenza del testo e per il suo intento di “rifarsi una famiglia” questa presentazione di Teofano come santa era tutt’altro che sgradita. – Le vicende della storia poi, si sa, sono imperscrutabili: ma nell’attuale sede del Patriarcato di Costantinopoli a Istanbul – la chiesa di San Giorgio al Fanar, meta di pellegrinaggi da parte di devoti ortodossi specie balcanici – persiste una tomba con i resti mortali di Teofano. Per la sua commemorazione liturgica, a dicembre, si svolgono riti cui io stesso ho partecipato. Per ampi tratti della cerimonia ero l’unica presenza in chiesa, esclusi i celebranti. Tutto ciò non toglieva nulla alla intensità del rito, che tempra la resistenza e l’attenzione scavando nell’esperienza un tempo “altro” rispetto a quello comune.
Paolo Cesaretti insegna Civiltà bizantina e altre materie classiche presso l’Università di Bergamo. Di formazione storico-filologica, ha pubblicato edizioni critiche, testi di scavo, traduzioni commentate, monografie, articoli specialistici in Italia e all’estero. La tradizione filologica, l’agiografia, l’età di Giustiniano e il rapporto tra Bisanzio e l’Occidente sono tra i suoi principali temi di ricerca. Ha valorizzato la cultura classica e bizantina anche presso i non specialisti con biografie narrative – tradotte in varie lingue – e con opere di consultazione.