Con questa inquietante scena ha inizio Cecità, il romanzo dello scrittore portoghese e premio Nobel José Saramago.
Il conducente viene aiutato da un uomo all’apparenza gentile, che poi si rivela però un ladro e ruba la macchina al povero cieco. Poco dopo, tuttavia, anche il ladro stesso diventa cieco. Cieco diventa anche l’oculista da cui il primo cieco si reca per un consulto e, in modo tanto rapido quanto inspiegabile, questo terribile contagio si diffonde. I contagiati non presentano lesioni alla retina né altri segni oggettivi di malattia, ma non riescono più a vedere altro che una sorta di bianco impenetrabile, tanto che l’epidemia viene definita “male bianco”.
“La cecità stava dilagando, non come una marea repentina che tutto inondasse e spingesse avanti, ma come un’infiltrazione insidiosa di mille e uno rigagnoli inquietanti che, dopo aver inzuppato lentamente la terra, all’improvviso la sommergono completamente.” A mano a mano che il contagio dilaga, il governo inizia a prendere provvedimenti per cercare di arginarlo. I malati vengono rinchiusi in un manicomio in disuso alla periferia della città. Vi vengono condotti anche l’oculista e la moglie; quest’ultima si è dichiarata malata per poter rimanere con il marito anche se, inspiegabilmente, non ha contratto la cecità e ne rimarrà sempre immune.
Con l’aumento del numero dei ciechi la situazione nel manicomio diventa sempre meno gestibile. Il cibo inizia a scarseggiare, così che un gruppo di ciechi malvagi sfrutta questa carenza per soverchiare i più deboli; le guardie diventano sempre più violente e la sporcizia dilaga. Anche le notizie che arrivano dall’esterno sono sempre più fosche: si susseguono incidenti stradali e aerei, i negozi vengono saccheggiati, i morti rimangono insepolti. La moglie del dottore, forte dell’aver mantenuto la vista, diventa riferimento e guida per gli altri, che le si affidano completamente: “Li guardò con gli occhi pieni di lacrime, erano tutti lì, dipendevano da lei come i piccini dipendono dalla mamma, Se gli manco io, pensò”.
Nel manicomio ha intanto luogo una battaglia tra due bande di guerrieri ciechi, durante la quale divampa un incendio. Poiché le guardie, che nel frattempo sono fuggite, hanno lasciato i cancelli aperti, il dottore, la moglie, e un gruppo di sopravvissuti riescono a fuggire e a recarsi in città. Quella che si trovano davanti, e che la donna – l’unica che ha conservato la vista – riesce a cogliere appieno, mentre gli altri possono solo intuire, è una città devastata, collassata e sommersa dalla sporcizia.
La società è completamente franata e nulla funziona più. Non esiste nemmeno più acqua corrente, cosicché l’unico desiderio dei sopravvissuti rimane quello di riuscire in qualche modo a lavarsi, evitando di cedere al sudiciume e in questo modo rinunciare del tutto alla propria dignità di uomini. Quando finalmente scoppia una pioggia torrenziale, tutti sciamano all’aperto, cercando di lavarsi e di strofinarsi a vicenda, in una sorta di purificazione. “Speriamo che non smetta, speriamo che non smetta di piovere”, mormora la moglie del dottore raccattando “tutto ciò che poteva servire per ripulire un po’, almeno un po’, questa sporcizia insopportabile dell’anima. Del corpo, disse, come per correggere il metafisico pensiero, poi aggiunse, è lo stesso. Allora, come se solo quella dovesse essere l’inevitabile conclusione, l’armoniosa conciliazione tra ciò che aveva detto e ciò che aveva pensato, di colpo si sfilò il grembiule bagnato, e, nuda, ricevendo sul corpo ora la carezza, ora la frustata della pioggia, si mise a lavare i panni, e, insieme, se stessa”.
Il romanzo si conclude con il dottore, la moglie e alcuni altri superstiti che riescono in qualche modo da sopravvivere nel vecchio appartamento del dottore, condividendo le poche risorse disponibili e aiutandosi l’un l’altro: un piccolo e fragile residuo di civiltà in mezzo alla totale devastazione che regna nel resto del mondo. Del resto, “cecità è vivere in un mondo dove non vi sia più speranza”.
In tutto il romanzo non viene mai svelata la ragione dello scoppio dell’epidemia. Si può pensare che, più che a una causa fisica, essa vada correlata a qualche mancanza morale, oppure che la cecità sia in realtà il non essere in grado di vedere. Nelle ultime pagine del libro, mentre il male bianco lentamente si va attenuando, la moglie del medico propone una risposta: “Perché siamo diventati ciechi, Non lo so, forse un giorno si arriverà a conoscerne la ragione, Vuoi che ti dica cosa penso, Parla, Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono.”
Destabilizzante e intenso, il libro getta il lettore nell’incubo di dover affrontare la perdita della vista, il senso considerato più affidabile, perdita che porta con sé libertà e rischi che derivano dalla possibilità per ciascuno di fare ciò che vuole senza temere giudizi. Con la catastrofe collettiva della cecità totale affiora la vera natura dell’uomo, in positivo e in negativo, e Saramago ne svela ogni aspetto, dalla lealtà alla codardia, dall’amore alla paura, dalla violenza al coraggio.
Silvia Maina