“Costantinopoli” di Enrico Zanini

Prof. Enrico Zanini, Lei è autore del libro Costantinopoli, edito da Carocci: perché è possibile affermare che Costantinopoli rappresenta il miglior paradigma contemporaneo di “luogo dell’archeologia”?
Costantinopoli, Enrico ZaniniL’archeologia è una disciplina che si occupa di passato, ma che è fatta dalle persone del presente. Siamo noi, oggi, che decidiamo quali aspetti del passato ci interessano: cento anni fa il passato coincideva quasi univocamente con le opere d’arte dell’antichità classica, con il mondo affascinante e “oscuro” della preistoria oppure con le esotiche civiltà orientali, come quella egizia. Cinquanta anni fa la pensavamo diversamente e nel nostro campo di interessi era entrata anche la vita quotidiana e volevamo sapere come si viveva nel mondo antico, ma anche in quello medievale. Più di recente ci siamo interrogati a lungo sulle aree di confine tra le diverse grandi partizioni storiche (mondo romano, mondo medievale) e geografiche (Grecia, Roma, Europa, Vicino Oriente). Oggi ci interessa molto, invece, il rapporto quotidiano di noi uomini e donne (e anche bambini, anziani, diversamente abili ecc.) con il passato: quello collettivo della grande Storia e quello personale con le nostre tante piccole storie.

Ecco, un “luogo dell’archeologia” non è tanto un sito archeologico, cioè un luogo particolare di un paesaggio in cui noi andiamo a incontrare direttamente il nostro passato, quanto un luogo dove il passato e il contemporaneo entrano in contatto tra loro in molti modi: qualche volta ostacolandosi tra loro, come accade per esempio nei centri storici delle città a lunga continuità di vita; qualche altra volta trovando un modo di convivere e in questo rendendo più ricca e piacevole la nostra esperienza quotidiana.

In questa prospettiva, Costantinopoli – allo stesso modo di Roma – è un luogo dell’archeologia molto privilegiato, perché ci permette di analizzare il rapporto tra contemporaneità e passato a partire da un osservatorio davvero straordinario, quello di una città su cui si sono stratificate tre esperienze urbane (Bisanzio, Costantinopoli, Istanbul), ciascuna delle quali ha una sua dimensione storica specifica, ma che tutte insieme hanno contribuito a costruire un palinsesto eccezionalmente complesso. Ed è con questa complessità che ci dobbiamo confrontare noi oggi: quella di un sito ad altissima densità di resti archeologici sepolti, con cui occorre fare i conti al momento di progettare e realizzare le infrastrutture indispensabili per una megalopoli europea dei nostri giorni; quella di un grandissimo attrattore turistico, con la necessità di interpretare e progettare i suoi spazi monumentali per gestire l’enorme flusso di visitatori; quella di una città multiculturale, nella cui storia convivono molti temi diversi, a partire dal rapporto tra le grandi religioni monoteiste (cristianesimo e islamismo), che devono essere gestiti con molta attenzione, come dimostra ad evidenza il caso della Santa Sofia, che è al tempo stesso una chiesa, una moschea, un museo e un pezzo importante del patrimonio culturale dell’umanità.

Insomma, occuparsi di Costantinopoli significa occuparsi sì di archeologia, di storia e di arte, ma anche di molte altre cose che ci riguardano come persone della nostra contemporaneità.

Quali sono i limiti cronologici e topografici della Sua indagine?
Quando ci si occupa di un insediamento umano del passato – ma anche della nostra contemporaneità – ci si pone sempre il problema del suo limite fisico. Apparentemente la questione si risolve facilmente: una città finisce dove finiscono gli spazi edificati che la compongono. Ma questo vale solo se per città intendiamo lo spazio fisico occupato dai suoi edifici: una città ha poi un altro spazio, quello dell’area di lavoro delle persone che la abitano e quello dell’area di approvvigionamento delle derrate alimentari di cui ha quotidianamente bisogno. Il discorso si fa dunque complicato. Per fortuna, si fa per dire, un libro come questo è anche un prodotto editoriale e come ogni prodotto editoriale ha delle caratteristiche tecniche: avevo a disposizione 180 pagine e dovevo quindi scegliere che cosa farci entrare. Ho pensato che la soluzione migliore fosse quella di discutere della città racchiusa dalle mura costruite nella prima metà del V secolo d.C. e che rimasero il limite fisico della città edificata non solo fino alla conquista ottomana del 1453, ma ancora molto dopo. Ancora agli inizi degli anni ‘80 del secolo scorso, la linea delle mura era nettamente percepibile come demarcazione tra quel che stava dentro – la città – e quel che stava fuori, il suburbio e la campagna. Un po’ come accade oggi a Roma se si arriva dalla via Appia antica.

Anche la scelta dell’arco cronologico è stata un po’ obbligata: ho iniziato con la fondazione da parte di Costantino nel 324-330 d.C. e ho finito con la conquista ottomana del 1453. Ma siccome una città non inizia dal nulla e non finisce nel nulla, ho dedicato due brevi capitoli per raccontare rapidamente al lettore quel che c’era prima – anche se ne sappiamo davvero un po’ poco … – e come la città bizantina si sia poi progressivamente dissolta nella città ottomana. Questa seconda parte della vicenda è davvero straordinariamente interessante; ma ci sarebbero volute altre 180 pagine!

Come si è sviluppata la vicenda urbana di Costantino­poli?
La vicenda urbana di Costantinopoli è apparentemente lineare: Costantino decide di fondare una città sul sito dell’antica Bisanzio, ne reimpiega in parte le strutture e poi sviluppa la parte nuova del centro urbano occupando circa la metà della penisola sulla cui estremità sorgeva la città antica. La fase di costruzione della città si sviluppa per un centinaio d’anni e alla fine di questo periodo viene costruita la nuova cinta muraria, quella di Teodosio II, che durerà fino al 1453. Da allora in poi, il territorio urbano rimarrà quello e l’intera partita si giocherà all’interno delle mura.

E qui le cose si complicano, perché, ovviamente, le diverse componenti fisiche di una città hanno tempi diversi: le grandi infrastrutture (strade, acquedotti, porti), una volta costruiti tendono a rimanere stabili nel panorama urbano; cambiano invece, e di molto, le componenti legate ai diversi periodi storici. Per esempio, nel libro cerco di mappare la distribuzione delle chiese nelle diverse epoche per provare a capire se possano essere degli indicatori della densità del popolamento e quindi quali fossero, nei diversi periodi, i quartieri più popolati, quelli preferiti dai ceti più abbienti e quelli invece densamente abitati dai ceti più popolari.

Ma su queste tre città: quella delle infrastrutture, quella dei monumenti e quella delle persone, nel caso di Costantinopoli ne insiste anche una quarta, ovvero la città dell’imperatore. Costantinopoli fu infatti per oltre un millennio il palcoscenico in cui la massima concentrazione del potere nel Mediterraneo post-romano doveva trovare il modo di manifestarsi, tutti i giorni nei confronti della popolazione urbana e a cadenze regolari nei confronti degli ambasciatori delle altre grandi monarchie. Da questo punto di vista, Costantinopoli fu sempre anche una gigantesca macchina scenica, dove cortei, processioni, celebrazioni pubbliche e cerimonie destinate a pochi eletti costruivano un complicato sistema comunicativo che ricordava in ogni momento a tutti chi fosse l’imperatore regnante, in quale tradizione si collocasse e quale fosse in definitiva il suo posto nel mondo.

Quali fonti consentono di ricostruire l’immagine complessiva della topografia urbana costantinopolitana?
A differenza di quanto accade per esempio per Roma, a proposito della quale le fonti scritte relative all’epoca altomedievale sono davvero scarse, per Costantinopoli la situazione è molto diversa. Per i primi secoli di vita della città, dalla fondazione fino alla metà del VI secolo, possiamo contare su alcune fonti straordinarie: la Notitia Urbis Constantinopolitanae, redatta nella prima metà del V secolo, che elenca partitamente, per ciascuna delle 14 “regioni” in cui era suddivisa la città, i principali monumenti, il numero delle residenze e quello dei principali servizi (bagni pubblici, forni, rivendite di pane ecc.); il De Aedificiis di Procopio di Cesarea, nel cui primo libro lo storico di corte di Giustiniano descrive nei dettagli tutti i monumenti fatti erigere dal suo datore di lavoro, ovviamente esaltandone la magnificenza. Poi le cose si complicano un po’ e i secoli dal VII al IX sono spesso descritti come “bui”: in realtà non lo sono più di tanto, perché qualche cosa abbiamo e si tratta di saper interpretare testi a volte molto complessi. La situazione ritorna più rosea in età mediobizantina: nel X secolo è addirittura un imperatore, Costantino VII Porfirogenito, a raccontarci in prima persona luoghi e forme del cerimoniale di corte, in un’opera intitolata appunto De cerimoniis aulae byzantinae, ovvero Le cerimonie della corte bizantina. Peccato, però che sia scritto da un imperatore, che conosceva perfettamente i luoghi, e destinato a funzionari, che quei luoghi li conoscevano altrettanto bene: quindi sappiamo nel dettaglio come si chiamavano quasi tutte le stanze del Grande Palazzo imperiale, ma non sappiamo quasi nulla di come erano fatte, perché non c’era alcun motivo di scriverlo in un manuale di corte. In generale, però, ripeto, abbiamo davvero molto materiale scritto per lavorare e ci sono stati e ci sono grandi specialisti che da quel materiale hanno tratto un quadro molto ben dettagliato della città – o meglio, delle diverse città che in essa convivevano – nei lunghi secoli della sua storia.

Quali tracce conserva, della città antica e bizantina, l’Istanbul contemporanea?
È quasi un mantra quello di iniziare ogni trattazione archeologica su Costantinopoli dicendo che della capitale dell’impero bizantino conosciamo poco o nulla dal punto di vista archeologico. Questo è da un lato certamente vero, perché a Istanbul, fino ad anni assai recenti, non c’è stato un credibile progetto di archeologia urbana, ma è anche in parte falso: le tracce della città bizantina sono disperse nella città attuale, ma sono pronte a tornare alla luce non appena qualcuno apre una smagliatura nel tessuto urbano fittissimo della città contemporanea. È successo negli anni ‘60 del secolo scorso con gli scavi della chiesa di San Polieucto nel quartiere di Saraçhane e ancor prima con gli scavi degli anni ‘20 e ‘30 nelle aree devastate dal grande incendio nella piazza dell’Ippodromo. Ed è successo nuovamente – e in maniera straordinariamente spettacolare – a partire dai primi anni Duemila, con lo scavo del porto di Teodosio I, in connessione con la realizzazione del nuovo tunnel ferroviario sotto il Bosforo.

Possiamo dire che quello della conoscenza archeologica della Costantinopoli bizantina è un puzzle di molte decine di migliaia di pezzi dei quali ce ne sono arrivati solo forse qualche centinaio; ma basta esaminarli attentamente e collegarli tra loro da un lato con l’ausilio delle fonti extra-archeologiche e dall’altro con le nostre idee contemporanee sulla città antica e post-antica per dare loro un senso un po’ più compiuto. È un gioco complicato, ma molto divertente. È con questa idea in testa che mi sono messo a scrivere un libro che, apparentemente, non si poteva scrivere: la scommessa di far stare in 180 pagine una immagine comprensibile di una cosa così complessa.

Come convivono sito archeologico e città contemporanea?
Ne parlavamo poco fa. In tutte le città storiche a lunga continuità di vita il passato e il contemporaneo convivono necessariamente tra loro in una relazione problematica. È il grande tema dei nostri giorni: come garantire lo sviluppo urbano senza pregiudicare la conoscenza e – quando è possibile – la conservazione e la valorizzazione delle testimonianze del passato. A Istanbul, nel corso dell’ultimo secolo, hanno compiuto diversi esperimenti in questo senso: per molti versi, possiamo dire che quella che noi oggi chiamiamo archeologia urbana è nata anche lì. Oggi i problemi sono grandissimi: Istanbul è una megalopoli sterminata di oltre 5.000 kmq, dove vivono oltre 16 milioni di abitanti; il suo centro monumentale – l’area intorno alla Santa Sofia, alla Moschea Blu e alla piazza dell’Ippodromo – è visitato ogni giorno da decina di migliaia di turisti; molte delle sue cisterne sono state riutilizzate come ristoranti o negozi. Al tempo stesso, in ragione del mutare delle situazioni politiche, molte delle chiese bizantine, che dopo la laicizzazione della Turchia erano state trasformate in musei e rese quindi liberamente visitabili, sono state nuovamente convertite in moschee.

Per questo, per tornare alla vostra domanda iniziale, Istanbul è uno dei grandi luoghi dell’archeologia del nostro mondo e, al suo interno, la storia della città nella sua fase tardoantica e bizantina è straordinariamente interessante. È per questa ragione che i curatori della collana edita da Carocci hanno scelto di includerla nella serie ed è per lo stesso motivo che mi sono fatto convincere a scrivere il libro.

Ora, devo ammettere in tutta sincerità di essere contento di averlo fatto: spetterà ai lettori dire se il gioco della narrazione è riuscito.

Enrico Zanini insegna Archeologia bizantina all’Università degli Studi di Siena e alla Scuola archeologica italiana di Atene

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