“L’umanesimo italiano da Petrarca a Valla” di Guido Cappelli

Prof. Guido Cappelli, Lei è autore del libro L’umanesimo italiano da Petrarca a Valla pubblicato da Carocci: qual è il ruolo di Petrarca nella nascita e diffusione dell’umanesimo?
L'umanesimo italiano da Petrarca a Valla, Guido CappelliIn effetti, questa è la domanda di partenza per qualsiasi indagine sull’umanesimo italiano. Determinare il ruolo di Petrarca incide sull’intera interpretazione del fenomeno nel “secolo lungo” a venire. In una prima approssimazione, si può dire che Petrarca è il padre dell’umanesimo, nel senso che ne ispira le direttrici fondamentali e influisce sull’attività intellettuale dei suoi successori, sia in modo diretto che indiretto, come si può vedere nel caso di Erasmo, che non pare aver letto direttamente Petrarca, ma – come ha dimostrato Francisco Rico – ne riecheggia alcune istanze fondamentali. Concretamente, quest’influsso si può osservare in varie manifestazioni. Petrarca è in buona misura l’iniziatore del moderno metodo filologico: anche se vi erano stati precedenti nel Medioevo carolingio e imperiale, è pioniere, per rigore e sistematicità, nella ricerca e nell’analisi dei testi classici, fondamentalmente latini: da Virgilio a Orazio, da Cicerone a Seneca ad Agostino, fino alla grande edizione “critica” delle Decadi di Tito Livio – un’impresa straordinaria per i tempi e per la giovane età dell’autore. In lui confluiscono, alimentandosi a vicenda, la vena della miglior poesia lirica italiana – origine del “codice” lirico che inondò l’Europa fino al Seicento e innalzò la lingua italiana – e quella della più avvertita erudizione classica, già orientata verso la storia e la filosofia morale: ad hominem e ad vitam, per dirla col poeta. Anche questa, un’eredità di sapere che fiorirà in tutto l’Occidente – a cominciare dalla connessione, più ideale che letterale – tra Petrarca ed Erasmo.

Come nasce e si sviluppa lo studio del greco in Italia?
Gli studi greci erano sostanzialmente scomparsi in Occidente da quasi mille anni. Il Medioevo non conosce il greco: «grecum est, non legitur», scrivono gli amanuensi latini. Petrarca per primo aveva intuito l’importanza del recupero della cultura greca, la fonte originale della civiltà occidentale, ma la sua era rimasta un’aspirazione insoddisfatta, un anelito: come lui stesso ebbe a dire, fu costretto ad abbracciare il suo prezioso codice di Omero, per lui “muto”.

Il merito di aver riportato il greco in Occidente spetta alla generazione successiva, quella di Coluccio Salutati e dei suoi straordinari allievi. La Repubblica si fece carico dello stipendio di Manuele Crisolora, un diplomatico bizantino che divenne il primo professore di greco pagato da un’istituzione pubblica. Il pur breve magistero di Crisolora (che proseguì a Roma e a Milano, dove, aiutato da un umanista locale, tradusse la Repubblica di Platone) diede frutti abbondanti, a cominciare dal grande programma di traduzioni da Aristotele etico e politico e da Platone ad opera di Leonardo Bruni, continuando con le innumerevoli versioni, da parte di altrettanti umanisti, dai più svariati autori, tra cui si segnalano (oltre i due grandi filosofi) Plutarco, Senofonte o Tucidide (con la meritoria traduzione del Valla). Come argomentò Bruni nelle sue prefazioni (e con il De interpretatione recta), si trattava di sottrarre al “gergo” della Scolastica, ignorante e proterva, il linguaggio della filosofia, soprattutto politica e morale, quando non anche – come in Valla – della Metafisica e direttamente della Teologia.

In un’ottica meno “bellicosa” e più incline a una ricerca “contemplativa”, si colloca l’opera di Marsilio Ficino, il vero introduttore di Platone nella cultura europea, con le sue squisite versioni latine e la sua Theologia platonica, dove afferma un neoplatonismo dai tratti originali, studiato dal Kristeller.

Nel mezzo c’era stato il Concilio di Unione delle Chiese di Occidente e di Oriente, il progetto (dai tratti utopici e destinato al fallimento) di riunificazione della Cristianità. Un evento di impressionanti proporzioni, celebratosi a Firenze, cui prese parte, direttamente o indirettamente, il fior fiore dell’intellettualità umanistica, da Ambrogio Traversari, il monaco camaldolese “illuminato”, al curiale Biondo Flavio, fino allo stesso Valla, e che mise in moto un’ondata di interesse per il (e di dibattitto intorno al) greco, grazie anche al carisma della figura di Giorgio Gemisto, detto Pletone, il bizzarro “alter Plato”, il vegliardo cripto-pagano che incantava gli umanisti riuniti a Firenze con le sue teorie sincretiste a base platonica e misterica.

Attraverso le raffinate ricerche di Poliziano ed Ermolao Barbaro, infine, il greco entra nei cromosomi della cultura occidentale, passa alle grandi scuole europee, in primis la francese e la fiamminga, con personaggi della statura di Erasmo e Budé, e in questo modo si manifesta come un fattore chiave dell’avvento della Modernità.

Quali caratteri distintivi si possono riscontrare nell’umanesimo a Firenze, Venezia, Roma, Milano e Napoli?
Questa domanda presupporrebbe descrivere l’intera fisionomia dell’umanesimo italiano, perché si tratta di un fenomeno italiano, nazionale, ma al tempo stesso possiede una certa articolazione, una specificità legata ai singoli territori. Si può dire che i primi, piccoli nuclei di intellettuali già pienamente umanisti si formano a Padova, a Firenze, a Roma e in certa misura a Venezia, anche se Roma e Firenze hanno il ruolo di maggior rilievo. È un manipolo di studiosi laici, che si va ampliando nei primi decenni del Quattrocento con relativa rapidità. In Lombardia ha (contrariamente alla norma) radici universitarie, a Pavia, e poi decisamente cortesi, a Milano, con i Visconti e poi gli Sforza. Ancor più di matrice politica, voluto dall’alto, è l’umanesimo a Napoli, fenomeno “d’importazione”, frutto della politica culturale perseguita dal geniale Alfonso d’Aragona già prima di conquistare la città (1442), quando riuniva a Gaeta il Panormita e il Valla. Nella seconda metà del secolo, soprattutto tra gli anni sessanta e novanta, emergono con prepotenza diversi centri, maggiori e minori, saldamente connessi attraverso le carriere degli umanisti e gli scambi epistolari. I poli principali sono, da una parte, Firenze, con la riscoperta de neoplatonismo e le acutezze filologiche del Poliziano, e Roma, sempre vivace, sia allo Studio che alla corte papale, nonostante la brusca repressione del movimento umanistico paganeggiante di Pomponio Leto, spintosi forse un po’ troppo in là nell’ostentazione di forme di eterodossia paganeggiante. Dall’altra, le grandi corti signorili di Napoli e Milano, ormai autoctone e autonome. A Napoli, l’umanesimo ferrantino si esprime nelle opere del Pontano e della fiorente scuola cresciuta intorno a lui, fino al Sannazaro e oltre. A Milano, la corte ducale protegge figure come il Decembrio e il Filelfo e usa spregiudicatamente la cultura umanistica a fini politici e propagandistici. Così come, in altra temperie sociale e politica, a Venezia, dove l’umanesimo, nel segno della unanimitas, svolge una sua funzione di propaganda e supporto ideologico, attraverso una raffinata storiografia “di Stato” e una buona rete di scuole pubbliche e private.

Vi è poi, last but not least, una serie di vivaci “centri minori”, soprattutto al centro-nord, e soprattutto piccole corti signorili: dalla Rimini dei Malatesta (col meraviglioso Tempio progettato dall’Alberti) alla Urbino dei Montefeltro, passando per la Bologna dei Bentivoglio e, più ancora, la Ferrara estense, dove insegnò per tanti anni il grande Guarino veronese, il magister Italiae. Città fiorenti, piccoli Stati in cui si incrociano, si incontrano e si scontrano poeti, professori, rètori, oratori, diplomatici, in un intenso e fecondissimo scambio culturale che delinea un primo spazio culturale decisamente nazionale, italiano.

Questa dimensione nazionale è particolarmente percepibile nell’ambito della pedagogia. L’Umanesimo è, tra altre cose, una rivoluzione educativa, sul piano dei metodi dei testi e degli auctores. Maestri come il citato Guarino o Vittorino da Feltre, che a Mantova fonda una scuola chiamata Ca’ zoiosa (la casa gioiosa), introducono lo studio diretto dei testi classici al posto dei pesanti manuali medievali e concepiscono lo studio come ludus, attività gradevole e al tempo stesso formazione globale dell’individuo. La scuola umanistica è garanzia di promozione sociale, al di là delle classi di appartenenza (nella scuola di Vittorino, per es., le famiglie più agiate pagano la retta degli alunni meno abbienti). Questo aspetto “democratico” dell’umanesimo si osserva anche nella riforma della grafia: dalla scrittura gotica, di difficile lettura e adatta solo agli specialisti, a quella umanistica, ariosa, aperta e accessibile, come la cultura propugnata dall’umanesimo.

Qual è il ruolo e l’importanza di Leon Battista Alberti?
A parte Leonardo, che non può definirsi propriamente un umanista, Alberti è una della due incarnazioni dell’umanesimo a tutto tondo (l’altra è, come giustamente cogliete, Valla): egli incarna l’aspetto “multiforme”, onnicomprensivo – artistico e dottrinale, scientifico e letterario – dell’umanesimo. Una capacità di sperimentare senza limiti, una voracità intellettuale senza uguali, di cui Leon Battista è talmente cosciente da definire sé stesso “camaleonte”. La sua attività, in effetti, include la trattatistica scientifica (De pictura, Ludi mathematici, il fondamentale De re aedificatoria), la denuncia morale, instancabile nello smascherare e mettere a nudo le ipocrisie, i falli, le storture, gli inganni (Intercenales, Momus, Theogenius). Sul versante opposto, la pars construens della sua attività intellettuale, si collocano le grandi opere etico-politiche (inclusa l’economia) in volgare toscano: il celebre De familia, degli anni trenta, e il tardo De iciarchia, come a chiudere il cerchio di quasi mezzo secolo di riflessione. E al volgare Alberti, a differenza del Valla, aveva concesso molta attenzione, già dai tempi della sua Grammatichetta, il primo tentativo di strutturare una grammatica dell’italiano, e del cosiddetto Certame coronario, la gara di poesia (rimasta senza un vincitore, e dunque sostanzialmente fallita), che egli promosse a Firenze nel 1441, e che comunque rappresenta un segno della sopravvivenza di una linea “vernacola” nell’umanesimo, soprattutto toscano. Né va dimenticata anche l’attività “pratica” dell’Alberti architetto e progettista, con opere di assoluto rilievo come il Tempio malatestiano di Rimini o Santa Maria Novella a Firenze.

In che modo Lorenzo Valla contribuisce allo sviluppo del metodo filologico?
In Valla giungono a compimento quasi tutti i filoni dell’umanesimo come fenomeno intellettuale, erudito e filologico, ma anche filosofico. Valla aggredisce letteralmente la teologia nei suoi fondamenti epistemologici. Oppone una scienza a un’altra, fin a quel momento consolidata e prestigiosa. Il declino della Scolastica nel Quattrocento si deve, in effetti, più all’azione di Valla (e del migliore umanesimo) che a fattori endogeni. Tant’è che nel Cinquecento riprenderà vigorosa, in Italia e fuori (soprattutto in Spagna).

A differenza di Alberti – e in modo più sistematico e avanzato che in Bruni – Valla attacca la Scolastica in modo frontale, diretto, mettendone in questione la consistenza, linguistica prima ancora che filosofica, denunciandone la fragilità dei presupposti, l’apodissi degli assunti di base… Questo atteggiamento, se sul piano strettamente filosofico dà risultati originali, ancor oggi oggetto di esame e critica, su quello della polemica culturale e politica raggiunge vette difficili da eguagliare. Pensiamo alla maestosa Declamatio contro la Donazione di Costantino – il documento apocrifo con cui l’imperatore Costantino cedeva al papa l’Impero occidentale, il maggior falso della storia d’Occidente, che il filologo romano sviscera, sminuzza e rivolta come un calzino, fino a rivelarne, coi toni del grottesco e dell’invettiva, la realtà truffaldina, tra attacchi diretti al papa e sberleffi all’autore della goffa falsificazione.

Lorenzo Valla pagò la propria libertà di pensiero con violenti attacchi da vari fronti, sul piano professionale e su quello personale. Bartolomeo Facio a Napoli e Poggio Bracciolini a Roma, lo colpirono con violentissime Invectivae. Convocare i teologi del Regno di Napoli a pubblico dibattito su temi filosofico-religiosi della massima delicatezza gli costò un processo dell’Inquisizione, da cui la salvò solo l’intervento illuminato di Alfonso d’Aragona, che lo coprì con l’immunità dei suoi officiali. Alla fine – fallito anche, per troppo amore alla verità storica, il progetto di una Historia celebrativa del sovrano – lo raccoglierà a Roma, a condizione di limare sostanzialmente le sue asprezze, un altro grande umanista, divenuto papa: Niccolò V (Tommaso Parentucelli). Da allora, titolare di una cattedra di retorica, immerso (anche con qualche soddisfazione) nell’insegnamento e nel rapporto gli allievi, Valla si dedicherà quasi esclusivamente a rivedere le sue opere pregresse (e a difendersi dalle invettive), fin quando si ammalò e scomparve precocemente, a cinquantadue anni.

Ma non aveva mai abiurato. Aveva fatto in tempo, pochi mesi prima di morire, a leggere un’orazione solenne su Tommaso d’Aquino, davanti ai padri cardinali, che è un encomio paradossale, ambiguo, a tratti crudele del santo fondatore della Scolastica. Un vecchio cardinale lì presente non riuscì a trattenersi, ed esclamò: «È pazzo!». Illum insanire iudicavit.

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