
Il concetto di Umanesimo si definisce rapporto alla cultura medievale nei termini d’un profondo e consapevole rinnovamento. Dal canto suo il medioevo è tutt’altro che monolitico: soprattutto a partire dal XIII secolo si diffondono in Europa nuove istanze che pongono al centro la persona, l’individuo umano, e ne danno una nuova valutazione. È un processo che si svolge in tempi lunghi e che comporta l’elaborazione d’una nuova idea di individuo e di persona; percorso – ha osservato Marcel Mauss – che conduce dall’idea di persona in quanto uomo dotato di uno status sociale, alla nozione di uomo e di persona umana tout court, che vale di per sé, e in tempi più moderni alla valorizzazione dell’io e della sua intimità, a quella scoperta dell’uomo e del mondo su cui è incentrata l’interpretazione della civiltà rinascimentale di Burckhardt. Su una tale linea di sviluppo si possono collocare la Vita nova e il Decameron.
Sono gli umanisti che, guardando indietro alle generazioni precedenti, da un lato avvertono un distacco netto fra la cultura medievale e quella classica (gli autori della latinità e anche quelli della grecità): in un suo saggio sull’Umanesimo italiano (risalente a più di cinquant’anni or sono) Eugenio Garin ricordava che il Medioevo leggeva i classici, anche i greci, coltivava interessi naturalistici, non era affatto tenebroso e barbaro ma pieno di luci e di grandezza di pensiero: esso, dice Garin, si nutrì dell’antichità. D’altro lato è sempre più viva negli umanisti l’esigenza di qualcosa di nuovo, e quella novità (quasi paradossalmente) la trovavano nelle pagine degli autori antichi. Nella loro prospettiva la crisi del mondo classico aveva determinato una frattura profonda nella storia umana, e loro aspirazione ed intento era di riprendere le fila di un rapporto con gli antichi che si era interrotto. È in virtù di questa consapevolezza che gli umanisti inventano il concetto di Medioevo. Il recupero della classicità che implica l’affermarsi del principio d’imitazione. L’idea condivisa è che la letteratura degli antichi, così come la loro scultura, l’architettura, la filosofia e in genere tutte le manifestazioni della loro cultura, abbiano raggiunto una perfezione che i moderni non possono superare, e quindi debbono imitare.
Quali peculiarità possiede la parola scritta fra Tre e Quattrocento?
Fra Tre e Quattrocento si va definendo lo stretto legame che intercorre fra la forma verbale e la personalità individuale di chi scrive, e dunque un nuovo senso della personalità soggettiva e dell’autorialità. Certo siamo ancora lontani dall’idea della proprietà letteraria come la intendiamo noi, che si delinea in tempi ben più recenti: ciò che si va definendo è un rapporto fra la persona dell’autore ed il prodotto della sua scrittura. Precedentemente ciò che contava era la cosa, l’opera in sé, ciò che essa diceva, e non aveva tanto rilievo il chi la dicesse; ma a partire dai trovatori un accento sempre più forte viene posto sulla figura umana dell’autore, sulla sua soggettività individuale. La scrittura è considerata l’espressione di un’individualità psicologica ed umana in genere.
Questo atteggiamento nei confronti della scrittura può essere emblematicamente rappresentato nella costatazione della diversa conoscenza che abbiamo della grafia materiale dei tre massimi autori del Trecento, Dante Petrarca e Boccaccio. Di Dante non abbiamo alcun autografo, non ci è pervenuto nessuno scritto di suo pugno, neanche la sua firma. Di Petrarca abbiamo non solo la firma, ma anche abbozzi delle sue poesie e vari altri suoi scritti. Di Boccaccio ci è pervenuta la copia autografa del suo capolavoro, il Decameron.
In che modo le radici della cultura umanistica affondano nell’esegetica biblica tradizionale?
Un punto di partenza per il mio studio è stato la semplice constatazione che consultando i repertori degli incunaboli, in primo luogo l’IGI – Indice generale degli incunaboli posseduti dalle biblioteche italiane, emerge con evidenza che nella prima età tipografica (la seconda metà del Quattrocento) la maggior parte dei libri pubblicati a stampa era non in volgare ma in latino, e non di argomento profano, ma religioso e morale; inoltre fra le opere del passato date alle stampe quelle dei padri della Chiesa prevalevano sui classici dell’antichità. Bisogna tener presente che lo studio assiduo delle humanae litterae non entrava necessariamente in conflitto con le credenze religiose: gli umanisti di norma erano sinceramente credenti e non di rado degli ecclesiastici. Sarebbe arbitrario dedurre dal loro culto delle lettere antiche e dall’adozione come modelli degli scrittori della classicità che il loro fosse un cristianesimo di facciata, a copertura d’un paganesimo di fondo.
Il Quattrocento è il secolo del De dignitate et excellentia hominis di Giannozzo Manetti e del De falso credita Constantini donatione di Lorenzo Valla, ma è anche popolato da figure come Bernardino da Siena, che finì per stabilirsi all’Aquila perché lì trovava un terreno più favorevole che altrove alle sue tendenze rigoristiche in materia di religione e di morale; o come – esempio ancor più noto – Girolamo Savonarola, che predicava e trovava numerosi seguaci a Firenze, e non solo tra le classi popolari, in un momento per la città di massimo rigoglio della cultura umanistica, di cui era uno dei centri più importanti.
D’altronde non si può considerare il pensiero medievale come un blocco monolitico: il Medioevo si sviluppa per dei secoli e al suo interno s’intrecciano diverse correnti di pensiero. In particolare ho soffermato la mia attenzione sull’evolversi dell’esegesi biblica. Alla luce degli studi sull’argomento (in particolare quelli di Henry de Lubac e di Beril Smalley), mi è parso che si potesse rintracciare una linea di sviluppo che dal prevalere di un’esegesi che pone al centro i contenuti e i loro valori simbolici si evolve nel senso di un’esegesi che privilegia la lettera del testo. Si viene così a determinare un’attenzione alla superficie verbale del testo che è uno dei punti caratterizzanti dell’Umanesimo.
Quali conseguenze produce l’evoluzione della tecnica di produzione libraria dovuta all’invenzione della stampa tipografica?
La rivoluzione apportata nell’universo librario dall’introduzione della stampa tipografica è stata ampiamente studiata e illustrata. Diversamente dalla produzione manoscritta la stampa tipografica mette in circolazione libri in serie, con una molteplicità di esemplari d’una stessa opera virtualmente identici (dico virtualmente perché grazie agli studi della cosiddetta bibliografia testuale sappiamo che proprio identici non sono). Il testo a stampa tende ad acquisire una stabilità che nell’età pre-tipografica non poteva avere: la meccanicità del procedimento garantisce – o mira a garantire – per i libri a stampa la stabilità della lettera del testo, che si pone quindi come depositaria di valori autonomi che non sono semplicemente traduzione di contenuti preesistenti alla forma del discorso, ma che nel discorso si vanno definendo. Ciò comporta un’accentuazione del valore della lettera: se si cambia la superficie del testo si cambia il suo significato. Donde l’esigenza di testi stabili: l’Eneide esattamente come l’ha scritta Virgilio, le Catilinarie esattamente come le ha scritte Cicerone… La stampa tipografica viene incontro a questa esigenza di stabilità testuale in maniera esemplare. Tanto che viene da chiedersi se e in che misura la sua invenzione determini una nuova considerazione del testo e se ed in che misura l’esigenza di una stabilità testuale conduca a inventare nuovi procedimenti tecnici. In effetti tutti gli elementi del processo di produzione tipografica già esistevano. Ciò di nuovo che la stampa introduce è il modo di usarli. Figure e testi stampati esistevano già prima di Gutenberg: la sua innovazione, decisiva e che cambia le carte in tavola, è l’uso dei caratteri mobili.