“Per cercare lavoro. Donne e uomini dell’emigrazione italiana in Svizzera” di Paolo Barcella

Dott. Paolo Barcella, Lei è autore del libro Per cercare lavoro. Donne e uomini dell’emigrazione italiana in Svizzera edito da Donzelli: quale ruolo ha avuto l’emigrazione italiana in Svizzera?
Per cercare lavoro. Donne e uomini dell'emigrazione italiana in Svizzera, Paolo BarcellaPer rispondere a questa domanda occorre fare anzitutto una distinzione. Dal punto di vista italiano, la Svizzera ha rappresentato negli anni della «Golden Age» (1945-73) una delle principali mete di approdo per le centinaia di migliaia di lavoratrici e di lavoratori italiani che cercavano nell’emigrazione una soluzione alle loro difficoltà economiche, sociali, politiche, personali. Gli anni del dopoguerra sono stati infatti caratterizzati da un alto tasso di disoccupazione, con tutte le tensioni politiche e sociali che ne derivavano. L’emigrazione fu, anche dal punto di vista del governo e dei partiti italiani dell’epoca, una delle risposte a quel problema, almeno per il breve periodo. Tant’è vero che venne avviata la cosiddetta stagione degli «accordi bilaterali», ossia di quelle intese tra Stati finalizzate a regolare i flussi di manodopera migrante: alcuni Paesi firmavano da esportatori di manodopera, altri da importatori, definendo gli organi di competenza, le regole da seguire per gli aspiranti emigranti, condizioni di vita e molto altro. Già nei primi tre anni del dopoguerra l’Italia firmerà accordi con nove paesi, ponendosi nel ruolo di esportatore di manodopera. In questo quadro, vennero firmati anche gli accordi con la Svizzera del 1948, settant’anni fa esatti. Dal punto di vista svizzero, invece, le donne e gli uomini dell’emigrazione italiana sono stati per più di vent’anni il principale bacino di manodopera a basso costo per le imprese locali, al di là delle qualifiche e del livello di formazione dei singoli. Se guardiamo il fenomeno a livello aggregato, vediamo una tipologia di manodopera inserita nel mercato del lavoro svizzero principalmente in alcuni settori, impiegata per alcune mansioni particolari, sottoposta a un alto tasso di rotazione, derivante dalla natura temporanea dei contratti di lavoro e dai permessi di soggiorno stagionali o annuali con cui la maggioranza degli emigranti italiani entrava nella Confederazione.

Come erano considerati gli italiani emigrati in Svizzera?
Chi conosce i fenomeni migratori sa bene che di fronte alle migrazioni di massa si producono sempre forti conflitti tra la popolazione migrante e gli autoctoni: è un dato trasversale e irriducibile. E si tratta di conflitti che in parte sono legati agli atteggiamenti xenofobi e alle difficoltà nel rapportarsi con l’altro propri di molti essere umani, ma in parte dipendono dagli squilibri che inevitabilmente si creano in un ambiente quando si inseriscono migliaia di persone che prima non c’erano. In Svizzera, per esempio, migliaia di italiani arrivarono in comunità rurali-industriali per lavorare nelle fabbriche: le fabbriche li integravano molto rapidamente, dato che bastava assumerli e collocarli nella postazione dove avrebbero svolto la loro mansione, mentre le comunità in cui le fabbriche si trovavano non potevano essere altrettanto agili nell’integrarli, dal momento che le donne e gli uomini per vivere hanno bisogno di alloggio, servizi, eccetera. Uno dei problemi che si conobbero in molte zone della Svizzera fu proprio la carenza di alloggi, con l’aumento dei prezzi degli affitti. Gli italiani, per risparmiare, condividevano stanze e appartamenti, dando ai locali l’immagine di gente promiscua e alimentando stereotipi. Gli squilibri, poi, quando vengono poco o male governati, finiscono con il generare circoli viziosi di odio e pregiudizi. Anche in questo contesto, però, molti italiani riuscirono a dare di sé un’immagine diversa, conquistarono la stima e la fiducia dei loro vicini o dei loro datori di lavoro.

Come si articolò l’associazionismo degli emigrati?
Gli italiani in Svizzera giungevano da gastarbeiter, ovvero «lavoratori ospiti», e per qualche anno, fino a quando non avessero maturato gli anni di permanenza necessari per poter richiedere un permesso a tempo indeterminato, non avevano modo di integrarsi realmente nella società locale. Questo favoriva i raduni e le aggregazioni formali e informali di connazionali. Proprio questa caratteristica della politica migratoria svizzera è tra i fattori alla base della dimensione impressionante acquisita dal fenomeno associativo italiano. Nel dopoguerra le associazioni erano principalmente di tutela e autotutela, legate al mondo cattolico o al mondo politico-sindacale della sinistra italiana. Missioni cattoliche e Colonie libere si diffusero a centinaia, occupandosi sia di favorire l’aggregazione dei connazionali nel poco tempo libero che avevano a disposizione, sia di sostenerli nelle pratiche burocratiche, nelle attività che richiedevano un contatto con le autorità municipali o cantonali, laddove gli emigrati italiani non conoscevano in genere né le normative, né la lingua locale, perlomeno nei primi anni. Dagli anni Sessanta in poi, e soprattutto dopo il 1970, esplosero molte altre associazioni per il tempo libero, organizzate su base sportiva, regionale e altro ancora.

Come si manifestò la xenofobia elvetica nei confronti degli immigrati italiani?
La xenofobia si manifestava: nei conflitti che potevano esplodere anche per futili motivi tra ragazzi italiani e svizzeri; nella massiccia sorveglianza a cui italiani e italiane vennero sottoposti dalla polizia politica segreta elvetica che, sospettandoli di attività sovversiva e anti-patriottica, ne schedò decine di migliaia e condizionò la loro vita privata e professionale; nelle rappresentazioni stereotipate degli italiani, nel linguaggio discriminatorio e talvolta razzista con cui venivano descritti dalle persone o dai giornali. Arcinoto è il termine «cinkali», presente in Svizzera diverse varianti: il gioco di rappresentazioni e controrappresentazioni che si sviluppa attorno a questo termine è interessantissimo, perché permette di ragionare non solo sui conflitti che riguardavano gli italiani in Svizzera di quegli anni, ma sul più ampio sistema xenologico europeo, sul modo di immaginare «noi» e gli «altri»: dedico a questo aspetto diverse pagine nel libro, sviluppando dei ragionamenti soprattutto sulle scritture di immigrati italiani che descrivevano la propria condizione e la propria percezione di sé negli ambienti svizzeri che frequentavano. Gli anni d’oro della xenofobia anti-italiana furono tuttavia quelli delle iniziative Schwarzenbach, quando si sottopose al voto popolare proposte – sempre respinte – di riduzione drastica della presenza di immigrati nel paese.

A quali fonti ha attinto per la Sua ricerca?
Il libro è stato sviluppato lavorando su molta documentazione d’archivio, conservata nei luoghi istituzionali – dall’Archivio Centrale di Roma all’Archivio di Stato di Bellinzona –, ma si è dedicato spazio anche alle fonti orali e alle scritture di gente comune, ovvero agli scambi epistolari e ai temi scolastici scritti da giovani che frequentavano una scuola italiana nella Svizzera degli anni Sessanta e Settanta. Tali voci e racconti sono state materiale fondamentale per ricostruire le esperienze di vita, per cercare di accedere alla soggettività degli emigrati, per riflettere sulla loro percezione del mondo circostante, dei conflitti ma anche delle gioie che potevano vivere trovandosi lì. Faccio un esempio. Nella Svizzera del dopoguerra, per qualche anno, giunsero in maggioranza donne, impiegate in settori produttivi come il tessile, l’alberghiero, l’industria alimentare. Molte di loro erano sottoposte a orari di lavoro molto intensi, in qualche caso vivevano nei convitti gestiti da suore cattoliche. Eppure i loro resoconti dell’esperienza migratoria in Svizzera spesso non si concentrano sulle difficoltà, ma sono frequentemente positivi perché nell’emigrazione quelle donne vivevano un processo di emancipazione dagli ambienti familiari e comunitari d’origine, diventavano padrone delle loro vite, avevano un salario con cui mantenere se stesse e pezzi di famiglia, smarcandosi dalle forme del controllo sociale sul femminile tipico degli ambienti rurali patriarcali da cui provenivano. Un esempio si trova nello scritto di questa giovane italiana che raccontava cosa rappresentasse la città di Zurigo per lei: «Da quando sono venuta in questa città mi sento un’altra. Non sono più la solita ragazzina che porta i vestiti su le ginocchia. Anche se so di essere ancora una ragazzina mi considero ormai una ragazza adulta. Voi forse vi chiederete cosa centra questo con una esperienza. Bene, per me questa città è come una persona perché mi ha fatto cambiare idea sulla vita. Prima credevo fosse una cosa inutile che portasse solo dei dispiaceri. Ma quando ho visto questa gente ho cambiato idea. Sembrano sempre allegri e non si impicciano mai degli affari degli altri ed anche se vedono una ragazzina con la minigonna non la criticano, e non la guardano come se fosse una ragazza di strada».Questo e molti altri racconti sono presentati e commentati nel libro.

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