“L’atlante delle parole. Piccola guida per esploratori del linguaggio” di Diego Fontana

Dott. Diego Fontana, Lei è autore del libro L’atlante delle parole. Piccola guida per esploratori del linguaggio edito da Ediciclo: un avvincente e colto viaggio alle origini delle parole dell’italiano. Quali misteri e curiosità celano spesso le parole?
L'atlante delle parole. Piccola guida per esploratori del linguaggio, Diego FontanaPer prima cosa vorrei ringraziarla per l’attribuzione sulla fiducia del titolo di dottore, che nella realtà però non mi appartiene. Sono orgoglioso del mio percorso di studi, completato in una scuola-laboratorio che per diversi anni rappresentò un unicum in Italia, e che purtroppo ha terminato il suo ciclo qualche anno fa senza che mai il diploma conseguito potesse entrare tra le possibilità di equiparazione con percorsi di laurea. Si chiamava Università del Progetto e fu, tra le altre cose, una straordinaria occasione per esplorare il linguaggio e sperimentare con esso, sotto la guida di intellettuali come Paolo Albani, tra i fondatori della rivista letteraria Tèchne (oggi confluita in Nuova Tèchne) e del movimento Oplepo omologo all’Oulipo francese, e di Maria Sebregondi, autrice dell’Etimologiario che cito nel libro e oggi – tra le moltissime altre cose – presidente della fondazione Moleskine. Per rispondere alla domanda, direi che il mistero che si nasconde dietro a ogni singola parola mi ha sempre affascinato e incuriosito, sin dall’infanzia. Le parole sono come bauli antichi abbandonati in soffitta, o forse scrigni intarsiati e meravigliosi ritrovati tra gli averi di una qualche nonna. Sono già splendide se le prendiamo così come sono, senza farci troppe domande. Voglio dire: basta guardarle. Ma la serratura che celano – seminascosta negli interstizi tra le lettere di cui sono composte – è un’eterna promessa di avventura, un pungolo per la curiosità, un bisbiglio seducente che ci invita a trovare una chiave per entrare nella dimensione dell’oltre e iniziare un viaggio di scoperta che ci conduce sempre al di là delle soglie dell’ovvio, ci sorprende, ci meraviglia, ci offre nuove prospettive e ci arricchisce. Forse avere più consapevolezza delle parole che utilizziamo significa avere più consapevolezza dei pensieri che formuliamo.

In che modo lo studio dell’etimologia può favorire una maggiore comprensione della nostra lingua?
Frequento le vie dell’etimologia come un semplice esploratore della domenica, un vagabondo un po’ incosciente che ama perdersi tra dizionari, saggi, manuali e pagine del web. Lo faccio da quando ho ricordi e sin da bambino non sono mai riuscito ad accettare una nuova parola da imparare come fosse un dato di fatto. Ricordo quando alle elementari capitavo a casa di mio cugino: non c’era pomeriggio in cui non finissi per sfogliare almeno qualche pagina del tomo dell’enciclopedia I Quindici dedicato alle parole. Ricordo come fosse allora la copertina telata in beige: per me esercitava un fascino irresistibile e misterioso, che non sapevo spiegare nemmeno a me stesso. Crescendo, questa attenzione per la parola non mi ha mai abbandonato e ha influenzato anche la scelta della mia professione di copywriter che forse, come ha detto qualcuno, oggi consiste soprattutto nell’arte di scegliere quali parole evitare di scrivere. Mentirei se dicessi di sapere con precisione che tipo di consapevolezza implica l’impadronirsi di una etimologia. Per me è soprattutto un viaggio, un’avventura divertente e spesso sorprendente, che nasce quasi sempre dal bisogno semplice di soddisfare una curiosità. «Perché il granturco si chiama proprio così, se non viene per nulla dalla Turchia?» ti puoi chiedere per esempio un giorno, ed eccoti già proiettato in un viaggio entusiasmante, tortuoso e pieno zeppo di giravolte, che riconduce il granturco non tanto alla Turchia, quanto piuttosto al tacchino. Ma non dico di più, altrimenti il libro chi lo leggerà mai?

Quale affascinante storia racchiude l’etimologia della parola desiderio?
A San Lorenzo, quando affidiamo alle stelle cadenti i nostri desideri più intimi, in realtà stiamo compiendo un’operazione antica e piuttosto vicina al significato originario del termine desiderio. Sembra proprio che all’origine della parola vi siano le stelle: in latino sidera. De-siderare alluderebbe dunque – con quel de privativo – all’atto coraggioso e ammirevole di chi, non trovando alcuna stella conforme ai propri sentimenti, e avvertendo una mancanza nella realtà di cui può disporre, si mette in cammino alla ricerca di quella stella mancante, e cioè, in qualche modo, di se stesso. In questo senso il desiderio è vicino al concetto di vocazione personale, assimilabile forse a quello che le popolazioni hindi chiamano man. Desideriamo davvero, in pratica, non quando adattiamo le nostre aspirazioni a quanto la realtà ci propone, ma quando compiamo un percorso di ricerca dentro di noi per diventare quello che ci sentiamo chiamati a essere e non, per esempio, quello che i nostri genitori hanno predisposto da tempo per noi. Una ministra definì choosy gli italiani che non intendevano piegare le loro aspirazioni alle necessità del mercato del lavoro. Ma insomma, diceva la ministra, se il mercato ha tanto bisogno di tecnici, perché vi ostinate a fare studi umanistici? Ecco, chi ragiona in questo modo, chi cioè parte dal reale e adatta se stesso al contesto in cui si muove, non sta de-siderando ma, per l’appunto con-siderando: si muove in conformità a quello che la società ha predisposto per lui. Si muove in base alla configurazione delle stelle che vede nel proprio cielo. Chi invece si ostina a essere choosy, nonostante i ministri, i genitori, la scuola e tutte le pressioni sociali, chi cerca di adattare il mondo a se stesso e non se stesso al mondo, è colui che desidera. George Bernard Shaw scrisse in proposito: “L’uomo ragionevole adatta se stesso al mondo, quello irragionevole insiste nel cercare di adattare il mondo a se stesso. Così il progresso dipende dagli uomini irragionevoli”.

Cos’è l’enantiosemia?
L’enantiosemia è un fenomeno che caratterizza molte lingue, compresa quella italiana. Avviene quando una parola indica un concetto, ma finisce poi per alludere anche all’esatto opposto. Nel libro fornisco alcuni esempi, tra cui il noto caso del vocabolo storia, che se da un lato si riferisce a una trattazione fedele e oggettiva di fatti, dall’altro indica anche il contrario: quando per esempio diciamo a un amico di non raccontarci storie, intendiamo che temiamo ci stia dicendo frottole, vale a dire l’opposto perfetto di una trattazione oggettiva e fedele di fatti. Altri casi che possiamo citare qui rapidamente riguardano per esempio il verbo cacciare, che indica sia inseguire sia mettere in fuga, oppure il concetto stesso di ferie: sono vacanze quando la parola è usata come sostantivo, mentre diventano giorni lavorativi nell’aggettivo feriale. Curioso, non è vero?

Nessuno immaginerebbe poi che il contrario di diavolo sia simbolo
Suona destabilizzante, ma in un certo senso la parola simbolo sembrerebbe proprio il contrario più preciso e specifico della parola diavolo. Del resto non è difficile notarlo. Il verbo greco è bàllo per entrambi, che significa mettere. E se diavolo è costituito da dià-bàllo, simbolo è syn-bàllo. Dià lo ritroviamo in dialogo, diagonale, diametro, dialettica e allude sempre a un frapporsi tra due punti posti alla massima distanza. Il diavolo dunque come separatore, sobillatore: divide et impera, certo, ma anche di più. La ragione è diabolica nel senso che tiene ognuno di noi separato da se stesso, vale a dire dalle parti non razionali e più profonde di sé. Se mi penso come un animale esclusivamente razionale e mi convinco che la realtà sia tutta spiegabile con i principi della ragione, mi separo sempre più da quella parte intima, autentica, profonda di me che è antica e precedente alla razionalità: la dimensione del sogno, dell’immaginazione, della poesia dove tutto è, per l’appunto, simbolico. Syn indica il contrario di Dià: tenere insieme. Se la ragione diabolica separa questo da quello, il giusto dallo sbagliato, il vero dal falso, il simbolo ci dice al contrario che una cosa può sempre essere anche altro, proprio come avviene nei sogni o in poesia, dove il termine focolare può indicare contemporaneamente un punto della casa, ma anche – simbolicamente – il senso di famiglia. Diciamolo così: il diavolo separa, secondo i principi di identità e non contraddizione, il simbolo riunisce attraverso analogie, metafore, allegorie.

Tra gli aneddoti, i miti e le leggende da Lei raccontati nel libro, quali ritiene più affascinanti?
Forse il racconto che personalmente trovo più affascinante è quello relativo alla parola balena. Dalla costola conservata nel duomo di Modena, sino alle mitologie di diverse popolazioni, mettersi in viaggio sulle tracce di questo vocabolo ci porta a navigare tra pagine di letteratura, vangeli, bestiari medievali e antichi ricordi d’infanzia, quando mi convinsi che il termine non poteva che provenire da «balla». Forse persino il verbo balenare discende da una costola di balena, anche se potrebbe trattarsi di una falsa pista.

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