
Margaret Mazzantini ce la fa. Sette anni dopo il successo di Non ti muovere (Premio Strega 2002), esce per Mondadori Venuto al mondo, il quinto romanzo dell’autrice. Un’opera di oltre cinquecento pagine che nel 2009 porta l’Autrice alla vittoria di un altro ambito riconoscimento letterario: il premio Campiello.
Trama
Sarajevo. 1984. Gemma, studentessa di lettere, è in viaggio-studio sulle tracce di Ivo Andric, scrittore premio Nobel bosniaco. A farle da guida in città c’è Gojko, un poeta appassionato e scorbutico con il quale costruisce un rapporto d’amicizia fraterno. Durante le olimpiadi invernali che trasformano la città in una perenne festa, Gojko presenta a Gemma un suo amico genovese, Diego, giovane fotografo dallo spirito libero.
È proprio pensando a Diego che oltre vent’anni dopo, Gemma, torna a Sarajevo insieme al figlio Pietro. Diego non c’è più, Pietro non ha ricordi di lui e Gemma approfitta dell’invito di Gojko per portare il figlio adolescente a visitare la città in cui è nato e per fargli scoprire qualcosa su quel padre affamato di vita che non ha avuto la possibilità di conoscere. Tornare a Sarajevo sarà un percorso doloroso per tutti. Per Gemma, che dovrà rivivere gli orrori visti durante gli anni di assedio alla città dalla quale era fuggita con un volo umanitario e suo figlio in braccio, senza l’uomo che amava, per Gojko, che da troppo tempo serba un segreto inconfessabile e per Pietro, che dovrà accettare le sue radici.
La voce dell’autrice
Per quanto riguarda lo stile, la Mazzantini mantiene la prosa immaginifica di Non ti muovere ma la libera dall’incombenza di voler utilizzare a tratti un registro elevato che non padroneggia.
La sua voce è ciò che la rende un’autrice da milioni di copie. Che piaccia oppure no, è innegabile, il suo stile è diretto, per tutti (lo stile, non i temi trattati!), di facile lettura. Attraverso l’uso di frasi paratattiche, linguaggio semplice, asciutto e senza fronzoli arriva ai lettori con estrema ferocia. La sua è una scrittura ricca di metafore, immagini che arrivano dritte alla pancia del lettore. Estrapolate dal contesto alcune espressioni potrebbero sembrare quasi al limite della retorica (e questo un po’ accade nella trasposizione cinematografica di Sergio Castellitto nel 2012, dove l’uso di frasi “effetto” a volte risulta un po’ gratuito), ma anche tra le pagine più dolorose l’autrice riesce a non sconfinare mai nell’enfasi eccessiva del linguaggio. E di pagine dolorose ce ne sono tante.
La narrazione è su due livelli temporali differenti, l’autrice scrive l’intero romanzo dal punto di vista di Gemma che alterna passato e presente. Seguiamo dunque il presente della nostra protagonista, iniziando dal ritorno a Sarajevo con il figlio Pietro e allo stesso tempo ripercorriamo con lei tutta la sua vita dal 1984.
Quando scrive del passato, la Mazzantini adotta uno stile precisissimo. Ci introduce il ricordo utilizzando il tempo verbale imperfetto, ma poi non racconta, non rievoca, al contrario ci trasporta direttamente in quegli anni utilizzando il tempo presente. Questo escamotage permette al lettore di essere coinvolto in prima persona. Gemma ci accompagna nel suo passato e ci obbliga a rimanere con lei, a vivere le sue sensazioni, senza spiegarcele: ce le fa sentire addosso.
Recensione
«Sarajevo è in fondo, laggiù, nel suo letto scavato tra i monti, Il sole muore, crepitano gli ultimi raggi. Sembra immersa nell’acqua. Sembra che tutto, le sue case, i suoi minareti, sia lì ammucchiato per caso, per incanto, portato da un fiume, e che potrebbe andarsene da un momento all’altro. Come noi, come qualunque cosa troppo viva per durare.»
Sarajevo è, insieme a Gemma, protagonista assoluta del romanzo. L’Autrice ce la descrive attraverso gli odori, i piatti tipici, il rumore delle bombe durante l’assedio. Ci fa piano piano innamorare di questa città e dei suoi figli, di quelli sopravvissuti alla guerra, di quelli caduti come animali durante un safari, e di quei bambini di oggi che non hanno vissuto l’orrore ma che sembrano comunque portarselo appresso come una memoria collettiva immutabile. La Mazzantini dipinge la città in ogni sfaccettatura: ce la mostra sotto la neve, in festa, durante le olimpiadi, mentre Diego e Gemma si innamorano, poi distrutta sotto le macerie mentre la coppia vive lo stesso assedio interiore e in fine ci fa passeggiare per le sue vie, dopo la guerra, dopo la morte di Diego, ci fa calpestare con Gojko le rose rosse di vernice sparse sulle strade della città a ricordare i bombardamenti, a ricordare che un tempo per nulla lontano la città era stata un poligono a cielo aperto.
«Molti a Sarajevo pensano che questa guerra non è finita, si è semplicemente interrotta.»
Ma c’è ben altro oltre la guerra tra le pagine di Venuto al mondo, c’è una tematica potente e delicata come la ricerca della maternità che per Gemma diventa ossessione disperata e distrugge il legame tra lei e Diego, divorando entrambi da dentro, spazzando via la passione, per lasciar intero soltanto l’involucro dei loro corpi. È la storia di come sia difficile superare uno, due, decine di aborti, di quanto si debba lottare per l’adozione e di cosa si può nascondere nel mondo della procreazione assistita. È il romanzo di come sia sentirsi “incompatibili alla vita”.
C’è tra le pagine il bisogno di vivere ai cento all’ora, la voglia di non accontentarsi che a volte sfocia in insoddisfazione perenne:
«Non sono contenta di me stessa.»
«tu non sei mai contenta di te stessa.»
E poi è un elogio alla poesia (“Un buon poeta lascia affamati d’amore”), alla voglia di vedere la piccola cosa buona in ogni frangente, alle parole che possono tenere in vita gli animi più malinconici, alla fragilità degli esseri umani.
E naturalmente è una storia d’amore, di amori, anzi. Amori feroci, imperfetti, viscerali, che non danno scampo e di dolori esasperanti che però, in qualche modo, riescono a lasciare spazio a rinascita e bellezza.
Da leggere se:
– Si vuole approfondire la propria conoscenza su uno dei conflitti più cruenti dell’ex Jugoslavia (almeno 100 pagine del romanzo sono ambientate durante la guerra 1992-1996) e sulla città definita la Gerusalemme d’Europa.
– Si amano i versi, le parole e tutto ciò che non deve per forza essere spiegato per emozionare, “perché la poesie se raggiungono il posto giusto, lo senti, ti grattano dentro”.
– Si ha voglia di mettere tutto in discussione, di farsi domande e di ascoltare con dignità i propri vuoti, i propri dolori, con la consapevolezza che sarà un duro viaggio.
Da evitare se:
Si detestano metafore, similitudini e massime che a volte possono ricordare le frasi sui bigliettini dei Baci Perugina.
Beatrice Pera