
A quali esiti conduce la loro riflessione?
Ciò che gli scrittori contemporanei pensano riguardo al nulla spesso confluisce nella deriva nichilistica. Ma in alcuni casi, inopinatamente, il nulla viene ricondotto al principio d’ogni cosa più che alla fine. E perciò si colora di un senso nuovo. Così, per esempio, è nei versi del già citato Turoldo, un poeta molto significativo, non a caso citato da Enrico Letta durante la commemorazione in Parlamento del compianto David Sassoli nelle scorse settimane. La trattazione più suggestiva di questo tremendo tema a me pare quella di Guido Ceronetti, per il quale il nulla ha un significato teologico, rintracciabile già nelle Scritture d’Israele: per tale motivo egli evidenziava il fascino del «vuoto» in cui, a suo parere, consiste il sacro biblico. Ceronetti ha tradotto in poesia italiana i libri sapienziali anticotestamentari, lavorando direttamente sul testo ebraico: così ha fatto per i Salmi, per il Qoelet, per Giobbe, per il Cantico dei Cantici, per poi dedicarsi ad alcune importanti pagine del Nuovo Testamento, come il Pater noster insegnato da Gesù ai suoi discepoli. La questione del vuoto, secondo Ceronetti, emerge in particolare dal Cantico dei Cantici, lì dove il sacro si può comprendere come «vuoto tagliente», luogo di Colui che non può essere-collocato, esclusione d’ogni sacrario che si proponga esplicitamente come tale, presenza di quel Dio che se c’è non può esserci che rimanendo da solo, l’Unico, mentre pure si contrae presso di Sé per far-esserci anche l’uomo. In questo senso il profano, il sensuale, il carnale, l’umano, troppo umano, soltanto umano, Cantico è davvero e totalmente sacro: «Dio nel Cantico non c’è, eppure Dio lo riempie». Il Cantico, dunque, è antropologia: non perché sia il corrispettivo ebraico del Kamasutra indiano, una mera via per giungere all’esperienza del piacere, ma perché è, – diciamolo al modo di Giorgio Caproni – ateologia. Vale a dire l’unica parola che si possa proferire, ma udita due volte, secondo un suo primo significato e(p)pure secondo un suo significato-altro. Compiuta ri-velazione, svelamento e nuovo velamento: «Certo Dio ha voluto morire un poco nelle Scritture», è la conclusione sottolineata da Ceronetti nelle pagine dedicate al Cantico dei Cantici, edite da Adelphi nel 1975.
Si può dire, perciò, che le questioni radicali degli scrittori contemporanei riecheggino quelle che s’incontrano nelle sezioni sapienziali della Bibbia?
Certamente, specialmente nei salmi e, principalmente, in Giobbe, «oscuro personaggio biblico che soffre con un’anima simile alla nostra», la cui fede è una sorta di discernimento del reale, annotava Guido Morselli in Fede e critica, raccolta di suoi saggi pubblicati postumi da Adelphi nel 1977. Ciò implica il fatto che le questioni radicali, di cui stiamo parlando, si trovano espresse in testi letterari che si configurano come riscritture contemporanee delle antiche Scritture. Questi interrogativi così penetranti, persino lancinanti, non sono mai astratti, non esprimono «sublimi ideali disincarnati», come chiariva Quinzio. Per questo hanno la forma di versi distillati dalla vicenda di coloro che scrivono, dal loro vissuto quotidiano, di cui suonano come resoconti biografici, dando adito a una narrativa e a una poesia che sono «fenomeno di vita», per dirla con un’espressione tratta da Reato di vita di Alda Merini. A cominciare dalla questione del dolore – espressione tangibile della miseria umana – che s’intreccia, più che con la colpevolezza, con la consapevolezza, con l’uso della ragione cioè, com’è già nell’opera di Leopardi e come Quinzio spiegava facendo notare che con Cristo del resto la colpa è stata perdonata, quindi cancellata, sebbene le stigmate della sofferenza non scompaiano dal corpo dell’umanità.
Quali, a Suo avviso, tra gli autori da Lei esaminati, esprimono maggiormente il sentimento di smarrimento dinanzi alla drammaticità dell’esistenza?
Gli scrittori di cui parlo nel libro sono davvero tanti e disparati, cioè tra di loro molti diversi. Nel complesso, coprono l’intero arco del XX secolo, da Luigi Pirandello a Diego Fabbri, da Pier Paolo Pasolini a Luigi Santucci, da Mario Luzi a Divo Barsotti, da Margherita Guidacci a Leonardo Sciascia, per continuare con gli altri che ho in parte già menzionato fin qui. Se devo segnalare un autore che più degli altri mi pare esprima il senso di spaesamento esistenziale tipico dell’epoca che stiamo attraversando, scelgo Eugenio Montale, citando alcuni suoi versi raccolti nella famosa silloge Satura. La poesia s’intitola Prima del viaggio: «Prima del viaggio si scrutano gli orari, / le coincidenze, le soste, le pernottazioni / e le prenotazioni […]; / si consultano le guide […], / si cambiano valute, si dividono / franchi da escudos, rubli da copechi; / prima del viaggio s’informa qualche / amico o parente, si controllano / valigie e passaporti, si completa / il corredo, si acquista un supplemento / di lamette da barba, eventualmente / si dà un’occhiata al testamento, pura / scaramanzia perché i disastri aerei / in percentuale sono nulla; / prima del viaggio si è tranquilli […]. / E poi si parte e tutto è o.k. […] // E ora, che ne sarà / del mio viaggio? / Troppo accuratamente l’ho studiato / senza saperne nulla. Un imprevisto / è la sola speranza. Ma mi dicono / ch’è una stoltezza dirselo». Sono versi tarlati dal verme del nichilismo, da quel “non saperne nulla” che anche prima rievocavo. Tuttavia, in questi versi montaliani, permane la possibilità che il verme diventi farfalla, capace di liberarsi e librarsi dall’isolamento: «Un imprevisto è la sola speranza». Ed è in questa insoddisfazione per ciò che pare scontato, che la letteratura – nel nostro caso la poesia di Montale – si fa spiraglio di un di-più salvifico, di una «speranza» altrimenti fraintesa come «stoltezza».
Nel libro Lei si sofferma anche su autori apparentemente “leggeri”, i cantautori protagonisti della musica pop: in che modo i loro testi danno voce all’inquietudine e alla domanda di senso dell’uomo moderno?
Effettivamente anche le canzoni pop possono dimostrarsi delle riscritture – magari inquiete e in certi luoghi sgrammaticate – del messaggio biblico, specialmente di quel versante d’esso che chiama in causa l’essere umano. Possono perciò custodire e veicolare importanti “domande di senso”. Una canzone – Non so se hai presente un uomo, del 2002 – di Jovanotti, mi sembra una suggestiva esemplificazione che vale la pena riportare distesamente: «Io sono un uomo, non so se hai presente un uomo / quello creato il sesto giorno prima delle ferie / quello che in molti vorrebbero fatto in serie / quello che ormai si sa quasi tutto / geneticamente simile al maiale / quello agli altri uomini diverso ma uguale […] / sdraiato sull’erba guarda passare le nuvole / e prova un senso di stupore di fronte al creato / di cui teoricamente è l’essere meglio riuscito / di cui teoricamente è l’essere più evoluto. // Io sono un uomo / quello creato maschio e femmina / ma che non sempre si riconosce in queste categorie / quello indagato dalle varie psicologie / che pende dalle labbra di filosofi, scienziati, politici e preti / che ama la libertà ma si appassiona ai divieti / io sono un uomo, non so se hai presente un uomo // […] la mia vita è un mistero / scusi sa dov’è il bagno? / mi sono perso / scusi sa che ore sono / da che parte è il centro? / c’è qualcuno che mi prende sul serio? / io sono un uomo non so se hai presente / e non è tutto sai? // […] anche di più / molto di più di questo / qualcuno sa come va a finire?». I temi etici, le istanze antropologiche, i problemi umani che emergono pur con tono “scanzonato” da questo testo sono tantissimi. E molti lambiscono, o centrano in pieno, anche la questione di Dio. Questione capitale, che non si può trattare una volta per tutte e che esige d’essere ritrattata, come ebbe modo di fare un altro grande cantautore, Giorgio Gaber, in una sua canzone del 1980 – Io se fossi Dio –, riscritta con una seconda stesura nel 1991. Nella prima versione, mettendosi nei panni di un «Dio inventato» e parlando come un «Dio fittizio», Gaber espose una visione amara e amareggiata della realtà sociale di fine Novecento, nei cui confronti un Dio all’altezza di questo nome non potrebbe che essere indifferente, sdegnosamente arroccato in una atarassica «lontananza», o magari bonariamente tentato – come già Pirandello aveva scritto nella sua novella Il vecchio Dio (nel 1902) – di ritirarsi «in campagna», per non scoppiare rovinosamente d’ira: giacché, in verità, «[…] Dio è violento! / E gli schiaffi di Dio / appiccicano al muro tutti». Nella seconda stesura, invece, pur ribadendo l’intreccio tra Epicuro e Cecco Angiolieri – letteralmente citato dal suo sonetto S’i’ fosse foco –, Gaber approda a una conclusione drammaticamente evangelica: «E, allora, io se fossi Dio / direi che ci sono tutte le premesse / per anticipare il giorno dell’apocalisse. / Con una ritrovata indifferenza / e la mia solita distanza / vorrei vedere il mondo e tutta la sua gente / sprofondare lentamente nel niente. // Forse io, come Dio, come Creatore, / queste cose non le dovrei nemmeno dire. / Io, come Padre eterno, / non mi dovrei occupare / né di violenza / né di orrori / né di guerra / né di tutta l’idiozia di questa terra, / o cose simili. / Peccato che anche Dio / ha il proprio inferno, / che è questo amore eterno / per gli uomini».