
I radicali – con questo termine intendo il “secondo” Partito radicale, quello nato per intenderci dalle ceneri del primo, alla fine del 1962, e che fu guidato, anche se non sempre formalmente, da Marco Pannella – si opposero a questi esiti della costruzione della democrazia nell’Italia postfascista. Essi ritennero che i partiti, arroccatisi in chiuse burocrazie, non fossero più in grado di fornire dei canali di espressione a un complesso di domande, sentimenti, rivendicazioni e interessi degli italiani. Era invece necessario, dal loro punto di vista, dare vita a un partito in grado di accorciare la distanza tra il vertice e la base e che in grado di generare ricambio, circolazione, controllo del primo da parte della seconda. Il partito che essi proposero come modello di organizzazione della sinistra era dunque federale, composto da militanti, il più possibile “aperto” verso l’esterno. Nella loro azione, i radicali coniugarono iniziativa popolare con azione parlamentare, di cui la prima dovevano costituire un’integrazione e un necessario punto di riferimento.
Se li osserviamo dal punto di vista delle istituzioni, i radicali costituirono dunque il primo partito che riuscì a incrinare alcuni presupposti sui quali erano state costruite la democrazia e la forma di governo italiane, ossia il ruolo centrale dei partiti, ma anche la mancanza di alternanza al governo. Lo fecero proponendo un modello di democrazia sostanzialmente liberal-democratico – corretto, tuttavia, da dosi di democrazia diretta attraverso i referendum – che in quel contesto specifico risultava dirompente: proprio negli anni in cui andava disegnandosi il “compromesso storico”, i radicali proponevano di “bipolarizzare” la democrazia italiana. E portarono avanti battaglie sui diritti civili che rompevano con il convergere delle burocrazie partitiche, in particolare di DC e PCI.
In altri termini, essi mostrarono con diverse iniziative, tra le quali forse la più clamorosa rimane il referendum contro il finanziamento pubblico ai partiti, tenutosi nel 1978, che una parte, sempre più consistente, dei cittadini italiani si stava staccando dal modo di funzionamento delle istituzioni politiche. Inoltre, essi misero al centro dell’agenda politica il tema dei diritti civili, non solo il divorzio, l’obiezione di coscienza, l’aborto, ma anche gli sconfinamenti compiuti dal legislatore, forze dell’ordine e persino dalla magistratura nei confronti della libertà di parola, di manifestazione e di associazione e del principio di presunzione di innocenza. Si pensi alle loro battaglie contro la cosiddetta “legge Reale” sull’ordine pubblico.
Se poi li consideriamo dal punto di vista della società, i radicali sono stati capaci, soprattutto negli anni Settanta, di dare voce a diversi movimenti e associazioni che faticavano a trovare sbocchi nei partiti esistenti: si pensi al tema antimilitarista, alla questione dell’aborto, ma anche ai movimenti per i diritti dei detenuti o al tema della caccia. E hanno saputo portarli nelle istituzioni, cercando di spingere il sistema politico a dare loro una risposta.
Insomma, ragionando per grandi schemi, essi misero sul tavolo grandi questioni anticipando di decenni il crollo del sistema politico della “prima” Repubblica: quello che ritenevano dovesse essere cambiato era il rapporto tra Stato e società e il rapporto tra partiti e cittadini.
Quali vicende hanno maggiormente segnato la storia di questa formazione politica?
Credo che nella parabola del Partito radicale, tra il 1962 e il 1989, si possano individuare tre svolte cruciali. Una prima, tra la fine del 1965 e il 1972, che corrisponde alla fase di definizione del progetto politico radicale e della forma partitica. In questi anni le vicende legate all’approvazione della legge sul divorzio (che andò in porto alla fine del 1970) furono cruciali: rafforzarono l’anticlericalismo del partito come sua chiave di lettura della realtà e costituirono un’esperienza di aggregazione di diverse forze “laiche”, importante per le modalità del fare politica dei radicali. Anche la battaglia per la legge sull’obiezione di coscienza alla fine del 1972 costituì un momento importante, consacrando l’antimilitarismo del partito. Negli anni successivi non si possono dimenticare il referendum sul divorzio del maggio 1974 – come scrisse «Liberazione», da quel momento sembrava possibile l’emergere di uno schieramento laico libertario alla “base” del Paese –, poi l’arrivo in Parlamento alle elezioni del 1976, il rapimento di Aldo Moro e il referendum contro il finanziamento pubblico ai partiti di cui ho già detto.
Nel 1979 prese avvio una fase in cui arrivarono ad esaurimento diversi elementi del progetto politico del Partito radicale: alle elezioni anticipate di quell’anno i radicali ottennero il 3,4% dei voti alla Camera triplicando i suffragi del 1976. Sembrava un ottimo risultato, ma non lo era: il 3,4% era troppo poco per porsi come “federatori” di un’area e come partner validi per il PSI, al quale i radicali guardavano ormai da anni per un’ipotesi di alternanza alla DC. Cambiarono diverse cose in seno al partito – e la sconfitta ai referendum del 1981 confermò l’isolamento dei radicali tra le forze politiche –; cambiò anche la posizione di Pannella rispetto al partito: la sua leadership diretta sul PR risultò rafforzata. Cambiò infine il tema principale delle battaglie dei radicali, che si concentrarono per anni sulla battaglia contro la fame nel mondo e sulla dimensione internazionale implicata da questa.
All’inizio degli anni Ottanta, la mobilitazione contro l’installazione dei missili a testate nucleari NATO permise al PR di riconnettersi a diversi gruppi e associazioni. Nonostante il battage mediatico, non credo che la candidatura di Toni Negri nel 1983 abbia segnato la storia del Partito radicale; la segnò moltissimo invece la battaglia per una “giustizia giusta” condotta assieme ad Enzo Tortora. La battaglia contro il referendum sulla scala mobile voluto dai comunisti servì a rafforzare il rapporto con i socialisti.
Tra il 1986 e il 1988, la terza svolta nella storia del partito con la fine del progetto di partito “dei militanti”, federatore delle forze di sinistra. Nel 1988 il Partito radicale avviò la sua trasformazione in un partito transnazionale transpartito, che non sarebbe più intervenuto direttamente nella competizione elettorale italiana e che si sarebbe concentrato su battaglie transazionali. La scomparsa del PR ebbe come contraltare l’esaltazione della figura di Pannella come leader carismatico.
Quali principi hanno ispirato le battaglie dei radicali?
La matrice della cultura politica dei radicali è liberal-democratica e di essa i radicali hanno estremamente enfatizzato l’anticlericalismo (fino al 1979), il rispetto dei diritti civili, il progetto di una democrazia dell’alternanza, il rispetto delle regole di uno Stato di diritto (che non coincidevano necessariamente con la legalità della Repubblica italiana).
Ad essa si sono aggiunte diverse dosi di antiautoritarismo, molto visibili per esempio nell’antimilitarismo, ma anche nel modello di partito proposto, che si voleva il più possibile aperto alla società, e nei frequenti richiami all’autogestione (più frequenti negli anni Sessanta e Settanta che nel decennio successivo). La posizione anti-partitocratica dei radicali si colloca a cavallo tra liberalismo e antiautoritarismo: la critica delle burocrazie di partito che occupano tutto lo spazio della politica e si ramificano nella società, ossificando e riducendo le possibilità di partecipazione alla politica, ha caratteri liberali e anti-autoritari allo stesso tempo. Negli anni Ottanta prevalse un’interpretazione liberale, con un’accentuazione progressiva della denuncia dell’occupazione della società da parte dei partiti e dei processi degenerativi (in senso legale) del funzionamento della politica italiana.
A questi principî bisogna poi aggiungere la nonviolenza, che non appartiene propriamente alla cultura liberale né all’antiautoritarismo delle nuove sinistre, ma che ha rivestito un ruolo sempre più importante negli anni Ottanta e oltre.
Cosa ha significato, per il partito, la leadership di Marco Pannella?
Marco Pannella, come è noto, ha svolto un ruolo determinante per il partito, ne è stato il leader carismatico che ha saputo aggregare e indicare, con un indubitabile fiuto politico, le battaglie principali. È stato anche un comunicatore veramente efficace, un vero innovatore in questo campo.
Il Partito radicale non sarebbe esistito – o sarebbe stato molto, molto meno incisivo – senza Pannella. Eppure, Pannella aveva bisogno di un partito, almeno per un certo tratto del suo percorso politico, e il gruppo dei militanti che lo affiancarono e che crearono con lui il partito furono dei veri compagni, non dei seguaci: penso alla “prima” generazione dei dirigenti radicali, come Gianfranco Spadaccia, Massimo Teodori, Giuliano Rendi, Mauro Mellini, Angiolo Bandinelli, etc, ma il discorso vale anche per i giovani che ad essi si unirono, da Adele Faccio a Emma Bonino, da Roberto Cicciomessere a Giovanni Negri, solo per fare alcuni nomi.
Qual è l’eredità politica del Partito radicale?
La ringrazio per questa domanda perché esula in gran parte dal mio studio; credo che essa implichi un giudizio sull’attuale situazione politica che non può che essere personale – lo storico ha sempre bisogno di una distanza cronologica minima dagli eventi che studia.
La domanda contiene in realtà due questioni: chi ha raccolto l’eredità politica del PR e cosa è rimasto delle battaglie radicali nella società e nella politica italiana. Esistono degli eredi del Partito radicale, che continua ad esistere e a sostenere diverse iniziative politiche, così come esistono i Radicali italiani. Si possono dare diverse interpretazioni, di destra e di sinistra, dell’eredità dei radicali, a seconda dell’aspetto della loro cultura e delle loro battaglie che si vuole mettere in evidenza, e anche a seconda del momento in cui tale aspetto è evidenziato. Certamente non credo che il Movimento 5 stelle possa essere annoverato tra gli eredi politici dei radicali. Sebbene i grillini godano dei frutti che le iniziative radicali hanno generato nella politica italiana e, nel sistema politico, essi abbiano giocato (è d’obbligo il passato) un ruolo per certi versi simile a quello dei radicali, troppo distante ne è la cultura politica.
Sul secondo versante – cosa è rimasto delle battaglie radicali nella società e nella politica italiana – si può dire che è rimasto poco, ma è anche rimasto molto. Del radicalismo è rimasta sicuramente l’idea che il voto ai partiti politici ogni 5 anni non possa costituire una delega in bianco; sono rimasti anche i nuovi modi di fare politica, all’esterno dei partiti, con modalità che implicano un investimento personale (anche se queste sono ormai sempre più soppiantate da modalità di intervento politico attraverso i social media, più facilmente attivabili, ma anche più “schermate” e manovrabili). Forse la cultura liberale e nonviolenta dei radicali ha faticato molto di più a radicarsi nella società italiana e l’eredità dei radicali in questo campo è molto più leggera.
Lucia Bonfreschi, dottore di ricerca in Storia politica dell’età contemporanea, è ricercatrice indipendente. Ha insegnato e insegna in diverse università e ha svolto attività di ricerca presso istituzioni italiane ed estere. Ha pubblicato numerosi saggi e volumi, tra i quali Raymond Aron e il gollismo. 1940-1969 (2014).