
Durante una lunghissima stagione della storia, che va grosso modo dal periodo classico alla fine dell’Ottocento, nella quale le arti si sono evolute, hanno modificato linguaggi e stili, hanno sviluppato un quadro teorico di sfondo sempre più articolato e chiaro nel quale abbiamo conosciuto, tra le altre cose, il passaggio dall’artigiano all’artista, l’arte è stata grosso modo concepita come lo stesso tipo di cosa, la cui descrizione, sotto il profilo filosofico, è stata offerta da Platone nella Repubblica. Platone ci offre uno dei testi filosoficamente più interessanti circa la questione dell’identità dell’arte: egli cerca infatti di rispondere alla domanda “che cos’è l’arte?”, domanda affatto banale poiché in effetti l’arte è una pratica apparentemente inutile, che tuttavia accompagna la storia dell’uomo da sempre e in tutte le culture. Si tratta di una domanda propedeutica ad altre: perché l’arte ci interessa? Che funzione svolge nella nostra vita?
Ebbene, la narrazione sulle arti ha avuto un robusto filo conduttore lungo il corso di molti secoli. Le parole chiave di questa narrazione sono state concetti come tecnica, bellezza, gusto, forma, imitazione, esperienza estetica (un bel libro che ripercorre criticamente questa narrazione dal punto di vista della filosofia è Storia di sei idee, del filosofo polacco Wladyslaw Tatarkiewicz).
Questa narrazione a partire dagli inizi del Novecento, e progressivamente in modi sempre più evidenti, si è dimostrata non più adeguata per rendere conto delle trasformazioni che gli artisti stavano imprimendo all’arte occidentale. Il punto di rottura, sotto questo profilo, è probabilmente rappresentato dalla “produzione” dei ready-made dell’artista francese Marcel Duchamp, dall’Espressionismo astratto, un movimento artistico statunitense successivo alla Seconda guerra mondiale e dalla Pop Art a cui hanno lavorato, tra gli altri, Andy Warhol e Roy Lichtenstein. Ciò che gli artisti andavano producendo in quel periodo non poteva non colpire i frequentatori dei musei e delle gallerie d’arte. Lo stupore nasceva dal fatto che le opere d’arte per un verso esibivano moltissime proprietà che erano le stesse esibite dagli oggetti ordinari – pensiamo al ready-made più noto, Fountain, un orinatoio che Duchamp aveva comprato in un negozio di Manhattan per esporlo tal quale, solo cambiando la disposizione in modo che la resa percettiva fosse differente da quella che associamo tipicamente a un orinatoio. Per altro verso gli artisti sembravano mettere in discussione il fatto che molte idee che tradizionalmente associamo all’arte, soprattutto all’arte alta, avessero ancora un qualche valore. Ad esempio, Andy Warhol poteva essere considerato l’autore delle Brillo Box solo adottando una concezione molto particolare di autorialità: il concept delle Brillo non era infatti di Warhol ma di un designer statunitense, James Harvey, la realizzazione della scultura, d’altra parte, fu della Factory di Warhol. E che dire al concetto di autorialità che implicato da Foutain? Nel caso di Fountain anche la classica associazione tra le opere d’arte e bellezza veniva messa in discussione. Tutto possiamo sostenere, infatti, tranne che quel ready-made sia bello. Discorso simile vale per le capacità tecniche che tradizionalmente vengono associate ai grandi artisti. Quali competenze tecniche sono necessarie per comprare un orinatoio in un negozio ed esporlo in una galleria d’arte?
A domande di questo tipo ha cercato di rispondere la filosofia dell’arte a partire dalla seconda metà del Novecento: l’obiettivo dichiarato, era ed è quello di mettere a disposizione una comprensione teorica di ciò che gli artisti andavano facendo utilizzando soprattutto gli strumenti della ontologia e della analisi concettuale. In buona sostanza, si tratta di riflessioni che hanno sviluppato il problema dell’identità delle opere d’arte e della loro ontologia. Offrire una comprensione della questione della identità dell’arte è infatti una mossa preliminare per affrontare altre domande, ugualmente centrali, come quella circa la natura del nostro interesse per l’arte o circa il suo valore.
Croce affermò che “l’arte è ciò che tutti sanno cosa sia”: quali problemi pone la definizione di ‘arte’?
È vero, esiste una sorta di comprensione ingenua dell’arte. Ed è questa comprensione che ci fa avere l’impressione di sapere perfettamente di cosa parliamo quando parliamo di arte. Questa comprensione costituisce in genere lo sfondo dei nostri discorsi che poi richiedono però cultura e competenze specifiche, e questa è l’altra faccia della medaglia, quella che non è catturata dall’enunciato di Croce, quando c’incarichiamo di formulare i giudizi estetici, i giudizi artistici o critici, o i giudizi di valore che riguardano le opere.
In una parola, l’arte è ciò che tutti sappiamo cos’è fino a quando non dobbiamo spiegare questa intuizione con precisione ad altri. Allora sorgono le difficoltà. Tali difficoltà si sono acerbate, come dicevamo, a seguito delle produzioni artistiche del Novecento che hanno forzato il canone in modi molto radicali, forse più radicali di quanto non sia mai avvenuto in passato. Questa forzatura c’è stata in tutti i campi (nelle arti visive, nella musica, in letteratura, nelle arti performative) specie relativamente all’ontologia dell’opera. Perciò è stato così importante che la filosofia si sia impegnata a offrire il suo contributo di spiegazione di questi processi; tale contributo è consistito nel chiarificare problemi aperti in un particolare dominio della realtà – quello dell’arte – e nell’aiutare gli artisti a mettere meglio a fuoco ciò che stavano facendo.
Questa, d’altro canto, è anche la ragione per la quale sempre di più i giovani artisti mirano a completare il loro processo di formazione dotandosi di una consistente base filosofica.
In definitiva, dunque, integrerei Croce con Agostino. Quest’ultimo nelle Confessioni, a proposito del tempo, ci dice che sappiamo tutti perfettamente che cos’è. Questo è vero, però, fintanto che non dobbiamo spiegare per bene ad altri la nostra intuizione. Allora sorgono le difficoltà ed è a questo punto che comincia il lavoro d’indagine e di chiarificazione concettuale a cui è chiamata la filosofia. E un lavoro ricco di fascino e d’insidie.
Nel caso dell’arte la questione della definizione – come puntualmente hanno notato molti filosofi – s’imbatte da subito in un problema spinoso: come è possibile definire in termini rigorosi, ovvero fornendo condizioni necessarie e sufficienti, qualcosa che cambia incessantemente. L’arte è il frutto di processi creativi continui. Ci piace e ci interessa per questo: come è possibile definire ciò che è costantemente in movimento, ciò che per costituzione è fluido? In altre parole, non sembra difficile offrire una definizione di chi sia uno scapolo, poiché non sembra corriamo il rischio che gli scapoli nel corso del tempo diventino qualcosa di diverso. Essi sempre sono e probabilmente sempre saranno, maschi adulti non sposati. Ma nel caso dell’arte le cose vanno in modo diverso. Insomma, l’arte sembra essere un dominio aperto che deve necessariamente rimanere aperto per continuare ad esistere. Perciò qualunque definizione sembra essere tecnicamente impossibile e vana. È da questo duplice piano che partono le ricerche dei filosofi dell’arte: da un lato dalla necessità di chiarire che cos’è l’arte dopo che il panorama artistico nel corso del Novecento si è profondamente trasformato e, dall’altro, dalla consapevolezza che lo strumento che deve essere approntato probabilmente non potrà essere quello della definizione in senso classico, ovvero di una definizione che fornisca condizioni necessarie e sufficienti. Quindi abbiamo un problema di dominio e di metodo che la filosofia si è attrezzata in molti modi diversi per affrontare.
Quali sono i principali snodi teorici nell’evoluzione della definizione dell’arte?
Non c’è una sola definizione: in letteratura ne abbiamo molte, elaborate in momenti diversi della storia della filosofia. È una lunga linea rossa che unisce Platone alla filosofia contemporanea. Inoltre, alcuni filosofi ritengono che sia tecnicamente improprio parlare di definizione; questo perché l’arte sarebbe indefinibile. Ad ogni modo, quale sia stato lo strumento che i filosofi hanno scelto per ragionare intorno alla identità e alla natura dell’arte, è un fatto che di queste questioni si siano occupati da sempre. A voler scegliere i nomi di filosofi dell’arte che hanno lasciato una traccia particolarmente importante, possiamo citare Platone e Aristotele – il primo si è interessato particolarmente di questioni di metafisica e di ontologia dell’arte, il secondo di poetica. Hegel ha distinto programmaticamente l’estetica dalla filosofia dell’arte permettendoci di comprendere che sono necessari strumenti filosofici diversi per comprendere l’ampia gamma di problemi che hanno a che fare con l’arte e che vanno dalla identità, alla fruizione, all’interpretazione, alla valutazione e alla comprensione delle opere. Nel corso del Novecento il filosofo dell’arte che ha messo a fuoco per primo e a mio giudizio meglio la necessità di riproporre una filosofia dell’arte che prendesse in carico le nuove questioni aperte dalle arti contemporanee e dalle avanguardie è stato il filosofo statunitense Arthur Danto, che ha scritto libri importanti, molti dei quali sono tradotti in italiano, come la Trasfigurazione del banale (1981), La destituzione filosofica dell’arte (1986), Oltre il Brillo Box (1982), Dopo la fine dell’arte (1997), e l’Abuso della bellezza (2003).
Danto sviluppa una ontologia dell’arte completa che, nella seconda parte della sua carriera, ha applicato concretamente alla interpretazione delle opere allorché, dismessi i panni del professore universitario, si è occupato soprattutto di critica d’arte, scrivendo per il magazine statunitense The Nation. Danto propone una teoria essenzialista dell’arte; diversamente c’è stato chi, come il filosofo statunitense George Dickie, ha sviluppato una teoria istituzionalista ritenendo che non ha senso cercare qualcosa come l’essenza dell’arte, che semplicemente non esiste, ma che piuttosto è necessario riflettere sulle pratiche stipulate nel corso della storia all’interno del mondo dell’arte. Ovvero, sulle pratiche stipulate dagli attori sociali e istituzionali che, a vario titolo, si occupano d’arte. Esistono poi molte posizioni intermedie che insistono in misura diversa sulla necessità di individuare famiglie di criteri utili per distinguere tra ciò che è arte e ciò che non lo è. Questi criteri sono in parte di carattere epistemologico, in parte di carattere ontologico, talvolta di tipo culturale e storico.
L’arte contemporanea è arte?
Certamente. Sono dell’idea che siano gli artisti a decidere che cosa è arte e che cosa non lo è. La filosofia s’impegna a offrire ragioni che consentano una comprensione più chiara delle scelte pratiche e teoriche che gli artisti compiute e sviluppate dagli artisti. L’arte contemporanea intanto è varia – non tutta l’arte contemporanea, intendendo per contemporanea quelle forme d’arte prodotte a partire dagli inizi del Novecento, ha decostruito il canone tradizionale. Quelle forme d’arte che si sono impegnate a farlo, e sono molte, spesso hanno ottenuto il risultato semplicemente riformulando la lettura e l’utilizzo delle categorie e dei concetti che tradizionalmente utilizziamo per leggere l’arte. Prendiamo la nozione di artista. Siamo portati a pensare che non esista un’opera senza un artista che l’abbia creata. Persino Fountain, in fondo, è frutto di una scelta di Duchamp che ha pensato di disporre l’oggetto nello spazio in un modo anomalo. Quella scelta ha fatto sì che l’orinatoio fosse guardato e letto in modo diverso. Dunque, in buona sostanza, persino un semplice oggetto materiale come un ready-made ha un autore, anzi ne ha due: l’artefice dell’artefatto materiale, l’orinatoio, e colui il quale – l’artista – ci suggerisce un modo diverso di guardare a quell’oggetto. E allora come spiegare quelle arti partecipative o performative per le quali l’opera sembra emergere da una concertazione non pianificata o, comunque, non pianificata da un solo autore. In realtà, a ben guardare il problema non è nuovo: la tradizione ha già conosciuto opere senza autori o, meglio, opere che sono nate dalle mani e delle menti non coordinate di molti autori diversi. È la vicenda dei poemi omerici, sapientemente spiegata da Giambattista Vico ne La scienza nuova. Gli studiosi oramai attestano come Omero non sia mai esistito e come quelli che classifichiamo come poemi omerici altro non siano che racconti narrati intorno al fuoco da decine di poeti sconosciuti e non assunti all’onore delle cronache letterarie. Questo ci fa considerare sotto una luce diversa il ruolo e la figura dell’artista.
Potremmo portare altri esempi e osservare come di fatto le arti contemporanee spesso abbiano reinterpretato o attualizzato in modi diversi le pratiche o i concetti chiave legati alle arti. Pensiamo ad esempio al legame tra il corpo e il significato dell’opera. Il concettualismo ha lavorato moltissimo su questo versante, ottenendo risultati interessanti almeno in negativo poiché, il sostanziale fallimento delle arti concettuali, ha determinato una rideterminazione dei confini dell’arte rispetto alle altre regioni della ontologia, per esempio quella degli oggetti materiali e quella che degli oggetti ideali.
Dunque, sì, l’arte contemporanea è arte: per capire i risultati delle sue trasformazioni bisogna però comprendere in che modo l’arte abbia potuto trasformarsi e quali elementi hanno preso parte a questa trasformazione. Bisogna, in una parola, “profilare” in maniera diversa il concetto di arte, ridisegnando, ove opportuno l’ontologia legata alle singole arti.
Insomma, che cos’è un’opera d’arte?
Un’opera d’arte è anzitutto un oggetto sociale. Ovvero un oggetto che vede come precondizione della sua esistenza, la realtà sociale. Le opere d’arte esistono perché c’è una realtà sociale che le rende possibili e le riconosce e perché gli esseri umani in genere hanno la necessità di dare corpo alle loro visioni del mondo utilizzando modi e stili diversi. Platone era dell’idea che le opere avessero una funzione di rispecchiamento della realtà e che gli esseri umani le realizzassero per questo: per realizzare copie, che non potevano che essere imperfette, di ciò che esiste. Che senso ha – ci si potrebbe chiedere – riprodurre la realtà? Lo si può fare per molte ragioni: si possono avere finalità simboliche, commemorative, conservative. Un ritratto può servire a magnificare, a lodare, a ricordare, a conservare. Poi, almeno nella storia delle arti visive, ha fatto irruzione la fotografia è molto è cambiato. Per ricordare un volto era più rapido e più semplice scattare una foto di quanto non lo fosse chiamare un pittore. Entrambe in ultima analisi rendevano una lettura del volto o del paesaggio che ritraevano, con il vantaggio che la fotografia era più immediata e più rapida. Una macchina fotografica può stare facilmente in tasca, mentre portarsi in giro tavolozza e pennello è decisamente più scomodo. Lo sviluppo della tecnologia ha fatto il resto: gli smartphone sono diventati macchine fotografiche sofisticatissime, sono sempre con noi e richiedono davvero scarse competenze tecniche dal momento che la tecnologia integrata nello strumento gestisce quasi tutto in autonomia. È vero che non ci s’inventa fotografi ma nemmeno pittori e, alla fine è più semplice realizzare una foto discreta di quanto non lo sia dipingere discretamente un quadro. Perciò gli artisti si sono impegnati sempre meno in attività di tipo riproduttivo o mimetico per sottolineare invece le possibilità che le arti hanno di rappresentare la realtà. Ovviamente anche la mimesi ha una funzione in ultima analisi rappresentativa, ma il fatto che gli artisti si siano liberati dalla necessità di rappresentare il mondo fa sì che lo possano significare più liberamente.
Arthur Danto descriveva le opere d’arte come significati incorporati, ovvero significati che attraverso il particolare medium concettuale offerto dalla rappresentazione artistica, trovano una forma in un medium sensibile, che si tratti di una parola, di una partitura oppure in un disegno. Gli artisti contemporanei si sono liberati dai moltissimi vincoli che nel corso della storia hanno rappresentato alle volte una ricchezza altre volte una costrizione: sono caduti i vincoli ideologici, quelli che li hanno legati alla sfera della sacralità oppure della mera ornamentalità. Il fatto che gli artisti lavorino seguendo dinamiche e logiche che oramai appartengono prevalentemente al mondo dell’arte fa si che godano, in genere, di una libertà straordinaria. E la libertà, si sa può essere molto difficile da gestire.
Tiziana Andina è docente di Filosofia teoretica all’Università di Torino