
In che modo nella Repubblica convergono i principali motivi del pensiero platonico?
Con la Repubblica (un dialogo composto di dieci libri) Platone si propone di rifondare in maniera radicale il modo in cui gli uomini si associano dando vita ad aggregati politici. Per attuare un simile programma egli chiama in causa un apparato teorico formidabile che contempla pressoché tutti i temi che rivestono una qualche rilevanza filosofica: l’antropologia, che si propone di chiarire che cosa sia l’uomo, la psicologia, che indaga gli input che orientano il suo comportamento, l’etica, che riflette sulle ragioni che ne determinano l’azione, l’epistemologia, che studia i differenti stati cognitivi ai quali l’uomo ha accesso, l’ontologia, che ricostruisce la struttura della realtà e i tipi di entità che la occupano, l’estetica, che studia lo statuto e la funzione dei discorsi e dei prodotti artistici, la pedagogia, che fornisce un articolato programma educativo destinato ai futuri governanti, e naturalmente la politica, la quale rappresenta indubbiamente il focus principale dell’opera. Si tratta di una «grande politica», appunto perché si richiama a uno straordinario serbatoio di saperi e di conoscenze, interrogandosi in termini autenticamente filosofici sul rapporto tra l’individuo e la comunità.
Come prende corpo, nell’opera, il progetto di rifondazione dell’uomo e della politica?
Il punto di partenza dell’indagine platonica è costituito da una diagnosi spietata della «malattia della città», ossia della crisi etica, antropologica e politica che attraversa Atene dopo la disfatta della Guerra del Peloponneso alla fine del V secolo. Platone ricorre costantemente alla metafora medica: se esiste una malattia della città, occorre prima di tutto individuarne le cause, quindi suggerire una terapia e infine stabilire chi siano i «medici» chiamati ad attuarla. L’indagine eziologica si concentra soprattutto sull’atomismo individualista e sul relativismo valoriale, visti come le cause principali dei mali della città. Se la fase diagnostica ha messo in luce i danni prodotti dalla convergenza di questi due fattori (in qualche modo teorizzata dai pensiero sofistico), la componente terapeutica non può che richiamarsi alla valorizzazione di una dimensione comunitaria (Platone insiste sull’importanza del concetto di koinonia, che significa appunto comunione, comunanza) e all’individuazione di principi universali in grado di aggirare il relativismo propagandato dalla sofistica (si pensi a una figura come quella di Protagora o al misterioso personaggio di Trasimaco nella Repubblica). Se la malattia della città risiede principalmente nella sua disarticolazione, nell’individualismo, nella prevalenza di interessi privati, la sua «salute» consisterà nel richiamo a una dimensione comunitaria, che deve spingersi fino alla sostituzione della logica del «mio» con quella del «nostro» (Platone menziona il celebre motto pitagorico il quale afferma che «sono comuni le cose degli amici»).
Quale rilevanza assume la riflessione intorno al tema della giustizia?
Il tema della giustizia rappresenta il motivo centrale intorno al quale si sviluppa l’intero dialogo. Tra le virtù tradizionali la giustizia è quella che più delle altre presenta un profilo relazionale, giacché attiene alle norme che regolano i rapporti dell’individuo con gli altri individui, con le istituzioni, con la società e addirittura con gli dèi. Inizialmente essa viene indagata all’interno dell’individuo, ma a partire dal II libro, con una celebre mossa teorica, Platone sposta il focus della ricerca sul piano politico e sociale, chiedendosi che cosa sia e come si origini la giustizia nella città. In realtà, come è noto, il presupposto di un simile allargamento risiede nella convinzione che sul piano formale l’individuo e la città presentano la medesima struttura (isomorfismo tra micro e macrocosmo). Dal punto di vista filosofico la prima parte del dialogo intende stabilire che tipo di bene sia la giustizia, ossia per quale ragione essa venga perseguita. Platone individua tre classi di beni, ossia di finalità dell’azione: a) beni che si desiderano per se stessi, come il gioire, b) beni che si perseguono sia per se stessi, sia per i vantaggi che si possono ricavare dal loro possesso, come la salute, e infine c) beni che risultano attraenti solo per i vantaggi che ne derivano, come una dieta particolarmente severa o un faticoso esercizio fisico, oppure ancora una dolorosa terapia medica. Mentre per ampi settori della intellighenzia sofistica la giustizia appartiene al terzo genere di beni (in quanto non sarebbe affatto attraente in se stessa, ma solo per i vantaggi in termini di prestigio e rispettabilità sociale che può procurare), Platone la colloca nel secondo gruppo, in quanto è attraente sia in se stessa sia per le conseguenze che da essa derivano. Una simile posizione ha dato luogo a un’infinità di polemiche tra gli studiosi, alcuni dei quali sono arrivati ad accusare Platone di utilitarismo, in quanto concepirebbe la giustizia come uno strumento volto all’ottenimento di beni ad essa estranei. Bisogna tuttavia precisare che il bene che il possesso della giustizia consente di conseguire è costituito dalla felicità o benessere (eudaimonia): ciò significa che chi è giusto risulta anche immediatamente felice, poiché la giustizia (e più in generale la virtù) rappresenta la condizione necessaria e insieme sufficiente per raggiungere una condizione di perfetta realizzazione di sé. Platone perviene a un simile risultato ricorrendo all’analogia tra il corpo e l’anima: la giustizia è per l’anima ciò che la salute è per il corpo, ossia un corretto rapporto gerarchico tra le parti, e dunque risulta di per sé desiderabile. L’etica platonica è dunque immanentista e non consequenzialista, poiché non stabilisce il fine della virtù in un sistema di premi esterni al comportamento virtuoso. Come è noto, dal punto di vista definizionale la giustizia consiste nel «fare le proprie cose», ossia nello svolgere la funzione sociale alla quale si è naturalmente portati.
Come si articola la kallipolis platonica?
La Repubblica non è uno scritto di teoria costituzionale e neppure un serbatoio di provvedimenti legislativi che dovrebbero informare la vita di una polis (qualcosa di simile si trova semmai nell’ultimo dialogo «politico» di Platone, ossia nelle Leggi). Non mancano tuttavia indicazioni precise su come la «città bella» (kallipolis) dovrebbe organizzarsi. Le disposizioni che vengono prescritte da Platone sono sostanzialmente tre. Egli le presenta come vere e proprie «ondate», che possono apparire paradossali e contrarie al senso comune, rischiando di esporre al ridicolo colui che le propone. Ciò non significa, tuttavia, che si tratti di norme inattuabili o addirittura non desiderabili. Anzi, secondo Platone il benessere individuale e collettivo è vincolato all’applicazione di questi tre provvedimenti. Il primo attiene all’uguaglianza dei generi rispetto ai compiti di governo, ossia alla circostanza che anche le donne possono accedere a funzioni direttive; il secondo stabilisce per gli individui chiamati a esercitare una funzione pubblica il divieto di possedere beni privati e famiglia, ossia azzera la componente privata tanto sul versante patrimoniale quanto su quello affettivo; il terzo, infine, affida il governo della città ai filosofi, vale a dire agli unici individui in possesso del sapere relativo alle idee, cioè alle norme universali e oggettive che devono fungere da paradigmi assoluti del comportamento individuale e collettivo. Platone è consapevole del carattere eversivo e per certi aspetti rivoluzionario di simili provvedimenti, e tuttavia li reclama con forza, convinto che solo la loro applicazione consentirebbe alla città di realizzare la giustizia e la felicità ad essa collegata.
Quale fortuna ha avuto la Repubblica?
La fortuna della Repubblica è stata enorme lungo la storia della tradizione occidentale, ma tutt’altro che lineare. Per quanto bizzarro possa apparire, il suo significato politico è stato spesso misconosciuto o comunque fortemente attenuato. Nel mondo antico, se si eccettua il caso di Aristotele e della sua polemica nei confronti della città immaginata da Platone, la componente politica del dialogo non è stata affatto apprezzata. Durante il neoplatonismo, ad esempio, vennero isolate le sezioni di argomento metafisico (l’idea del Bene, la dialettica) o antropologico (il mito di Er), mentre la portata politico-riformatrice dello scritto venne sostanzialmente ignorata. Anche durante il Medioevo latino, anche a causa dell’assenza di una traduzione dell’opera, la Repubblica ebbe una circolazione molto limitata (anche per la repulsione che i provvedimenti relativi alla comunione delle donne e dei figli potevano suscitare nei lettori cristiani). La «rinascita» di interesse intorno a questo dialogo si colloca all’inizio del XV secolo, grazie alla traduzione latina curata dai Decembrio, padre e figlio. Ma anche durante il Rinascimento gli aspetti politici e progettuali dello scritto platonico furono largamente ignorati. Bisogna aspettare la seconda parte del XVIII secolo, con Rousseau e Kant, per tornare ad apprezzare la portata politica del dialogo, che da allora non ha cessato di influenzare in forme e modi diversi il dibattito filosofico-politico (basti pensare alla portata dell’accusa mossa a Platone da Popper di avere teorizzato una «società chiusa», ossia totalitaria).
Di quale modernità è l’opera platonica?
Il modo più adeguato e corretto di accostarsi oggi al capolavoro di Platone è probabilmente quello di valorizzarne l’inattualità. La sua grandezza e forse la ragione per cui ha ancora senso oggi, a ventiquattro secoli dalla sua composizione, leggere questo dialogo risiede nella sua totale irriducibilità alle forme nelle quali si è imposta la modernità (individualismo, liberalismo, democrazia ecc.). Come ha scritto Mario Vegetti, «distanziare Platone è il modo migliore per renderlo ancora una volta interessante, [giacché] la Repubblica sfida ancora una volta a pensare, e a rimettere in questione i vincoli conformistici delle opinioni dominanti, come diceva Platone, o, come si dice oggi, del pensiero unico». Se poi si volesse indicare un aspetto per il quale il grande dialogo platonico sulla giustizia ha immediatamente qualcosa da dirci, sembra inevitabile menzionare la sua formidabile capacità di smascherare i meccanismi sociali e psicologici che deformano la prassi democratica, l’anelito verso un potere inteso come servizio e, infine, l’ingiunzione a separare potere e ricchezza e l’invito a coniugare potere e sapere.
Franco Ferrari è professore ordinario di Storia della filosofia antica all’Università di Pavia. È autore di Introduzione a Platone (il Mulino, 2018).