
L’esigenza di questa netta linea di demarcazione, di questa estetica della discontinuità del teatro novecentesco risulta sicuramente meglio comprensibile se la mettiamo in relazione con quanto accade nel complesso del panorama artistico. Frattura, rifondazione, negazione della tradizione sono attributi novecenteschi che attraversano trasversalmente tutte le arti, manifestandosi ovviamente, come d’altronde accade anche per il teatro, in maniera più o meno radicale. Di qui anche la scelta del titolo del libro che vuole mettere in evidenza come l’attitudine generale del Novecento si rifletta nel teatro e nel suo linguaggio.
Quale percorso di innovazione e trasformazione rappresenta la più specifica dimensione identitaria del Novecento teatrale?
Sempre a voler giocare sulla sintesi, rispetto a un ambito storico complesso e ampio, il processo di reinvenzione può essere individuato nella centralità che il momento scenico assume come fondamento specifico del linguaggio teatrale, qualificandosi come una vera e propria scrittura indipendente rispetto al momento letterario. Il teatro, come sosteneva Edward Gordon Craig, che del Novecento teatrale può essere considerato uno dei padri fondatori, è un’idea che prende forma attraverso gli elementi linguistici della messa in scena che da accompagnamento o illustrazione di un testo letterario si trasforma essa stessa in testo, anzi nell’autentico e peculiare testo del teatro. Craig, e con lui altri sia nella prima metà del secolo che nella seconda, hanno dato di questo assunto una versione radicale: scena e letteratura teatrale sono due entità distinte. Come tutte le affermazioni radicali, anche questa ha una funzione strategica, capovolgere gli assetti di ciò che noi riteniamo essere un’arte, aprire prospettive nuove ma non può essere considerata come l’unico elemento identitario del Novecento. Detto altrimenti l’identità del Novecento, a teatro, non si manifesta solo nelle sue forme più estreme, che del secolo rappresentano certamente una componente essenziale ma non l’unica. D’altronde, al contrario, considerare tali espressioni come estremismi d’occasione, magari marginali come spesso furono al momento della loro manifestazione, è un errore veramente esiziale, che ci fa perdere di vista, annacquandola, l’identità del Novecento. Tornando alla sua domanda, ribadirei che la dimensione identitaria del teatro novecentesco si esprime proprio nell’affermazione della scena come una vera e propria scrittura e nella dilatazione della concezione di cosa riconosciamo come teatro. Se oggi ci appare credibile e condivisibile un’affermazione come: teatro è un evento che si manifesta attraverso un’azione che occupa un tempo e uno spazio, è perché il Novecento ha rivoluzionato la concezione di cosa sia il teatro.
Un secondo elemento identitario riguarda sicuramente l’assimilazione del teatro alle arti della visione. Che il teatro sia un’arte che si vede è un’ovvietà: è così da sempre, ma è solo col Novecento che questa, chiamiamola così, abitudine, diventa una categoria estetica che identifica lo specifico teatrale. I tratti identitari più forti del Novecento sono allora lo spostamento del centro linguistico in direzione della scrittura scenica e un’attenzione particolare alla dimensione della visività che è qualitativa, non quantitativa: non, cioè tante immagini ma immagini che siano portatrici di un loro significato specifico. È per questa ragione che mi è piaciuto ritagliare delle finestre particolari su quello che ho definito il teatro dei pittori, non pittori che collaborano alla scenografia ma pittori che in epoche e forme diverse hanno realizzato e pensato teatro in proprio. Si tratta, ovviamente, di una piccola parte in un tutto ben più ampio e articolato, ma coglierlo in quanto tale ci dice più cose del teatro del Novecento di quanto immaginiamo.
Come nasce e si sviluppa il teatro di regia?
Quello della nascita della regia è un discorso particolarmente intricato. Le posizioni al riguardo sono diverse: c’è chi la legge come un fenomeno unicamente moderno chi, viceversa, tende a retrodatarla almeno agli anni trenta dell’Ottocento. Io non ho voluto entrare in questa dialettica di posizioni che avrebbe, probabilmente, depistato il discorso. Parto, allora, da un incontrovertibile dato di fatto: nei primi vent’anni del Novecento il sistema teatrale europeo si modifica radicalmente e se, in precedenza, ruotava attorno alla centralità dell’attore e del testo letterario adesso motore (produttivo e artistico) diventa il regista. Con una rapidità eccezionale registi come Stanislavskij, Reinhardt, Mejerchol’d, Copeau diventano il faro che orienta il discorso teatrale e subito dopo di loro c’è un fiorire straordinario, a livello qualitativo e quantitativo, di registi, tanto che diventa possibile e anzi necessario parlare del teatro di regia come di un genere nuovo.
Questo accade, evidentemente, perché c’era un terreno disposto ad accettare tale innovazione e così non va minimamente sottovalutata l’importanza di alcuni fenomeni ottocenteschi. Perché la nascita della regia è un processo, il susseguirsi di passaggi che mettono sempre più a fuoco il ruolo del regista come artista del teatro.
Poi c’è una terza fase del teatro di regia, quella che riguarda la seconda metà del secolo e allora avremo grandi riformatori che è probabilmente riduttivo definire registi, come Kantor o Grotowski, ma che indubbiamente furono registi pur se la portata della loro rivoluzione linguistica è più ampia. Ma contemporaneamente c’è un assestamento della regia come invenzione sul testo drammatico e nel testo drammatico. Meno radicale, dunque, ma non meno importante, basti fare i nomi di Strehler, Ronconi o Peter Stein e non è un caso che uno dei fenomeni che mi è sembrato di poter porre a chiusura del percorso storico del Novecento (ho scelto, infatti, di tentare di definire anche una conclusione, più teorica che storica, del secolo perché c’è ancora tanto Novecento nel teatro di oggi) è il recupero della dimensione registica all’interno del mondo teatrale che aveva fatto della scrittura scenica un codice rivoluzionario e antirappresentativo, basti pensare a Robert Wilson o a Federico Tiezzi.
Come vengono ripensate nel Novecento le nozioni di rappresentazione, drammaturgia e recitazione?
Vengono ripensate all’interno del complessivo processo di ridefinizione del codice teatrale. È interessante soprattutto vedere cosa succede alla drammaturgia e alla recitazione. La prima siamo abituati a collegarla alla scrittura letteraria per il teatro, quasi che fossero sinonimi, il che non è. Spostandosi il peso del linguaggio dalla pagina alla scena assumono valenze drammaturgiche elementi diversi. Lo spazio, ad esempio, che consideriamo drammaturgico nella misura in cui entra non come contenitore ma come parte integrante, spesso addirittura preliminare, della scrittura. C’è, dunque, un’estensione dell’ambito di pertinenza di ciò che chiamiamo drammaturgia. Qualcosa di analogo accade per la recitazione. Recitare assume, nel Novecento, valenze diverse. Se resta, indiscutibilmente, una strategia di relazione col personaggio, e sono state prodotti durante il secolo che abbiamo alle spalle i più articolati sistemi per dare un corpo solido a tale relazione, basti pensare alle strategie dell’immedesimazione da Stanislavskij all’Actor’s Studio o allo “straniamento” di Brecht, diventa anche tutt’altro. In primo luogo qualcosa di legato alla presenza scenica e al movimento (gli intrecci con la danza moderna sono tantissimi) e poi anche una ricerca che dal “fare” si traduce nell’ “essere”, in quanto il lavoro dell’attore va ad assumere valenze di tipo antropologico. Il concetto di rappresentazione, poi, subisce una sorte non dissimile a quanto gli capita nelle altre arti. Prima di rappresentare un oggetto, diceva Maurice Denis uno dei pittori allievi di Gauguin, un quadro è un insieme di linee e colori. Ecco uno spettacolo prima di rappresentare, se lo fa, una vicenda, conta per le azioni materiali di cui è composto.
Quale ruolo svolgono in questo processo le Avanguardie storiche?
Un ruolo fondamentale. Quando parlo di rifondazione, rivoluzione del linguaggio, ecc. è evidente che una componente consistente di questo processo, il momento in cui viene dichiarato intenzionalmente come progetto è quello delle avanguardie. Sia quelle che agiscono nel primo Novecento sia quelle degli anni sessanta. In entrambi i casi sono le avanguardie a mettere in primo piano l’esigenza di andare a cercare il teatro da un’altra parte rispetto a quella dove si era abituati a trovarlo. D’altro canto il concetto stesso di avanguardia artistica è novecentesco e arriverei a dire che non esiste Novecento, a livello identitario, senza avanguardia. I due termini non possono essere sovrapposti meccanicamente ma sicuramente il secondo ha una funzione decisiva nel processo che conduce al Novecento come qualcosa di più di una mera partizione cronologica. Anche se “minoranza”, le avanguardie hanno avuto un ruolo insostituibile.
Quale rivoluzione compie il Nuovo Teatro?
Il discorso relativo al Nuovo Teatro è parte di quanto ho appena detto. Negli anni sessanta molti artisti del teatro insoddisfatti di una certa stagnazione, di una certa formalizzazione in cui si era incastrato il teatro, mettono in moto processi di sperimentazione tesi a ridisegnare identità e missione del teatro, che, come si cominciò a dire allora, è “necessario” nella misura in cui va a toccare le corde più profonde della natura umana, spinge a ridisegnare il ruolo sociale, l’identità psicologica, riformulando il linguaggio e la sua grammatica espressiva. Il Nuovo Teatro è parte attiva dei fermenti della rivoluzione culturale che caratterizzarono quel decennio, riaprendo le porte del processo di innovazione che la Seconda Guerra Mondiale e gli anni trenta prima sembravano aver chiuso. Nel far questo si crea un naturale ponte con le avanguardie storiche, basti considerare l’importanza che ha Artaud, i cui scritti sono degli anni trenta, ma la cui influenza è tutta proiettata sugli anni sessanta. Ecco, il Nuovo Teatro ha fatto ripartire la macchina dell’innovazione linguistica, ha fatto ripartire il Novecento.
Quali autori segnano l’avvento della drammaturgia letteraria?
La drammaturgia letteraria, come dicevo in precedenza, subisce nel corso del Novecento un vero terremoto che la decentralizza dal processo creativo. Il che non significa che non abbia un suo ruolo né che manchino figure di riferimento nella costruzione del processo identitario del Novecento. Credo che, se vogliamo considerare gli autori il cui peso vada al di là dell’invenzione letteraria, i due nomi che sono assolutamente imprescindibili sono Brecht e Beckett. Entrambi, infatti, inventano teatro anche al di là della dimensione verbale. Ma si può capire il Novecento senza Pirandello, sicuramente no, e senza Genet o Ionesco? Nemmeno e potremmo procedere ancora. Ma c’è una cosa che mi ha sempre colpito. Pur se apparentemente meno rivoluzionario, più lo leggo più mi sembra di trovare una sorta di Novecento “in potenza” della drammaturgia dell’inazione di Čechov.