
Novecento teatrale non significa tutto il teatro del XX secolo ma riguarda solo o soprattutto quanto, nelle molteplici e variegatissime esperienze del secolo scorso, ha fatto storia, al di là della cronaca, cioè ha contribuito a cambiare in profondità il modo di fare e di pensare il teatro nella contemporaneità. In particolare, il mio interesse di studioso si è indirizzato, da sempre, alla indagine sulla “tradizione” dei maestri, da Stanislavskij in avanti. Su questa “tradizione”, a dispetto di una considerevole mole di pubblicazioni e studi esistenti, sappiamo ancora poco. Quasi sempre questi maestri sono in realtà figure più note che conosciute, per citare una classica distinzione proposta molti anni fa dallo storico del teatro Fabrizio Cruciani. Nella maggior parte dei casi essi sono stati inchiodati a formule che non rendono giustizia della complessità e della mutevolezza dinamica del loro lavoro, delle loro esperienze, delle loro ricerche. Dal momento, tuttavia, che il senso comune ritiene che dei maestri si sia già detto tutto e si sia scritto anche troppo, e inoltre che essi ormai non abbiano più molto da insegnarci, ho voluto iniziare polemicamente la mia ultima fatica dichiarando che “non è un libro per tutti”.
In che cosa si differenzia l’attuale stagione teatrale rispetto alla tradizione dell’”età d’oro”?
Quella che stiamo vivendo attualmente, ma in realtà da almeno l’ultimo decennio del secolo scorso, è l’età del “dopo i maestri”, che non vuol dire necessariamente senza maestri.
È l’età del post: postnovecento, postdrammatico, postregia etc. Ma questo post può essere inteso in due modi molto diversi: come la segnalazione di una continuità, pur in condizioni profondamente mutate sotto molti punti di vista, con la stagione novecentesca; oppure, al contrario, come l’indice di una discontinuità, di una frattura irreversibile, che porrebbe la fase teatrale attuale (degli ultimi due-tre decenni) all’insegna di principi, condizioni, modalità e orizzonti estetico-culturali completamente diversi rispetto al Novecento teatrale. Sarà chiaro, da quanto ho già detto, che personalmente opto per la prima interpretazione, ribadendo da tempo come la stagione dei maestri del secolo scorso abbia ancora molto da dirci, da insegnarci.
Quale evoluzione hanno subito questioni chiave come la regia, il processo creativo e la drammaturgia d’attore?
Rispondere adeguatamente a queste domande significherebbe citare l’intero libro che ho appena pubblicato e al quale in ogni caso rimando. Si parla molto, da qualche tempo, del superamento della regia e del diffondersi di modalità creative che privilegiano l’autorialità collettiva o d’ensemble, rispetto all’individualismo del teatro di regia classico, e in ogni caso l’attore o performer rispetto al regista. Ora, questo è in parte vero. Ma, al di là dei tanti controesempi che si potrebbero opporre facilmente, e che nomino con ampiezza nel libro (Robert Wilson, Jan Fabre, Romeo Castellucci, Armando Punzo, Pippo Delbono etc. etc.), tutto quello che sta accadendo continua a porsi -a mio parere- dentro un orizzonte estetico-produttivo che, nonostante tutto, rimane quello della regia. Voglio dire che, per quanto è dato di capire, in futuro si potrà forse fare a meno del regista come figura artistica individuale ma molto più difficile sarà fare a meno della regia come funzione, pratica, orizzonte d’attesa dello spettatore. Senza contare che la grave crisi finanziaria patita dal teatro oggi (anche a causa del progressivo disimpegno delle istituzioni pubbliche) rende sempre più chimerica l’esistenza durevole di effettivi collettivi o ensemble stabili. Quelli che continuiamo ottimisticamente a chiamare gruppi o addirittura compagnie, in realtà quasi sempre sono composti da due massimo tre membri fissi. Gli altri, in genere proprio gli attori, vengono assoldati di volta in volta tramite apposite chiamate, soprattutto nella forma (economica e funzionale) del workshop.
Quali vicende hanno caratterizzato lo sviluppo del nuovo teatro italiano.
Quanto ho detto fin qui, mi permette di rispondere più brevemente a questa domanda, perché si attaglia perfettamente anche alla condizione del teatro nel nostro Paese, anzi per certi aspetti è stato pensato proprio riferendosi in primo luogo alla nostra situazione. Nel maggio 2017 ho organizzato a Genova, in collaborazione con Teatro Akropolis e con l’appoggio della locale amministrazione, un convegno per ricordare i cinquant’anni del mitico Convegno di Ivrea del 1967, atto di nascita ufficiale del Nuovo Teatro italiano, con i vari Bene, Quartucci, Scabia, Ricci, Leo de Berardinis, etc. Gli atti sono stati pubblicati da AkropolisLibri sempre a Genova. Ebbene, il quadro emerso in quella occasione non è dei più rassicuranti. Le energie creative ci sono, ci sarebbero. Molti giovani di talento continuano a impegnarsi in varie direzioni ma complessivamente la situazione del teatro d’arte (cioè del teatro non allineato e non commerciale) oggi è fortemente a rischio. La crescente mancanza di risorse seleziona brutalmente le forze in campo e, come accade in questi casi, non sono sempre i migliori a sopravvivere ma quelli che si adattano meglio alle condizioni della crisi e alle sollecitazioni che vengono dai “padroni del vapore”: direttori di teatro, funzionari pubblici, opinionisti influenti etc.
Quale futuro per il teatro (o quel che ne resta)?
A domande del genere di solito non rispondo o rispondo che non ho la sfera di cristallo. Farò un’eccezione parziale, dicendo che nonostante tutto mi sento di scommettere sul teatro. Il teatro come modo di vivere, come bisogno profondo dell’uomo, come aspirazione ancestrale a una vita intensificata, più autentica, come espressione della necessità primaria di stare in relazione, come modo originario di incontrare-conoscere l’altro, non morirà mai. Potrà cambiare completamente le sue forme, le sue modalità organizzative e produttive, ma quell’esperienza dell’alterità, come esperienza di conoscenza e di autoconoscenza, che è essenzialmente il teatro, credo che molto difficilmente scomparirà. Almeno finché esisteranno ancora degli esseri umani, ovvero degli individui che vogliono continuare a restare tali.