
di Lorenzo Baldacchini
Carocci editore
«L’oggetto di cui questo libro tratta non è facilmente definibile. Lo abbiamo chiamato libro antico per comodità, ma è una definizione tutta da chiarire, per una di quelle consuetudini assai difficili da mettere in discussione. Innanzitutto sarà bene sottolineare che si tratta di libro a stampa antico, dal momento che i problemi, la tipologia, la storia del libro manoscritto presuppongono e meritano trattamenti diversi e specifici. Quindi per libro, d’ora in avanti, intenderemo libro stampato. Anche l’aggettivo antico va specificato: si tratta del libro prodotto manualmente, quello che gli inglesi chiamano hand-printed book, quindi — in generale — precedente l’introduzione di procedimenti meccanici nella produzione della stampa. Come per tutti i processi storici non è possibile, né sarebbe d’altronde corretto stabilire limiti cronologici precisi, confini che separino rigidamente il modo di produzione manuale da quello meccanico. Infatti, le innovazioni tecnologiche che rivoluzionarono il modo di produrre libri e tutta la carta stampata in generale (giornali, manifesti ecc.) non furono recepite contemporaneamente ovunque. Occorsero diversi decenni perché tale rivoluzione cancellasse quasi completamente il vecchio modo di produzione che potremmo definire artigianale.
È necessario comunque indicare dei limiti cronologici, approssimativi naturalmente, entro i quali possiamo racchiudere la produzione del libro antico. Essi sono, da una parte, la comparsa della stampa in Europa (a Magonza, Haarlem e Avignone quasi contemporaneamente) durante gli anni quaranta del XV secolo, dall’altra i primi decenni dell’Ottocento quando l’invenzione della macchina continua per la produzione della carta, ad opera di N. L. Robert (1798-99), quella della macchina piana da stampa che sostituì il vecchio torchio a mano, realizzata da F. Koenig e A. Bauer nel 1811 e, molto più tardi, la rotativa (I. Manzoni, 1866), la linotype (O. Mergenthaler, 1886) e la monotype (T. Lanston, 1889) trasformarono un procedimento essenzialmente manuale in un procedimento quasi esclusivamente meccanico.
Naturalmente, il termine ante quem della stampa manuale non è assoluto, soprattutto dal punto di vista geografico, dal momento che nessuna innovazione compare contemporaneamente ovunque. Tuttavia, il libro antico coincide in buona parte con l’ancien régime. Qualcuno ha parlato anzi di ancien régime typographique per sottolineare che fu il modello principale della comunicazione scritta di questo periodo. Non a caso tale modello ha attirato l’attenzione proprio della scuola storica (quella legata alle “Annales”), che avendo teorizzato la “lunga durata” non poteva certo ignorare un fenomeno come la stampa manuale che accompagnò per quasi quattrocento anni la storia europea. Per la verità bisognerebbe tenere presente il suggerimento di Piero Innocenti, che propone di prolungare il termine cronologico alla comparsa delle bibliografie nazionali, il che per l’Italia significherebbe che “libri antichi” sarebbero tutti quelli prodotti prima del 1886. Tuttavia ci pare che il rischio di diversificare paese per paese il momento del passaggio dal libro antico a quello moderno sia tale da sconsigliare la generalizzazione di tale approccio, che pure va considerato una suggestione interessante. Piuttosto l’emergere prepotente delle nuove tecnologie elettroniche, telematiche e digitali può indurre la riflessione — che infatti qualcuno già comincia a fare – che tutti i libri sono in qualche modo “antichi”, o che tali sono destinati a diventare molto presto.
Anche all’interno del periodo che abbraccia, come abbiamo visto, quasi quattro secoli, non è parimenti facile operare divisioni precise. Quelle correnti derivano più dall’uso che dei libri si è fatto nelle biblioteche e dalla loro sistemazione nelle bibliografie, che da precise trasformazioni dei metodi di produzione o delle tipologie. Se ancora una qualche giustificazione si può trovare per la divisione che ormai da tre secoli si fa tra incunaboli (per convenzione tutti i libri stampati prima del 1501) e il resto dei libri antichi, oltre che per alcune caratteristiche (che comunque non scompaiono da un giorno all’altro), per l’importanza documentaria dei primi monumenti dell’arte tipografica, molto meno accettabili sono quelle comunemente in uso e che riguardano i libri stampati dal Cinquecento all’Ottocento. Sentiamo spesso parlare di cinquecentine, seicentine ecc., e anche nel nostro libro ci capiterà di usare questi termini. Tali divisioni rispondono esclusivamente a ragioni di comodo: bibliografile, cataloghi e censimenti tendono a dividere, in Italia come in altri paesi, il materiale librario antico in base a differenziazioni che, pur essendoci, non hanno confini precisi e sono riscontrabili solamente nella lunga durata, ma lo fanno semplicemente per poter realizzare in modo più agevole ricognizioni sufficientemente omogenee in periodi di tempo accettabili. L’unica ragione valida è quindi quella di dominare meglio una mole imponente di oggetti, quale quella costituita dai libri antichi.
Accanto alla definizione “libro antico” e spesso con un significato di sinonimo, troviamo quella di “libro raro”. Ma la rarità è una categoria ancora più convenzionale e meno scientificamente definibile dell’antichità. Se ci poniamo nell’ottica della biblioteca o del collezionismo, raro potrebbe essere anche un libro moderno, mancante per il completamento di una raccolta: è da escludere pertanto questa dimensione bibliografica della rarità. Né può valere come metro di giudizio il calcolo del numero di esemplari conosciuti di una particolare edizione, dal momento che anche il singolo esemplare di un’edizione della quale sopravvivono numerose copie può presentare caratteristiche che lo differenziano dagli altri (un autografo, una nota di possesso, delle postille manoscritte, un ex-libris, una particolare legatura, errori corretti nel corso della tiratura e via dicendo) e che lo rendono estremamente raro non solo dal punto di vista dello studioso e del ricercatore, ma anche da quello del collezionista.
Il concetto di raro applicato al libro è — come è stato sottolineato alcuni anni fa — sconosciuto al mondo antico, e in buona parte anche a quello medievale e a quello rinascimentale. Esso compare quando all’amore per il contenuto dei libri (funzione testuale), comincia ad affiancarsi quello per le loro caratteristiche materiali (funzione documentaria) e cioè con Richard de Bury e poi Konrad Gesner, Thomas Bodley e Gabriel Naudé. Attualmente, si considera superata l’equazione libro raro = libro antico (e viceversa, libro antico = libro raro). È ovvio che l’antichità quasi sempre è un elemento che contribuisce a fare di un libro, come di qualsiasi altro documento, una rarità. Ma accanto a questa dimensione cronologica (diacronica), se ne affaccia un’altra (sincronica) che si configura spesso come socio-culturale. Essa riguarda in modo particolare tutti quei prodotti della cultura scritta, e in primo luogo quindi i libri, che hanno una destinazione di consumo immediato, dalle stampe popolari dei primi secoli della tipografia ai libretti d’operetta, alle pubblicazioni per nozze, per arrivare fino ai romanzi gialli e ai fumetti dei nostri giorni. Questi ultimi prodotti sono da considerare (in prospettiva) beni librari che già oggi sono e domani diverranno rarissimi e per i quali è opportuno approntare tecniche di conservazione e documentazione analoghe a quelle del materiale antico, se non vogliamo che documenti di importanza fondamentale, che spesso riguardano la cultura (o la sottocultura) e l’acculturazione delle classi subalterne vadano perduti, probabilmente per sempre. Non a caso Tullio De Mauro constatava anni fa con rammarico che chi volesse oggi compiere — a soli cinquanta anni di distanza — una ricerca sulla scuola elementare e media degli anni dell’immediato dopoguerra, gli anni dell’egemonia cattolica, dovrebbe probabilmente fare a meno di quella formidabile documentazione costituita dai libri di testo di allora.
Ma in che modo ci occuperemo di libri antichi? Anzitutto partendo dal fatto che si tratta di oggetti materiali (book as a material object, per usare ancora una volta una terminologia cara ai manuali anglosassoni). Anche questa definizione — peraltro corretta – non è ancora sufficiente per definire il taglio che intendiamo dare al nostro lavoro. Tale oggetto infatti può essere letto (nel senso di fruito) con due ottiche diverse. Sua funzione originaria è quella di ricevere e trasmettere, moltiplicandone gli esemplari, un testo. Tale funzione non scompare praticamente mai, tant’è che la ricostruzione del testo di opere composte dopo l’invenzione della stampa passa attraverso il confronto di un certo numero di oggetti materiali (le copie, per ricostruire le edizioni). Esiste poi una seconda funzione (quella documentaria), che assai di frequente per il libro antico tende a relegare in secondo piano quella testuale.
Il libro, sia antico che moderno, è quindi anche, ma in certi casi soprattutto, un documento, testimone di attività complesse e articolate: intellettuali quali quelle degli autori, degli editori scientifici, dei curatori, dei traduttori ecc. (i quadri redazionali di cui parla A. Quondam); tecniche e manuali interne all’officina tipografica (compositori, torcolieri, mazzieri) ed esterne ad essa (fonditori di caratteri, cartai, legatori); commerciali come quelle dell’editore e del libraio; di consumo privato e pubblico, che si manifestano attraverso legature non editoriali, restauri, note di possesso, postille, ex-libris. La funzione documentaria, inoltre, accanto all’aspetto che potremmo definire archeologico e che riguarda il libro come singolo manufatto, ne comprende un altro, bibliografico, da qualcuno paragonato impropriamente a quello archivistico, che riguarda il libro inserito in un insieme più vasto (raccolta, fondo, biblioteca), e quindi i suoi rapporti con altri libri: appartenenza ad un fondo, provenienza di questo e sua eventuale fusione con altri, sistemazione e organizzazione del fondo e del singolo pezzo al suo interno. Tale aspetto non è dissimile da quello dei beni architettonici inseriti in una struttura urbana. E infatti, nonostante molti si ostinino ancora a negarlo, esiste un preciso rapporto con il territorio (parola di cui si fa un grande uso, non sempre a proposito) anche dei beni librari, considerati non come singolo e magari “raro” pezzo, ma come insieme di raccolte che sono ad un tempo espressione e funzione dello sviluppo culturale di una realtà, regionale, cittadina, al limite di quartiere, che documentano il grado e le modalità di acculturazione delle varie classi, le stratificazioni cronologiche e sociali del processo, la maggiore o minore concentrazione di attività intellettuali e, di conseguenza, lo svilupparsi o il decadere dì centri di potere intellettuale.»