La trama è piuttosto complessa e, oltre ai personaggi principali (tra cui possiamo citare Jean Valjean, Fantine, l’ispettore Javert, Cosette e Mario), numerosi sono quelli secondari che popolano la storia. Del resto, le vicende narrate occupano quasi due decenni, dal 1815 al 1832, e in questo arco temporale non soltanto i personaggi evolvono e cambiano, ma è la storia stessa, quella della Francia di inizio Ottocento, a fare capolino tra le pagine. Non solo: la società, l’architettura di Parigi, il modo di vita dei “miserabili”, ma anche dei nobili e dei vescovi, ogni aspetto della società del tempo vi viene descritto con vividi dettagli.
In aggiunta, le vicende dei protagonisti sono spesso intervallate da digressioni in cui Hugo narra le principali vicende storiche del tempo – alcune pagine del romanzo sono ad esempio dedicate alla battaglia di Waterloo – oppure a riflessioni di tipo etico e morale sulle scelte di vita dei personaggi descritti.
Jean Valjaen, forse il personaggio più importante del romanzo, è appunto un “miserabile”: ha trascorso anni in prigione per il furto di un tozzo di pane e, al momento dell’apertura del racconto, è appena uscito dal carcere e si trova senza lavoro. Spinto dalla necessità, finisce per rubare delle posate d’argento al vescovo, Monsignor Myriel, che lo aveva ospitato per qualche tempo: “Nel suo cervello v’era una specie di oscuro andirivieni; i ricordi antichi e quelli immediati vi galleggiavano alla rinfusa, incrociandosi confusamente, perdendo forma, ingrandendosi a dismisura, per sparire improvvisamente, come se cadessero in un’acqua fangosa ed agitata. Gli venivan molti pensieri ma uno si ripresentava continuamente e scacciava gli altri; quel pensiero, diciamolo subito, gli presentava le sei posate d’argento.”
Quando però viene fermato dalla polizia, il vescovo, inaspettatamente, testimonia a suo favore, sostenendo di essere stato lui a donargli l’argenteria. Commosso e colpito dal gesto, Jean decide di rifarsi una vita: benché ancora sospettato del furto, riesce a trasferirsi in un’altra città, cambia nome e, quando finalmente riesce ad avviare la propria attività, cerca di redimersi dalle cattive azioni commesse nel passato aiutando per quanto può i meno fortunati di lui.
È in quel periodo della sua vita che Jean conosce Fantine. La donna, sfortunata quanto lui, ha trascorso un’esistenza piena di difficoltà. Licenziata dalla fabbrica in cui lavorava poiché aveva avuto una figlia la di fuori del matrimonio, fatto naturalmente considerato scandaloso, è costretta ad affidare la sua bambina, Cosette, alla famiglia Thénardier affinché possa avere una vita serena, o almeno questo è ciò che spera. Fantine invece, indifesa, senza una famiglia e senza un lavoro, ridotta in povertà, finisce per fare la prostituta, ed è in queste condizioni che la trova Jean. Giovanissima, bella, con i lunghi capelli biondi, Fantine, benché costretta a prostituirsi, “era ancora alla sua prima illusione”. Dice Hugo: “Fantine era uno di quegli esseri come sbocciano talvolta, per così dire, dal fondo del popolo. Uscita com’era dalle più insondabili tenebre sociali portava in fronte l’impronta dell’anonimo e dello sconosciuto.” Impietositosi per la sua situazione, Jean decide di aiutarla, prendendosene cura e facendo da padre a Cosette.
Nonostante i due sembrino in qualche modo riuscire a sfuggire al destino infausto che ha da sempre caratterizzato le loro esistenze, in realtà per i “miserabili” Hugo non fa balenare grandi speranze. Con questo termine infatti lo scrittore si riferisce ai deboli della società, a coloro che, avendo iniziato la propria esistenza in miseria, quasi mai riescono ad affrancarsi da questa condizione. E non importa quali stravolgimenti possa generare la Storia con la S maiuscola: rivoluzioni, imperatori, guerre, nulla è sufficiente per cambiare la condizione di questa povera gente. Sembra che nemmeno la loro forza morale sia sufficiente a redimerli, e un furto commesso in gioventù o l’errore di essersi fatti sedurre da un mascalzone sono destinati a segnare tutta la loro esistenza.
Sia Jean che Fantine sono infatti tenuti d’occhio da un ispettore di polizia, Javert. Questi nel romanzo ha il ruolo di detentore della legalità, ma non è certo meno miserabile degli altri, anche se dotato di un certo potere. “Javert”, ci racconta infatti Hugo, “era nato in carcere da una cartomante, il marito della quale era rematore sulle galere. Cresciuto, s’accorse d’esser fuori della società e disperò di rientrarvi mai; notò tuttavia che la società mantiene irremissibilmente fuori di sé due classi d’uomini, coloro che l’aggrediscono e coloro che la difendono. Egli aveva la scelta fra quelle due sole classi, e nello stesso tempo sentiva in sé un certo qual fondo di rigidità, di osservanza della legge e di probità, complicato da un odio inesprimibile per quella razza di zingari dalla quale era uscito; ed entrò nella polizia”.
Javert dunque sospetta che Jean sia quel Valjaen che un tempo aveva conosciuto in prigione, e sorveglia anche Fantine, la ex prostituta, cosicché i due non possono mai considerarsi del tutto fuori pericolo.
Inaspettatamente un ladro viene arrestato in quanto si ritiene che sia il vero Jean Valjaen e viene condannato all’ergastolo. Jean, che avrebbe la possibilità di tacere e di salvarsi, sceglie però la strada dell’onestà: si autodenuncia e finisce in prigione. Fantine frattanto muore, mentre Cosette è costretta a lavorare come serva presso la famiglia Thénardier, che avrebbe invece dovuto occuparsi di lei come di una figlia. Jean, fingendosi morto, riesce a fuggire di prigione, a trovare la ragazza e a rifugiarsi con lei in un convento.
Passano gli anni. Cosette cresce e si innamora di Mario, giovane ufficiale napoleonico. Quello tra i due è un amore intenso ma travagliato: lui finisce invischiato nei loschi affari dei Thénardier, lei è costretta di nuovo a fuggire con Jean alla volta dell’Inghilterra.
Mario, sconvolto dall’idea di non poter più rivedere la sua amata, decide di suicidarsi ma Jean, venuto a sapere da una lettera delle intenzioni del giovane, cerca di dissuaderlo raggiungendolo proprio nel bel mezzo degli scontri del 1832 tra gli insorti di Parigi e le truppe di Luigi Filippo. I due uomini si salvano scappando attraverso le fogne di Parigi. Sempre durante gli scontri, Jean si imbatte nell’ispettore che gli insorti vorrebbero uccidere: lo salva, ma Javert, non potendo sopportare l’onta di essere stato salvato da un uomo che per lui rimarrà sempre un criminale, si toglie la vita gettandosi nella Senna.
Altri anni trascorrono. Mario e Cosette sono riusciti a sposarsi, e Jean, che ha continuato a condurre una vita di fughe non essendosi mai sentito davvero al riparo dal pericolo, è affetto da una grave malattia. Così si conclude il romanzo: Jean muore ma, nonostante tutto, può almeno chiudere gli occhi circondato dall’affetto dei suoi cari: “Era rovesciato all’indietro e la luce dei due candelieri l’illuminava; la sua faccia bianca guardava il cielo, mentr’egli lasciava che Cosette e Mario gli coprissero le mani di baci: era morto.”
I miserabili è un libro che ne contiene mille altri, tante sono le storie che vi si intrecciano e le riflessioni che Hugo ci induce a fare nel leggerlo. E se si può credere che un libro scritto nell’Ottocento abbia perso di attualità, basta leggere le parole della prefazione, datata 1862, per ricredersi: “Fino a quando esisterà, per causa delle leggi e dei costumi, una dannazione sociale, che crea artificialmente, in piena civiltà, degli inferni e che complica con una fatalità umana il destino, che è divino; fino a quando i tre problemi del secolo, l’abbrutimento dell’uomo per colpa dell’indigenza, l’avvilimento della donna per colpa della fame e l’atrofia del fanciullo per colpa delle tenebre, non saranno risolti; fino a quando, in certe regioni, sarà possibile l’asfissia sociale; in altre parole, e, sotto un punto di vita ancor più esteso, fino a quando si avranno sulla terra, ignoranza e miseria, i libri del genere di questo potranno non essere inutili.”
Silvia Maina