“La forza dei sentimenti. Anarchici e socialisti in Italia (1870 – 1900)” di Elena Papadia

La forza dei sentimenti. Anarchici e socialisti in Italia (1870 - 1900), Elena PapadiaProf.ssa Elena Papadia, Lei è autrice del libro La forza dei sentimenti. Anarchici e socialisti in Italia (1870 – 1900) edito dal Mulino: quali passioni e sentimenti animavano i rivoluzionari italiani di fine Ottocento?
Passioni e sentimenti diversi, che hanno però due elementi in comune. Il primo è quello di essere molto intensi, al punto da condizionare talvolta intere esistenze – o addirittura, agli occhi di qualcuno, da sfiorare la patologia: una morbosa “iperestesia morale” era per esempio secondo Cesare Lombroso ciò che stava alla radice della devianza anarchica. Il secondo è quello di riversarsi sul terreno della politica: è la politica a fornire le parole, le categorie, gli strumenti (mentali e materiali) per trasformare questa sorta di piena emotiva in un progetto di vita e di società futura. Come scrisse uno psicologo di fine Ottocento ragionando sul nesso tra passioni e ragione, ““Non è la ragione che si serve della passione, ma la passione che si serve della ragione per arrivare a’ suoi fini”: non è un caso che questa citazione compaia in uno studio del 1903 su La psicologia del movimento socialista.

Questo testo peraltro è un buon punto di partenza per indagare meglio la natura dei sentimenti rivoluzionari: “un senso intimo di ribellione contro l’ingiustizia, una pietà sentita de’ dolori umani, una solidarietà istintiva con gli oppressi”; in effetti questo è l’essenziale. La Rivoluzione (la rivoluzione francese, intendo), aveva sottratto all’ordine naturale delle cose la miseria e la sofferenza altrui, rendendo l’una e l’altra inaccettabili e scandalose. E infatti molti romanzi ottocenteschi si alimentano di una sorta di “pornografia del dolore”, che è una spia importante del cambiamento in atto. Il progetto rivoluzionario traduce tutto questo in politica, e si tratta appunto di una politica ad alta temperatura emotiva: c’è l’amore per l’umanità – che si trova a dover fare i conti con l’amore nella sua forma privata, coniugale, intima; c’è l’amicizia nella forma quasi sacra della camaraderie rivoluzionaria – che talvolta confligge con un sentimento privato di amicizia; c’è l’odio per i nemici – che in qualcuno diventa il sentimento dominante, e si traduce in “pugnale e dinamite”. Il libro descrive tutto questo anche servendosi delle parole dei protagonisti, raccontando la loro vita e quella delle loro famiglie, muovendosi sul crinale che divide (ma allo stesso tempo interseca e collega) la sfera pubblica e la sfera privata dell’esistenza.

In che modo dinamiche familiari, letture, relazioni di amore e di amicizia, odi personali e politici contribuiscono a definire il lessico insieme politico e sentimentale del sovversivismo italiano di fine secolo?
Per rendersi conto davvero dell’importanza che l’ambiente familiare ha all’interno di questa storia non si può che partire dal dato relativo all’età anagrafica della larga maggioranza dei protagonisti: i rivoluzionari in Italia alla fine dell’Ottocento sono per lo più ragazzi di vent’anni. E molti di loro, almeno tra gli organizzatori delle associazioni dei lavoratori, sono borghesi: ciò significa che a vent’anni abitano ancora a casa, fanno ancora parte delle loro famiglie di origine. Per questo alle dinamiche familiari ho dedicato due capitoli del libro: il primo si concentra sul rapporto tra padri e figli, e ne esplora sia la declinazione “pacifica”, di solidarietà e reciproco rispecchiamento (personale e politico), sia la declinazione “antagonistica”, in cui la scelta politica dei figli si pone in contrapposizione aperta rispetto all’ordine morale e all’orientamento politico della famiglia. Il secondo capitolo indaga il rapporto dei sovversivi con le loro madri e le loro sorelle, ma racconta anche alcune storie di militanza femminile.

Per quanto riguarda le letture: leggere dei libri, rimanerne folgorati, era il modo in cui più frequentemente si accendeva la scintilla rivoluzionaria. I mondi di invenzione possiedono una straordinaria forza mobilitante, e negli ambienti giovani e saturi di idealità che stiamo descrivendo questa forza è moltiplicata; e così alcune storie, alcuni personaggi, alcune sequenze di versi concorsero a formare le sensibilità e a generare durevoli coscienze rivoluzionarie, fino a riflettersi in concrete scelte politiche e a travolgere in qualche caso intere esistenze. Attenzione: è di letteratura di finzione che sto parlando qui. Non di saggistica, non di pamphlet o manifesti o opere teoriche, ma di romanzi e di poesie. Gli ambienti rivoluzionari ottocenteschi furono insomma popolati da tanti Don Chisciotte, che erano tali non perché i loro nemici non esistessero – giacché esistevano eccome – ma perché si muovevano, agivano, sacrificavano eventualmente salute e fortune sulla base di una idea di derivazione in gran parte letteraria.

Se poi vogliamo elencare I testi che facevano parte di questa sorta di canone rivoluzionario troviamo in primo luogo i romanzi francesi, sulla linea che da I misteri di Parigi di Eugène Sue porta a I miserabili di Victor Hugo e poi ai romanzi di Zola; ma troviamo anche La capanna dello zio Tom e poi una serie di “romanzi sociali” italiani – penso ad esempio a La Plebe di Vittorio Bersezio, ma tanti altri se ne potrebbero citare – che avevano un mediocre valore artistico, ma riflettevano un gusto diffuso. Romanzi come questi, tutti giocati sulla compassione e sulla ricerca dell’empatia tra il lettore e il personaggio, contribuirono a creare un orizzonte emotivo all’interno del quale i diritti dell’uomo non erano solo un concetto astratto, ma si caricavano di emozioni e di urgenza politica.

Dal canto suo, la poesia ha mantenuto in Italia per tutto l’Ottocento – diciamo fino alla prima guerra mondiale – una centralità che l’avanzare del romanzo non è riuscita a scalzare: il Carducci giambico rimase per molti un riferimento imprescindibile ed ebbe una fitta schiera di seguaci, i quali alimentarono la vena copiosa della poesia protestataria e ribelle.

Di quali fonti si è servita per il Suo lavoro?
Per un lavoro come questo, che si pone sul confine tra pubblico e privato, le fonti soggettive – quelle cioè in cui è il soggetto stesso a parlare di sé – sono irrinunciabili. Dunque innanzi tutto ricordi, romanzi autobiografici, memorie: si può leggere un elenco di 34 titoli all’inizio del libro. Poi ci sono i carteggi, e in generale tutto il materiale biografico che si può rinvenire negli archivi privati dei singoli militanti. Ma una fonte molto preziosa sono stati anche i fascicoli personali conservati nel Casellario politico centrale, una sorta di anagrafe dei “sovversivi” (anarchici, socialisti, repubblicani, successivamente anche comunisti) istituita nel 1894 presso la Direzione generale di Pubblica sicurezza. Nei fascicoli veniva meticolosamente raccolto e conservato tutto il materiale utile a identificare e controllare chiunque fosse considerato un pericolo per la sicurezza dello Stato, comprese notizie sulla famiglia, sulla rete delle amicizie, sui comportamenti privati.

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