
di Ezio Raimondi
Il Mulino
«Sono nato in una casa dove non c’erano libri, anche se vi entrava il giornale della città. I libri sono arrivati con l’ingresso nella scuola e forse per questo, fin da ragazzo, li ho considerati una specie di aiuto necessario per crescere. Era la percezione anche dei miei genitori, che sapevano leggere e scrivere, ma avevano della cultura un’idea come di un orizzonte remoto. La mia infanzia è quella di un bambinetto di un mondo popolare, che segue un doppio binario: scolaro abbastanza esemplare e nello stesso tempo partecipante alla vita di una famiglia di artigiani, mio padre calzolaio senza bottega, mia madre donna di servizio. A seconda delle ore, la mia giornata trascorreva così tra il versante della lingua – se si va a scuola si parla italiano e si leggono libri – e quello del dialetto, in casa; tra l’esperienza intellettuale, i maestri, le cose che si imparano in classe e l’esperienza, invece, domestica, quasi di ragazzino di bottega, che svolgeva per conto del padre le funzioni di fattorino. […]
L’affermazione da cui sono partito, «non c’erano libri», va in realtà corretta: uno ce n’era, in casa, nascosto. Lo trovai un giorno, rovistando nel comò tra le vecchie cose: era l’edizione Nerbini de I miserabili. Era il libro del capezzale, per così dire, di mia madre (se ci ripenso, le uniche citazioni che faceva erano quelle delle donne eroine). Resta vero che il mondo affettivo della famiglia era affidato al dialetto, dialetto che mi era fatto divieto di parlare perché lo si pensava strumento di una classe subalterna, dalla quale ci si distingueva per l’uso della lingua nazionale, la macchina che riconosceva le differenze di classe e, allo stesso tempo, le combatteva. Il libro rappresentava così una sorta di salvatore, un compagno che mi conduceva in un paesaggio diverso. Anche i primi libri di lettura sono stati i libri di scuola: quelli della scuola elementare prima e della scuola superiore dopo. In quegli anni il libro scolastico – il primo e per un certo tempo l’unico disponibile – non era contrapposto al libro di fantasia: era la fantasia ordinata, che permetteva di crescere via via, pezzo dopo pezzo. La prima immagine della biblioteca si lega nella memoria a una bibliotechina di classe: ricordo ancora una lettura azzardata de Il circolo Pickwick di Dickens, di cui capii molto poco; probabilmente gli insegnanti avrebbero dovuto optare per un’introduzione… ma comunque la letteratura ispirava lo stesso, dava le sue impronte, le sue ragioni, i suoi impulsi, i suoi movimenti, le sue aperture. Sta di fatto che il libro scolastico aveva per me questa funzione, anche fantastica, e non lo avvertii mai come alternativo allo sbrigliarsi dell’immaginazione infantile. L’immaginazione infantile si riversava nel libro scolastico e il libro scolastico diventava il luogo del colloquio con un amico maggiore.
Ne veniva un’educazione istintiva al rispetto del libro e della sua funzione liberatrice, democratica. Sentivo per istinto che il rapporto con il libro annullava le differenze di classe: non c’erano più i poveri e i signori, ma uomini liberi che esploravano il possibile e, attraverso il fantastico e la sua raffigurazione, cercavano un senso più profondo del reale; nei libri c’erano gli esseri umani, con le loro verità, le loro parole profonde, le parole che toccano, che lasciano nel lago del cuore una risonanza che si prolunga nel tempo e mobilita quel tanto che c’è della nostra fantasia. Anche i manuali scolastici, allora tanto più modesti e magri di oggi nella loro costruzione, quasi dei quaderni, si arricchivano di questa esperienza vivente, di questo fermentare della ragione, che veniva in qualche modo praticato e percepito. Cresceva in me, ragazzo, una fiducia nel libro. Fin dall’inizio della mia esistenza di scolaro, esso era più di ciò che era – quasi l’annuncio e la presenza di un mondo diverso da quello corrente, ma che si congiungeva poi di continuo ad esso ed entrava nel rito famigliare. Se torno a quel passato, scopro che lì è l’origine della mia idea del libro come creatura vivente, quasi un amico, con una storia che, nella vicenda concreta degli scambi e delle letture, diventa storia aggiunta a quella sua propria. Il libro aveva come due dimensioni: quella del suo linguaggio alto, che mi portava per mano nel paesaggio delle idee, delle ragioni grandi, delle fantasie straordinarie; e quella di un rapporto diretto con la vita quotidiana che se ne arricchiva, in qualche modo, e che a sua volta accresceva il valore e il senso del libro stesso.»