“I gesuiti e i papi” di Claudio Ferlan e Michela Catto

Prima di rispondere alle domande, vorrei ricordare che il libro è il frutto di un lavoro di equipe, diretto non solo da me, ma anche dall’amica e collega Michela Catto. Manca un capitolo, al nostro libro, capitolo che secondo i nostri programmi avrebbe dovuto scrivere il professor Giovanni Miccoli. Il suo stato di salute non gli ha purtroppo consentito di portare a termine il saggio sul sentimento anti-gesuitico, e in particolare sul peso del rapporto tra Compagnia e Santa Sede nelle origini e nello sviluppo di tale sentimento. Giovanni Miccoli ci ha lasciati lo scorso 28 marzo. A lui, “gentile maestro di storia”, avevamo dedicato il libro, uscito a metà dicembre. Era il nostro segno di gratitudine e riconoscenza per il suo insegnamento e la sua amabilità, dimostrata una volta di più nelle conversazioni telefoniche che abbiamo avuto con lui per commentare i vari capitoli de “I gesuiti e i papi”.

I gesuiti e i papi di Claudio Ferlan e Michela CattoProf. Claudio Ferlan, Lei ha curato con Michela Catto l’edizione del libro I gesuiti e i papi pubblicato dal Mulino: i rapporti tra l’ordine e il papato sono stati tra i più turbolenti che la Storia abbia conosciuto, come mai?
Chi arriva al gradino più alto della scala gerarchica gesuitica, il professo dei quattro voti, aggiunge alle tre promesse tradizionali (povertà, castità, obbedienza) una quarta, secondo la quale si impegna ad andare ovunque il papa ordini di andare. È il quarto voto, tratto distintivo della Compagnia di Gesù. Si potrebbe pensare che questo specifico vincolo al pontefice sia stato, nella storia, garanzia di non-conflittualità. Non è così. L’obbedienza gesuitica è stata sempre caratterizzata da una complicata dialettica fatta di negoziazioni e confronti, che hanno riguardato anche la Santa Sede. Dal punto di vista romano, poi, un ordine religioso così eccentrico causò in diversi papi il timore di un’eccessiva autonomia, nonostante l’obbedienza: è un ordine privo di coro e di preghiera comune, organizzato secondo una rigida scala gerarchica e guidato da un generale eletto a vita (una novità che secondo alcuni lo rendeva troppo simile a un papa), orgoglioso di fare esplicito riferimento a Gesù nel proprio nome. Insomma, una realtà ingombrante che per di più allargò con incredibile rapidità il proprio campo d’azione, arrivando a essere presente in quasi ogni angolo del mondo e ad agire con spiccata originalità e indipendenza. Erano tutti tratti capaci di creare problemi, come di fatto accadde.

Quali furono i rapporti tra Papi e Gesuiti all’indomani della fondazione dell’ordine?
Ottimi con il “fondatore” dell’ordine Paolo III Farnese (1534-1549), che in Ignazio e nei primi padri riconobbe le potenzialità di uomini intellettualmente molto solidi e formati, in un momento storico che richiedeva una ridefinizione della vita monastica, in seguito alle tensioni con il mondo riformato. Un clima che esigeva anche nuove forze per amministrare le questioni legate all’espansione geografica, ai nuovi mondi da evangelizzare. Ottimi anche con Giulio III Ciocchi Del Monte (1550-1555), che comprese le necessità economiche dell’ordine appena fondato e agì di conseguenza. Pessimi con Paolo IV Carafa (1555-1559) che prima ancora di diventare cardinale aveva avuto a che dire con Ignazio di Loyola e che cercò di cancellare due fondamenti della Compagnia: l’abolizione del coro e l’elezione a vita del generale. Preso da altre urgenze, non riuscì a prendere i provvedimenti cui aveva pensato prima della morte e la grande abilità diplomatica del successore di Ignazio (morto nel 1556), Diego Laynez, consentì ai gesuiti di passare indenni gli anni del pontificato Carafa. Rapporti diversi e complessi, dunque, che segnano fin dalle origini l’intreccio Santa Sede / Compagnia di Gesù.

Come e perché si arrivò nel 1773 alla soppressione dell’ordine?
Una decisione così pesante si può spiegare solo prendendo in esame una catena di cause, per di più riconoscibili in avvenimenti e sentimenti geograficamente diffusi, a dimostrazione della dimensione globale della Compagnia. A occidente vi fu un aspro conflitto con gli imperi iberici, vincolato soprattutto alle fortune economiche e all’indipendenza, soprattutto dei gesuiti del Paraguay, ma anche con la Francia, sempre per ragioni finanziarie, legate questa alla bancarotta del gesuita Antoine de la Vallette. In oriente vi furono tensioni secolari con gli altri ordini e pure con la Santa Sede, legate soprattutto all’idea gesuitica che si potesse fare missione tenendo conto delle culture e delle religioni locali: mi riferisco alla cosiddetta “questione dei riti”. Un certo peso lo ebbe anche il successo dei gesuiti nell’educazione, un successo che segnò i loro collegi quale luogo privilegiato per l’educazione delle élites nel corso, almeno, dell’intero Seicento. La popolarità delle scuole gesuitiche non fu adeguatamente assecondata dai vertici della Compagnia, incapaci nel Settecento di rinnovare la propria offerta formativa e guardati per questo con sospetto dai nascenti Stati nazionali, sempre più interessati a giocare un ruolo importante nel mondo dell’educazione. Ancora, diversi gesuiti ricoprivano incarichi assai rilevanti nelle varie corti europee, cosa che li metteva sovente al centro di conflitti politici, ai quali essi spesso non avevano alcuna intenzione di sottrarsi, nonostante gli ordini dei superiori. Non va sottovaluta infine la posizione personale di papa Clemente XIV Ganganelli (1769-1774), che con tutta probabilità dovette la propria elezione anche a un accordo con i sovrani antigesuitici, i Borboni innanzitutto. Erano tempi in cui le potenze secolari avevano ancora un’influenza decisiva sulle nomine dei successori di Pietro.

Cosa indusse nel 1814 Pio VII a restaurare la Compagnia di Gesù?
Il cambio dei tempi, e con questo il cambio delle priorità della Chiesa. Va detto innanzitutto che passi verso la restaurazione erano stati mossi già da tempo in varie parti del mondo, al di là anche delle più note vicende della Russia Bianca, dove la zarina Caterina non aveva accettato di rendere esecutivo il breve di soppressione. Tra il 1773 e il 1814 ci furono cambiamenti epocali, le rivoluzioni in primo luogo. La Santa Sede si rese conto che la forza missionaria e didattica della Compagnia di Gesù era una risorsa da recuperare, cosa che si dimostrò fattibile anche per l’allentamento dei sentimenti anti-gesuitici di vari sovrani europei, per alcuni si potrebbe parlare anche di pentimento. Pio VII Chiaramonti (1800-1823) ebbe sulla restaurazione la libertà d’azione che era mancata ai suoi predecessori e agì di conseguenza. Fu probabilmente una scelta non troppo difficile, ma lo stesso non si può dire per la sua esecuzione, a fronte di un ordine smarrito, vivo soprattutto nella memoria di un gruppo di vegliardi costretto a soffrire pene quali l’esilio e l’oblio, per questo ben disposto ad arroccarsi su posizioni reazionarie. La Compagnia restaurata fece molta fatica a trovare la sua strada e la sua storia nell’Ottocento è davvero turbolenta.

L’ordine è legato al papa da uno speciale voto di obbedienza
Abbiamo già fatto sopra riferimento al “quarto voto” gesuitico, ma per commentarlo non è superfluo appoggiarsi sulla definizione di questo voto speciale, presente nella Formula costitutiva della Compagnia di Gesù: “In forza di esso, tutto ciò che l’attuale Romano Pontefice e gli altri suoi successori comanderanno come pertinente al progresso delle anime ed alla propagazione della fede, ed in qualsivoglia paese vorranno mandarci, noi, immediatamente, senza alcuna tergiversazione o scusa, saremo obbligati ad eseguirlo, per quanto dipenderà da noi; sia che giudicheranno inviarci presso i Turchi, sia ad altri infedeli, esistenti nelle regioni che chiamano Indie, sia presso gli eretici, scismatici o fedeli quali che siano”. Come si può leggere chiaramente, non si tratta di un vincolo di obbedienza assoluta al papa, piuttosto di un impegno missionario (progresso delle anime, propagazione della fede), una disponibilità incondizionata che la Compagnia sempre manterrà per essere attiva ovunque nel mondo, pronta a partire senza mai dire no. Sarà questa una promessa sempre mantenuta, ma che non mette al riparo dai conflitti. Partire per evangelizzare non necessariamente significa seguire sempre alla lettera le direttive della Santa Sede.

Nel testo si ricorda l’ulteriore scontro tra la Santa Sede e il generale dell’ordine ignaziano Franz Xaver Wernz
In verità il contrasto con Wernz non è uno dei più presenti nel nostro libro, vi accenniamo Michela Catto e io nell’introduzione, ma si tratta in effetti di un punto interessante nella storia delle relazioni tra gesuiti e papi. La questione verteva sul tentativo di conciliare ragione e fede, che portò diversi teologi gesuiti a muovere passi avanti verso un’apertura del dibattito sul modernismo, pesantemente osteggiato da Pio X Sarto (1903-1914). L’esempio più rilevante è quello di George Tyrell (1861-1909), un protestante irlandese convertitosi al cattolicesimo e fattosi gesuita che cercò di difendere la necessità di un aggiornamento teologico, segnato dal superamento dell’immobilismo legato agli insegnamenti tradizionali sulle Sacre Scritture. Tyrell pagò le sue aperture con l’espulsione dalla Compagnia e la sospensione a divinis. Pare però che Wernz non fosse così ostile a questo tipo di ragionamenti e pare (non vi sono certezze) che per tale ragione Pio X avesse pensato alla sua deposizione, ma la morte del pontefice e quella del generale avvenute a poche ore di distanza giunse a interrompere le tensioni. È un tema sul quale benvenute sarebbero nuove ricerche.

Più recente, è degna di attenzione la vicenda di Pedro Arrupe e il commissariamento dell’ordine da parte di Giovanni Paolo II
Si tratta in effetti della vicenda più nota dei rapporti tra gesuiti e papi e ce ne parlano Silvia Scatena e Gianni La Bella nei capitoli conclusivi del libro. Il 7 agosto 1981 Arrupe fu colto da una gravissima emorragia celebrale, che lo lasciò invalido. In quei giorni Wojtyla stava recuperando dalle ferite subite nell’attentato di Alì Agca. La guida della Compagnia di Gesù, come da norma delle Costituzioni, fu presa dal vicario designato da Arrupe, Vincent O’Keefe, uomo dalla mentalità tanto aperta da fargli spendere parole in favore dell’uso degli anticoncezionali, del sacerdozio femminile e dell’abolizione del celibato. Non erano posizioni conciliabili con la linea di governo del papa polacco, che, ripresosi, decise d’autorità di sostituirlo con Paolo Dezza, ottantenne gesuita piuttosto ostile ad Arrupe. La scelta causò un sentimento di sconforto all’interno dell’ordine ignaziano, simboleggiato dalle parole del teologo Karl Rahner, che scrisse a Giovanni Paolo II di come fosse difficile riconoscere “il dito di Dio” nel suo provvedimento amministrativo. Arrupe fu un generale viaggiatore, uomo di frontiera (come ama dire Bergoglio), che pagò con molto dissenso, interno ed esterno, le proprie attenzioni alla delicatissima situazione Latinoamericana dei penultimi due decenni del Novecento. L’eredità di Arrupe è notevole, tanto che ci ha persino portato al primo papa gesuita della storia.

Papa Bergoglio è il primo membro dell’ordine asceso al soglio di Pietro: con che conseguenze?
La domanda esula dalle competenze dello storico e induce necessariamente a staccarsi dalle ricerche che hanno portato a “I gesuiti e i papi” per assumere un tono pienamente personale. La scelta di Bergoglio, a mio parere, va analizzata sotto due aspetti fondamentali: il primo è il suo essere argentino, solo il secondo invece rimanda alla sua appartenenza all’ordine di Ignazio. È la testimonianza di uno spostamento del centro della Chiesa nel nuovo millennio, ed è probabilmente il segno che un ordine fondamentalmente insegnante e missionario è quello che meglio di tante altri componenti risponde alle esigenze attuali. Quanto alle conseguenze, pare di poter dire che Francesco stia testimoniando in maniera molto originale il cammino di Roma verso le periferie, dunque la missione, come c’è da aspettarsi da un gesuita. E lo fa con solide basi teologiche, nonostante le opinioni differenti dei suoi detrattori, che tendono a dimenticare come la teologia di cultura europea non sia affatto l’unica teologia disponibile.

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