“La passione del gusto. Quando il cibo diventa piacere” di Rosalia Cavalieri

Prof.ssa Rosalia Cavalieri, Lei è autrice del libro La passione del gusto. Quando il cibo diventa piacere, edito dal Mulino: nutrirsi è un’esperienza culturale?
La passione del gusto. Quando il cibo diventa piacere Rosalia CavalieriLo è certamente e a tutto tondo. Mangiare e bere sono l’espressione di un bisogno naturale coltivato dagli animali umani al punto da trasformarlo in un’esperienza culturale ricca e complessa, carica di significati, ma anche in uno dei maggiori godimenti della vita, un piacere sapientemente concepito ed elaborato con l’obiettivo di prolungarlo ben oltre le possibilità messe a disposizione dalla natura. Attingendo ad ambiti diversi del sapere, il mio ultimo saggio sul gusto ne esplora proprio la componente voluttuosa nelle sue molteplici declinazioni, con l’obiettivo di fornire, ancora una volta, una guida utile a scoprire e ad apprezzare questo senso accattivante e degno di essere finalmente riscattato dal suo rango “inferiore”. Facendo seguito ad altri due libri che ho dedicato a questo senso – Gusto. L’intelligenza del palato (Laterza, 2011), incentrato sul valore cognitivo e culturale del gustare come esperienza complessa in cui convergono necessità, piacere e sapere, e E l’uomo inventò i sapori. Storia naturale del gusto (Il Mulino, 2014), un saggio in cui ripercorro a grandi linee la storia evolutiva del gusto, una storia naturale e culturale insieme, a partire dai gusti delle scimmie e degli ominidi fino alla nascita della scienza gastronomica –, La passione del gusto si può considerare il completamento di una trilogia. La dimensione edonistica del gusto e di tutto ciò che a vario titolo lo coinvolge, incluso l’atto di cucinare il cibo, un atto che procura piacere tanto a chi lo cucina quanto a chi lo consuma, per noi umani è parte integrante della nostra cultura: e dopotutto gli innumerevoli modi che ci siamo inventati per appagare il piacere di mangiare ben oltre la soddisfazione della fame, scegliendo il cibo tra una vastissima gamma di alimenti sulla base di criteri diversi (nutrizionali, economici, estetici, edonistici, filosofici, salutistici, simbolici, ecc.), unitamente al fatto di produrre il cibo, di cucinarlo e di trasformarlo attraverso tecniche e tecnologie sempre più all’avanguardia – dando vita tanto all’arte culinaria, quanto alle scienze gastronomiche – e poi di assaporarlo, di degustarlo mediante l’uso della parola e di condividerlo, ne sono una conferma. Le ragioni della sensualità del gusto sono perciò profondamente radicate nella cultura umana, in quella alimentare specialmente, e nei suoi numerosi significati simbolici.

Dove e come nasce il senso del gusto e quali peculiarità possiede rispetto agli altri sensi?
In genere tendiamo a pensare che l’esperienza gustativa abbia origine nella bocca e questo ci porta a badare solo alle sensazioni avvertite dalla lingua e dal palato quel tanto che bastano a dirci se una pietanza sia o meno di nostro gradimento. Ma se proviamo a gustare un cibo chiudendo gli occhi e turando il naso e le orecchie, escludendo così l’accesso a gran parte delle sue proprietà organolettiche, quell’alimento risulterà insapore, cosa che accade anche quando siamo raffreddati. Ciò vuol dire che assaporare un cibo non è semplicemente avvertirne il gusto stricto sensu, percepire cioè i gusti elementari di ciò che portiamo nella bocca: il dolce, l’amaro, il salato, l’acido e il cosiddetto “quinto gusto” ovvero l’umami. Si tratta, piuttosto, del complesso risultato di una vasta gamma di stimoli sensoriali che interagiscono, perdendo così la loro singolarità, per restituirci una sensazione globale, d’insieme, che si imprime nella nostra memoria gustativa in modo indelebile. Assaporare una pietanza è un susseguirsi di sensazioni complementari in cui tutti i sensi entrano in scena, con l’olfatto protagonista: respirarne i profumi, ammirarne i colori e le forme, avvertirne gli aromi quando la mastichiamo, riconoscerne i gusti basilari, apprezzarne le consistenze, lasciarsi pungere dal pizzicore delle spezie, sentirne il suono quando la mordiamo e poi la mastichiamo. Se la vista ci offre le prime sensazioni relative all’aspetto, al colore, alla forma e all’impiattamento di una pietanza, le sensazioni gastronomiche più piacevoli e più strutturali ci vengono indubbiamente dal naso, sia quando avvertiamo gli odori che ce la fanno pregustare a distanza, sia e soprattutto quando la mastichiamo e la deglutiamo attivando l’olfatto retronasale, il maggiore responsabile della percezione della complessità del sapore. Il fatto di fondersi con il gusto e con il tatto orale spiega la scarsa consapevolezza del ruolo della percezione dell’olfatto nell’apprezzamento del sapore, in genere camuffato dalle altre sensazioni: da qui l’illusione che il godimento dei sapori arrivi tutto dalla bocca, alla quale in genere si attribuiscono erroneamente gran parte dei meriti del piacere alimentare. Ma la godibilità del cibo viene influenzata e sostenuta anche dal tatto orale, una componente interna del sapore generalmente sottostimata e tuttavia essenziale nella valutazione della piacevolezza di un cibo o di una bevanda, e ancora prima del suo gradimento, che ci dà un’immagine tridimensionale del cibo con cui viene a contatto, della sua consistenza e della sua temperatura. E se raramente pensiamo al suono prodotto dai cibi come a un tassello del sapore, non dimentichiamoci che è proprio l’accompagnamento sonoro prodotto dalla masticazione di certi cibi come le patatine, i cereali da colazione, le bruschette, i biscotti secchi, le fritture o un gambo di sedano, a rendere questi cibi appetibili. Credo sia questo il tratto più caratteristico del gusto, il suo essere una delle pochissime esperienze multisensoriali per definizione, il suo configurarsi come il senso più “esteso”, diffuso e sinestetico.

Gusti e disgusti hanno un’origine naturale o culturale?
Diciamo che una cosa non esclude l’altra. Il piacere di mangiare è condizionato da quello che in ogni cultura, come ha osservato Levi-Strauss, è pensato come “buono da mangiare”, e questo dimostra che non esistono alimenti buoni o cattivi in assoluto. Nelle diverse culture il piacere alimentare è regolato, entro certi limiti, da norme più o meno esplicite e più o meno severe che stabiliscono alimenti buoni da mangiare e alimenti vietati o considerati disgustosi: ne sono esempi la trippa, gli occhi di pesce, lo stufato di scimmia, la carne di serpente o quella di cane, gli insetti, i rospi o le lumache, vere prelibatezze per alcuni popoli e viceversa fonti di disgusto per altri. Se fin da piccoli poi abbiamo fatto un’esperienza positiva con un dato cibo, facilmente sviluppiamo una preferenza per lo stesso. Al contrario, un’esperienza negativa precoce può trasformarsi in un disgusto permanente e tale da accompagnare una persona per decenni, e anche per tutta la vita. Gusti e disgusti, perciò, oltre a essere socialmente e culturalmente determinati, sono condizionati anche dalle esperienze individuali. Ma se ci piacciono certi cibi e non altri questo dipende anche dalla nostra biologia. Un’altra risposta al perché delle nostre preferenze alimentari la troviamo infatti nella nostra storia evolutiva, una storia in cui predilezioni e avversioni si sono rivelate essenziali per la nostra sopravvivenza: da qui la preferenza innata per gli zuccheri (e per i grassi), fonte di energia, e una certa avversione per l’acido e l’amaro riconosciuti come indici di pericolo e di tossicità. Queste avversioni tuttavia possono tramutarsi in fonti di piacere negli adulti, al punto da farci apprezzare cibi e bevande amare o acide e da tramutare la sensazione di dolore causata dalla piccantezza delle spezie e del peperoncino in piacere. La biologia spiega anche perché ad alcune persone piacciono cibi molto amari o acidi, mentre altre non ne tollerano neppure la minima traccia: una prova del fatto che non tutte le bocche sono uguali. Ricerche scientifiche condotte da Linda Bartoshuk per spiegare la variabilità delle preferenze alimentari dimostrerebbero, infatti, che non tutti abbiamo lo stesso numero di recettori gustativi e questo determina delle differenze significative nella percezione dell’intensità delle qualità gustative basilari: così i supertasters non tollerano, per esempio, il caffè amaro o le verdure amare, sono particolarmente sensibili all’acidità e alla piccantezza; i nontasters al contrario, avendo un numero nettamente inferiore di calici gustativi, sono poco sensibili a questi gusti. Tra questi due estremi si collocano invece i tasters, ovvero i gustatori medi ,che rappresentano all’incirca il 50% della popolazione.

Il cibo ha assunto recentemente una fortissima rilevanza mediatica: come mai?
Una conseguenza dei mutamenti socioeconomici degli ultimi decenni è la drastica riduzione del tempo dedicato alla preparazione del pasto, alla sacralità della cucina e alla convivialità della tavola. Per contro, oltre a delegare la cucina all’industria alimentare, che ci propina una grande varietà di cibi pronti e conservati, ricchi di sapore e piacevoli al palato, spesso progettati per creare dipendenza e tutt’altro che salutari, abbiamo fatto ricorso a forme compensatorie di cui il fenomeno ancora più recente della spettacolarizzazione del cibo e della cucina è un’espressione, complice il primato indiscusso della vista. Mai come al giorno d’oggi il cibo e la cucina sono stati in assoluto l’argomento più presente negli attuali palinsesti televisivi non solo italiani. A tutte le ore in TV si spadella, si soffrigge, si sfiletta, si taglia, si sbuccia, si manteca, si spennella, si scioglie, si frulla, si inforna, tutto rigorosamente dal vivo, mostrando agli spettatori come preparare ogni sorta di pietanze passo dopo passo con piatti più o meno scenografici. Ma a fronte di tutto questo spadellare in TV, di guardare la gente che cucina e che parla di cibo in televisione, e anche di gente che tagga, twitta e instagramma foto di piatti sui social, di gente che legge e sfoglia libri e riviste di ricette o guide enogastronomiche, si cucina sempre meno nascondendosi dietro il pretesto dello scarso tempo a disposizione, della mancanza di energia o della scarsa inclinazione culinaria. Siamo tuttavia sempre più attratti dal cibo e dal lavoro dei cuochi, che ci offrono in diretta un’esperienza surrogata dell’elaborazione culinaria, veicolata dalle immagini visive, un piacere godibile prevalentemente con gli occhi, di accesso facile e immediato ma inodore e insapore. Insomma, sembra che ci basti guardare altri che lo fanno per noi per sentirci appagati: un fenomeno che il giornalista americano Michael Pollan, una delle voci più note e meno ortodosse nel dibattito globale sull’alimentazione, definisce il “paradosso della cucina”. Se dunque ci piace guardare la gente che prepara da mangiare in televisione e leggere libri che parlano di gastronomia verosimilmente è perché di alcuni aspetti della cucina sentiamo proprio la mancanza e poi perché la cottura è una delle attività culturali più specifiche della nostra specie, sicché osservarne i processi presumibilmente ci coinvolge nell’intimo.

Cos’è il food porn?
Negli ultimi decenni la passione del gusto ha raggiunto nuove frontiere e il piacere alimentare ha trovato forme di soddisfazione impensabili fino ad alcuni decenni fa, complici anche i cambiamenti socioeconomici. Alla spettacolarizzazione mediatica del gusto e della cucina, ridotti a un evento da godere prevalentemente con gli occhi, si è affiancato un altro fenomeno noto come food porn, una modalità di food photography che esalta anche il più piccolo dettaglio del cibo attraverso inquadrature sensuali: dall’aspetto, alla presentazione nel piatto, all’inquadratura (per lo più dall’alto), all’angolazione, alla luce, alla disposizione degli oggetti sulla tavola, con un’attenzione particolare per le sfumature più scabrose. L’obiettivo è di rendere il cibo visivamente irresistibile e accattivante, socializzandolo virtualmente attraverso la condivisione di foto di piatti tali da generare un piacere voyeuristico. L’espressione, usata per la prima volta dalla critica Rosalind Coward in un libro del 1984, di fatto etichetta un fenomeno trasversale che si è espanso a macchia d’olio, complice la tecnologia digitale, i social e le applicazioni che favoriscono la condivisione di immagini culinarie più o meno goduriose e/o artistiche, talora anche disgustose, e tuttavia accomunate da un piacere volto a lusingare gli occhi piuttosto che il palato: un tipo di fotografia culinaria succulenta, lussuriosa, colorita, bella da vedere, capace di suscitare una certa eccitazione, stimolando l’appetito per qualcosa che nell’immediato si può solo guardare e desiderare di condividere. Ma come il fenomeno della cucina mediatica, anche quello degli “scatti di gusto” rivela una certa tendenza a snaturare la reale funzione cui dovrebbe assolvere il cibo: nutrire e dare piacere degustandolo con tutti i sensi, nessuno escluso, nella dimensione conviviale della tavola.

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