“Fontamara” di Ignazio Silone: riassunto trama

«Fontamara venne scritto nel 1930, in un momento in cui Ignazio Silone era costretto all’inattività da una grave malattia e quando già andava maturando la svolta ideologica che lo allontanò dal partito comunista. Apparve prima in tedesco nel 1933, e un anno dopo in italiano, ma solo nel 1947 fu pubblicato in volume anche in Italia. Intanto il romanzo era stato tradotto in molte lingue e aveva riscosso un successo rilevante, che la critica italiana registrò con un certo ritardo. Infatti, dopo la censura fascista, che aveva rifiutato all’opera di Silone il «visto d’entrata», fu ancora una ragione ideologica a pesare sul romanzo poiché la critica di sinistra, che nel dopoguerra era la più attiva e vivace, mostrò qualche preclusione ideologica verso Silone, per la sua defezione dal comunismo.

Nella Prefazione del romanzo viene costruita la finzione che dà vita al patto narrativo: una famiglia di cafoni fontamaresi si è recata dallo scrittore in esilio e racconta a tre voci gli ultimi eventi che li hanno costretti a fuggire. In questo modo la narrazione è sempre in prima persona ma l’azione può spostarsi da quanto capita in paese, quando gli uomini sono al lavoro (la parte narrata dalla madre), a quello che sperimentano gli uomini (in questo caso è il vecchio che racconta), a quello che succede a Roma a Berardo Viola, l’eroe del romanzo, in quanto il «figlio» lo aveva seguito nella ricerca di un lavoro. La narrazione è quindi affidata a tre narratori, ognuno dei quali racconta la parte che ha direttamente vissuto.

Nella Prefazione c’è anche un’enunciazione di poetica che può essere sintetizzata in pochi punti:
a) se Fontamara è un luogo d’invenzione, la realtà che esso rappresenta è autentica ed è quella di gran parte del Meridione; i contadini di Fontamara non solo sono come tutti gli altri contadini meridionali, ma assomigliano a quelli di tutto il mondo;

b) la narrazione rifuggirà da ogni abbellimento e avrà un carattere di verità; per questo potrà anche stupire e distruggere dei luoghi comuni che la letteratura ha creato sul mondo contadino;

c) il racconto dei tre cafoni verrà «tradotto» in lingua italiana per ovvie esigenze di comunicazione, ma senza cercare un carattere letterario; resterà invece autentico il modo di raccontare, e cioè un modo chiaro, piano, ordinato che mette i fatti in fila uno dopo l’altro, così come sono accaduti.

Per quanto riguarda la struttura narrativa e il linguaggio, Silone annuncia esattamente quello che il lettore troverà nel romanzo; l’impegno di verità di cui parla trova, invece, una realizzazione solo parziale. Infatti, il dato che si evidenzia fin dal primo episodio delle donne che vanno a protestare per la deviazione dell’acqua, è una nota eccessiva, una coloritura troppo forte che fa qualche volta sconfinare nel grottesco la verità che l’autore vuole invece denunciare. D’altra parte si consideri come, a livello di struttura, Silone non riesca a rinunciare all’eroe, al protagonista e incentri da un certo momento in poi il romanzo sulla figura di Berardo, sulla sua storia d’amore e poi sul suo sacrificio.

Anche la finzione che vuole come narratori la famiglia di cafoni impoverisce il racconto impedendo una prospettiva esterna, critica. Questo narrare dal di dentro, che esclude l’intervento del narratore, risulta infatti troppo naive, troppo sprovveduto e non compensato da un carattere di epicità e di coralità capace di dare alla «povertà» di queste voci lo spessore di una cultura, di una civiltà che in esse si riconosce. Inoltre questi cafoni non “sono sempre credibili, sia come protagonisti sociali di un momento storico, sia come personaggi letterari. Ad esempio, lascia perplessi leggere che all’inizio dell’estate del 1930, i contadini non sanno come mai ci sono degli uomini che portano la camicia nera, eppure risulta che sanno leggere, e alla fine dell’estate ciclostilano un giornale clandestino. Sul piano letterario sono personaggi senza spessore che spesso sconfinano nel cliché della macchietta, della figurina o dell’eroe. Accade insomma che l’impegno di testimonianza da cui nasce il romanzo prende un poco il sopravvento sulle ragioni letterarie e l’autore per voler essere chiaro irrigidisce la ricostruzione dell’ambiente, dei fatti e dei personaggi in una semplificazione eccessiva, che tradisce la verità stessa.

Riassunto

Fontamara è il nome inventato per indicare un piccolo paese della Marsica, nelle montagne d’Abruzzo, dove la vita è grama e dove i contadini e i piccoli proprietari (i cafoni) vivono assai duramente. I fatti raccontati avvengono durante il fascismo, negli anni 1929-30, ma i cafoni di Fontamara non sanno nemmeno che a governare l’Italia non sono più i «Piemontesi», ma il duce, che al sindaco è stato sostituito il podestà.

Il romanzo inizia con un sopruso più grave di altri, la deviazione del ruscello da cui i contadini traggono l’acqua per il loro campo. Ne beneficia «l’Impresario», nuovo ricco e nuovo potente, uomo legato al regime e al podestà. Inizialmente il protagonista delle vicende è l’intero paese: le donne che vanno a protestare per il furto dell’acqua, gli uomini che si trovano alla cantina di Marietta o nella strada che li porta al lavoro. Per un momento essi sperano nella distribuzione delle terre del Fucino prosciugato, invece sono portati nel paese vicino, Avezzano, per l’«adunata oceanica» che deve accogliere un ministro in visita. Ai soprusi e agli imbrogli, si somma anche la spedizione punitiva dei fascisti che violentano le donne e fanno una specie di grottesco esame «politico» agli uomini.

Da questo momento nel romanzo prevale la figura di Berardo Viola, nipote di un brigante, forte, fiero, istintivamente ribelle. Egli diviene il punto di riferimento delle speranze di ribellione, una specie di capo naturale, di simbolo soprattutto per i giovani, per quelli che ancora non sono rassegnati. Ma Berardo è anche innamorato di Elvira, una ragazza bella e schiva che egli ritiene di non poter sposare perché non ha più la terra, l’ha venduta quando credeva di poter emigrare in America, prima della legge che lo proibiva. Ritornare proprietario di un campo diviene così l’ossessione di Berardo che a questo fine fa tacere anche i suoi impulsi di ribellione. Va a cercare inutilmente lavoro a Roma ed è vittima ancora una volta della corruzione, della burocrazia. Sfumano le illusioni di un lavoro e nel contempo arriva la notizia della morte improvvisa di Elvira.

Avviene a questo punto l’incontro casuale con un sovversivo già visto ad Avezzano e l’arresto per un errore dei tre (Berardo ha portato con sé a Roma il giovane fontamarese che racconta questa parte della storia). Nella prima notte passata in carcere, il nuovo compagno parla a Berardo del «Solito Sconosciuto» che la polizia inutilmente cerca e che organizza l’opposizione al regime; Berardo è conquistato alla causa e il suo primo gesto è di confessare di essere il «Solito Sconosciuto», in obbedienza ad un impulso di martirio che gli fa sopportare interrogatori e torture. Il compagno viene liberato e riprende la sua attività sovversiva stampando un giornale su Fontamara in cui si esalta Berardo Viola. Di fronte a questo giornale clandestino che gli è mostrato dalla polizia, egli trova la forza di resistere alle ulteriori torture fino a morirne. Intanto a Fontamara si organizza la lotta antifascista, si stampa persino il giornale dei cafoni titolato «Che fare?». Tutto questo fino alla repressione, da cui si salvano per caso i contadini che raccontano in prima persona la vicenda.»

tratto da Letteratura italiana. Storia, forme, testi. 4. Il Novecento di Giovanna Bellini e Giovanni Mazzoni, editori Laterza

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