
Che legame istituisce con l’eredità classica la poesia cinquecentesca?
Il legame tra eredità classica e poesia cinquecentesca è un legame complesso, che agisce a molti livelli. Prima di tutto la presenza dei classici nella lirica moderna può toccare da elementi minimi (la ripresa lessicale ed espressiva) fino all’idea del testo o dell’intero componimento nel caso dell’imitazione, o ancora all’invenzione dell’opera nel suo complesso. Oltre alla dimensione verticale, di profondità, si riscontra una varietà anche dal punto di vista orizzontale, sul piano della quantità dei rapporti, che fa sì che il sistema derivante dalla combinazione degli assi assuma forme molto diverse. In alcuni casi l’allusione o la reminiscenza classica è un fenomeno puntuale, in altri diviene più diffusa ma rimane una delle componenti del testo, in altri ancora essa diviene un fatto molto ricorrente, se non addirittura costante, e conferisce al testo una lingua e uno stile latineggianti (o grecizzanti), infine in molti casi nasconde e rivela un riferimento più ampio all’occasione del testo o ai testi d’origine e alla cultura che ne costituiscono il presupposto. L’eredità classica si può configurare dunque tanto come un elemento che impreziosisce e nobilita il dettato poetico, quanto come una chiave di lettura del testo moderno, specie quando la ripresa di tessere antiche si inserisce nel recupero del genere cui appartiene la fonte. Entrando più nel dettaglio, la forte intertestualità classica nella poesia cinquecentesca svolge numerose funzioni al di là di quella stilistica, dell’ampliamento della gamma tematica ed espressiva della tradizione petrarchesca e volgare, dell’evidenziazione delle analogie situazionali ed esistenziali, dell’intensificazione della lode o dell’argomentazione grazie all’exemplum. Faccio alcuni esempi: nella lirica amorosa le allusioni classiche fungono spesso da filtro che permette di introdurre sottilmente una vena sensuale ed erotica nei testi, i quali in forma esplicita non avrebbero superato la censura ecclesiastica (ad es. sia in poesia che in pittura l’impiego di figure mitiche, specie del mondo bucolico, al posto di persone consentiva di parlare di un bacio o addirittura dell’unione carnale); sullo sfondo del grande interesse per le statuette antiche la poesia dà voce alle dinamiche che ruotavano attorno al collezionismo e chiarisce il significato degli oggetti (le famose statuette del Cupido dormiente, ad es., alludevano a un’articolata riflessione sull’amore, sulla condizione del sonno e su virtù e passioni); ancora, nella poesia politico-encomiastica la creazione di un collegamento tra una dinastia contemporanea e una classica poteva servire a legittimare il potere della prima in un determinato territorio di cui non era originaria (pensiamo agli Aragonesi a Napoli). Insomma, è superfluo proseguire nell’elenco, la pluralità di rapporti istituiti con il patrimonio antico è grande e non circoscrivibile: sia sufficiente dire che nel libro è entrata solo una parte di tutto quello che è emerso nella mia ricerca, la parte che mi è parsa più significativa per comprendere il senso dell’esperienza lirica in quel periodo.
In che modo l’ambito lirico, più degli altri, ha sofferto l’imitazione del modello petrarchesco?
L’ambito lirico non ha tanto sofferto l’imitazione del modello petrarchesco (che, di per sé, non ha nulla di male), bensì ha subito una riduzione a quel modello da parte della critica: il problema, cioè, risiede nel fatto che a differenza degli altri ambiti artistici la lirica rinascimentale è stata a lungo concepita come un esercizio di stile volto all’imitazione esclusiva di Petrarca. Naturalmente l’origine di questa opinione risiede nell’importanza assunta dagli Asolani e dalle prose Della volgar lingua di Bembo nella formazione di un linguaggio letterario unitario fondato sul recupero della lingua di Petrarca e Boccaccio, ma anche nella società galante del Cinquecento, in cui vigeva un codice comportamentale simile a quello della poesia amorosa, sì che vi fu un rapporto di reciproca influenza. Tali componenti sono in effetti presenti ed endemiche nella lirica di questo periodo, e le antologie “petrarchiste”, studiate soprattutto con una lente sociologica, confermano la diffusione del modello petrarchesco e la sua funzione specifica. Nondimeno tale focalizzazione sull’aspetto grammaticale e linguistico-stilistico, nonché sociologico, supportata dai pregiudizi di lunga data che colpiscono il petrarchismo, benché abbia portato a una comprensione del fenomeno nel suo insieme, ha altresì indotto gli studiosi e i lettori a fermarsi alla superficie dei testi e dunque alla patina petrarchesca, a scapito della caratterizzazione individuale dei poeti e della comprensione puntuale del significato dei testi.
Quale analogia è possibile ravvisare, nella linea classicista, tra le condizioni socio-culturali e politiche del Rinascimento e quelle del periodo augusteo?
La prima cosa da dire è che, contrariamente a quanto spesso si ripete in merito ai poeti rinascimentali, gli elegiaci latini e Orazio nei loro versi avevano ritratto la realtà quotidiana in maniera più fedele rispetto ai loro predecessori, sebbene non avessero rinunciato al culto dell’eleganza e del decoro, e avevano portato avanti il progetto dei poetae novi di valorizzare la componente passionale e lirica dell’individualità, due novità che furono molto apprezzate nel Cinquecento. Come aveva già capito tempo fa il grande latinista Antonio La Penna, il classicismo è stato «una tendenza verso il realismo», inteso come opposto della letteratura d’evasione, e in quanto tale ha agito in larga parte nella tradizione occidentale. Nel caso specifico gli scrittori individuarono nei poeti del periodo augusteo una figura che dava conto sia dell’identità dell’autore sia dei rapporti intessuti da quest’ultima con le altre realtà. Essi avevano finalmente la possibilità di presentarsi senza maschere, a differenza di quanto succedeva regolarmente in ambito cortigiano. Il poeta cinquecentesco è perciò una figura ben calata nel presente, che trasforma gli episodi della cronaca in occasioni, facendosi portatore di un’esperienza sentimentale o celebrativa di valore eterno, la quale diviene un’esperienza di conoscenza e di formazione psicologica mostrando tutta la portata della scrittura (lo aveva affermato, in pagine mirabili, anche Piero Floriani). A partire da questa premessa si può ragionare sulle analogie tra le condizioni dei poeti augustei e quelle dei poeti moderni. Prima di tutto, con la progressiva scomparsa delle corti e della poesia cortigiana, la lirica, pur continuando a circolare privatamente in cerchie ristrette, cominciò ad ambire a un pubblico più vasto, prima “italiano”, poi universale: volle parlare ai posteri e sopravvivere per l’eternità. Orazio ovviamente rappresentò un modello imprescindibile per la sua idea monumentale della poesia, ma anche per l’elaborazione di uno stile medio, adatto a una società urbana ed elegante e dunque pronto per essere trasposto nel quadro cinquecentesco. Sul piano culturale e sociale, inoltre, il modello augusteo offriva plurimi addentellati, in quanto aveva come base il principio del decorum, della convenienza di interno ed esterno, materia e forma, domanda e risposta, proposta e aspettativa (e l’elenco potrebbe proseguire), dimodoché il comportamento e la scrittura stessa erano regolati, seguivano un codice condiviso definito perlopiù dalla retorica, che insegnava come presentarsi, comportarsi, operare nello spazio sociale e letterario e all’intersezione di entrambi. Questa disposizione è la stessa che ha determinato la fortuna della forma del dialogo nel Cinquecento. Dialogo che era una componente essenziale pure nei rapporti tra scrittori e potere, giacché in un momento in cui erano venuti meno il contesto della corte e con esso la funzione dell’intellettuale, la stabilità politica (sulla scorta delle guerre d’Italia), le certezze circa il senso della storia in apparenza dominata dal caso, i poeti cercarono di riconfigurare il loro ruolo per riguadagnare un posto e una funzione nella società, ma questo comportò un sacrificio, com’era già stato con l’avvento al potere di Ottaviano Augusto e l’impero, dopo un periodo di forte instabilità: soltanto la pace poteva assicurare le condizioni per l’ottenimento della tranquillitas animi e così di una vita dedita all’otium, allo studio e alla scrittura, pertanto era necessario riconoscere il potere, che, da una parte, era il garante della securitas e di una libertà interiore, dall’altra imponeva delle richieste proprio in quanto imbrigliato nella storia, nei suoi problemi. È da questa tensione tra un desiderio di vita appartata e studio e un dovere politico-civile che nasce molta lirica cinquecentesca, i poeti non si ritrassero di fronte alla sfida e cercarono individualmente una soluzione al conflitto tra la propria vocazione di lirici amorosi e la necessità di affrontare temi storico-politici nei propri versi, assoggettando la loro produzione al potere. Proprio questa disposizione al dialogo permise un reciproco riconoscimento tra sfera pubblica e privata, politica e letteraria, come era stato, appunto, sotto Ottaviano Augusto. In entrambe le epoche è infatti raro, se non impossibile, trovare poeti che appartenessero agli strati alti della società e potessero quindi mantenersi senza il bisogno di un padrone: il mecenatismo era una necessità. Non a caso quasi tutti gli autori considerati in questo studio non erano stipendiati dai loro signori per scrivere versi, bensì per svolgere compiti e assumere cariche di tipo politico-diplomatico, e molti inseguirono la via dei benefici ecclesiastici o della carriera ecclesiastica vera e propria per raggiungere una condizione agiata. Ma questa scelta fu sempre accompagnata dalla rivendicazione di una propria autonomia nella scrittura e dalla difesa del valore della lirica amorosa, privata: in mondi dominati dal caso e dalla fortuna, gli scrittori augustei e cinquecenteschi rinunciarono ad ottenere gli onori pubblici e ad ambire alla ricchezza di una carriera pubblica e specie militare, consapevoli che in quel momento l’unico controllo possibile era quello esercitato sul proprio piccolo angolo e che non restava altro che ripiegarsi nella sfera privata, affidarsi ai valori dell’amicizia e della famiglia.
Quali caratteristiche presenta, al di là della patina petrarchesca, il linguaggio poetico rinascimentale?
Il linguaggio poetico rinascimentale è certamente contraddistinto dalla patina petrarchesca se osservato nel suo complesso e a tutti gli strati della produzione, tuttavia singoli autori, ambienti e generi hanno formulato declinazioni particolari di questo paradigma attraverso l’innesto di elementi estranei (o non specifici) al linguaggio petrarchesco o mediante il rafforzamento di componenti presenti nell’autore aretino: ad esempio la componente classica, con il connesso preziosismo lessicale (magari mediato dall’esperienza quattrocentesca, polizianea), la lingua dantesca della Commedia, ma anche quella dello Stilnovo (si pensi al rilievo della giuntina di rime antiche pubblicata nel 1527), il linguaggio religioso-spirituale. Tutti questi innesti avevano diversi obiettivi, da quello espressivo fino a quello dell’ampliamento del repertorio petrarchesco, che non esauriva tutte le possibilità e non permetteva di esprimere determinati temi e situazioni estranei ai Fragmenta e ai Triumphi. Ciò non significava per forza abbandonare il modello petrarchesco e andare nella direzione del plurilinguismo, ché, come aveva spiegato lo stesso Bembo nell’epistola De imitatione, la scelta di Petrarca come modello per la poesia non significava un divieto di uscire da quel recinto: l’imitazione consisteva nell’assunzione di un esempio e nel trasferimento dello stile di quell’autore eletto e delle sue regole di scrittura nella propria opera, secondo il principio della somiglianza. Per il veneziano dunque l’imitazione di Petrarca lasciava spazio all’adozione di res, verba e figurae di provenienza diversa, purché non compromettessero il monostilismo: questo di operazione, definita sumere, era infatti ritenuta diversa dall’imitari e trovava una legittimazione in un passo dell’Ars poetica in cui Orazio difendeva la liceità dell’invenzione di nuove parole se necessario, a condizione però che esse fossero modellate sulla lingua greca. Bembo dunque fece proprio il precetto oraziano e lo ampliò agli altri livelli del discorso poetico.
Che rapporto intrattiene con la realtà contemporanea la lirica cinquecentesca?
Spesso si legge che l’esperienza poetica (o addirittura letteraria) rinascimentale è qualificata dal distacco dalla realtà, dall’evasione in un mondo dominato da amori, ninfe e pastori, e da un’operazione meramente intellettualistica, quasi combinatoria, che consiste nel trasformare il testo in un insieme di allusioni a Petrarca (e ai classici). In realtà la situazione è affatto complessa e differenziata: innanzitutto noi siamo abituati a parlare della lirica di stampo amoroso, in cui il rapporto con la realtà sembra meno forte a causa della forte tipizzazione dell’immagine della donna (e pure su questo aspetto in realtà ci sarebbe molto da dire, a partire dalla constatazione di Guglielmo Gorni che in questa fase «nessuna donna più monopolizza l’inventio» dei libri, i quali danno sì conto della storia psicologica dell’autore, ma riflettono pure un «colloquio di società, con regole e con interlocutrici nuove»). Al di là della lirica amorosa, dicevo, c’è una larga fetta di poesia lirica di stampo politico-encomiastico che dà voce alla realtà contemporanea, alle sue strutture e alle sue contraddizioni. Innanzitutto il periodo considerato nello studio comincia con due eventi storici traumatici, la discesa di Carlo VIII in Italia, che dà avvio alle Guerre d’Italia (1494), e la morte del Magnifico (1492), che fu interpretata come la fine di un mondo, quello delle corti, in cui si dava un rapporto reciproco tra politica e letteratura, in quanto gli scrittori avevano una collocazione stabile ai piani elevati della corte ed erano riconosciuti e stipendiati per comporre opere letterarie. Tutto ciò sparisce sul finire del secolo provocando un generale spaesamento, rafforzato violentemente dalle guerre che si succedettero in quegli anni e nei decenni successivi e che alimentarono una percezione della storia come dominio del caos (si pensi al capolavoro di Ariosto). Anche nella lirica notiamo un (iniziale) disorientamento, che si traduce stilisticamente, ad esempio, in figure di accumulazione prive di una logica, che traducono proprio questa visione frammentaria e disordinata del mondo, priva di un centro. E fu quest’ultima a determinare l’esigenza, sempre più pressante, di una «lettura ordinata del mondo e della storia» (l’espressione è ancora di Piero Floriani), che nella lirica e nella letteratura si tradusse nella creazione di un sistema letterario fondato in larga parte sui generi classici. Con il passare dei decenni, l’avvicendarsi dei papi e la transizione verso una prospettiva imperiale con Carlo V, gli intellettuali e i poeti riconquistarono uno spazio a ridosso del potere, tuttavia nella maggior parte dei casi, come ho accennato, dovettero svolgere funzioni politico-diplomatiche per garantirsi uno stipendio e quindi poter scrivere nel poco tempo restante. Per tale ragione la lirica cinquecentesca concede largo spazio all’encomio di sovrani, signori e figure di spicco del panorama pubblico, al commento delle vicende storico-politico coeve e alla loro celebrazione, nonché a tutte le forme sociali di augurio, congratulazione, complimento. Ma non bisogna intendere tutto ciò solo come un esercizio di pura piaggeria: certo, il “contratto” tra padrone e poeta prevedeva implicitamente l’obbligo della lode, e gli autori, soprattutto a partire dal medio Cinquecento (e poi ancor più nel secondo), ricevevano richieste pressanti di comporre versi in lode e vi era una componente di standardizzazione e ripetizione; nondimeno i poeti condividevano spesso il programma politico-culturale dei loro signori e aderivano ai valori propugnati da questi, e, talvolta, arrivavano addirittura a instaurare rapporti di amicizia con loro, sì che la poesia diventava uno specchio dei legami effettivi che si formavano in una società tanto codificata. Infine, è doveroso ricordare che la poesia era uno dei luoghi privilegiati dell’autorappresentazione di sé (del Self-Fashioning secondo la nota formulazione di Stephen Greenblatt): i poeti, attraverso l’io lirico, la costruzione del proprio libro, la messa in scena dei rapporti con il potere e la società, tanto in prospettiva amorosa quanto politica, costruivano l’immagine che volevano comunicare al mondo e tramandare ai posteri, in un dialogo costante con il mondo classico. Ciò non significa un distanziamento dalla realtà, bensì l’incarnazione di una postura, di una persona, che è l’autore. La letteratura in generale, non solo la poesia, manifesta questa persona nella sua concretezza storica, al contempo mostrando (denunciando) i codici previsti dal sistema in cui è inserita (la società e il sistema letterario) e riflettendo (criticamente) su di essi, come aveva capito Greenblatt.
Su quali filoni tematici si è maggiormente soffermata nella Sua ricerca?
Nella mia ricerca mi sono soffermata principalmente su tre filoni, corrispondenti alle tre sezioni principali del libro: il poeta nella società e di fronte alla storia, le strategie dell’encomio e la riscoperta dei generi antichi, la vena sensuale e il tema erotico. Nel primo caso ho cercato di mostrare in che modo l’autorappresentazione dei poeti nei loro libri di poesia fosse un modo di presentarsi nella società dell’epoca, definendo la propria posizione rispetto al potere e la propria vocazione lirica, nel quadro della riflessione su otium e negotium che occupa tutto il pensiero rinascimentale, e in relazione al problema del mecenatismo e delle richieste, implicite ed esplicite, dei signori, che confliggevano con le inclinazioni personali. Tale indagine mi ha permesso altresì di portare alla luce il legame spesso dialettico tra lirica amorosa e lirica politico-encomiastica, che ha le sue radici in un momento storico di crisi. Nella seconda parte mi sono concentrata sulla riscoperta di alcuni generi precipui della lirica politica ed encomiastica antica che acquisiscono nuova vitalità tra fine Quattrocento e Cinquecento in linea con i programmi propagandistici e le modalità di rappresentazione del potere del tempo. Lo studio dei modelli impiegati nei testi in parallelo a quanto avviene nelle manifestazioni pubbliche (cerimonie, archi trionfali e apparati decorativi, dipinti e statue, monete, etc.), secondo i contesti geo-politici e le loro autorità – l’indagine sui papati è stata particolarmente produttiva in questo senso –, ha fatto emergere tanto i progetti comuni tra politica, arte e lettere, quanto le individualità poetiche e le peculiarità delle singole situazioni. Infine nella terza sezione ho affrontato le diverse declinazioni del tema erotico e la presenza di una vena sensuale nelle opere artistiche e poetiche rinascimentali, mostrando il loro significato nel contesto culturale del Rinascimento, le strategie che resero possibile la loro immissione nelle opere a seconda della destinazione e il rapporto stretto con l’esperienza classica, non di rado mediata da quella quattrocentesca, in particolare di Giovanni Pontano. Anche in tal caso l’inquadramento della questione nel dibattito su armi e lettere, l’analisi dei programmi iconografici degli studioli e delle residenze dei signori (che ospitavano questo tipo di opere) e delle pratiche di collezionismo, nonché la comprensione dei concetti di virilità e di virtù, hanno consentito dapprima una comprensione puntuale dei singoli testi e parimenti delle caratteristiche stilistiche degli autori, poi una definizione di alcune linee poetiche chiare attraverso il tempo e la geografia.
Quali autori hanno costituito il corpus di riferimento del Suo studio?
Il mio studio è partito dall’analisi sistematica di un corpus di autori ritenuti fondamentali e rappresentativi della lirica cinquecentesca: Iacopo Sannazaro, Pietro Bembo, Ludovico Ariosto, Giovanni Guidiccioni, Francesco Maria Molza, Anton Francesco Raineri, Giovanni Della Casa. Nel gruppo mancano gli autori che forse qualsiasi lettore di poesia cinquecentesca si sarebbe aspettato: i classicisti Bernardo Tasso, Luigi Alamanni e Giangiorgio Trissino (o ancora Annibal Caro, Benedetto Varchi). La scelta è stata determinata dalla volontà di cercare e comprendere il rapporto con i classici non dove siamo già certi che sia presente, ma dove non ce lo aspetteremmo o è meno scontato, a partire dalle rime di Bembo, che quasi sempre sono state lette solo attraverso la chiave petrarchesca. Un’altra esclusione, oltre a quella degli autori dichiaratamente classicisti e già studiati, è quella delle poetesse, nelle cui rime effettivamente le allusioni ai classici non sono per niente frequenti: in questo caso la ragione va ricercata proprio in una delle ipotesi di fondo che hanno mosso la ricerca e che si sono confermate corrette, vale a dire il fatto che il legame con il classicismo sia imputabile in buona parte all’identificazione di un’analogia tra le condizioni sociali e storico-politico degli scrittori nelle due epoche. Le donne, naturalmente, ricoprivano una posizione ben diversa nella società rinascimentale e, pur scrivendo talvolta, non erano quasi mai impiegate ufficialmente nelle corti e dai signori. Infine, va detto che al corpus di base, per il quale ho compiuto una ricerca approfondita di tutte le fonti, ho affiancato un ampio gruppo di autori (compresi quelli classicisti appena menzionati) per il quale ho condotto letture integrali ma non schedature complete delle allusioni ai classici (Tebaldeo, Castiglione, Cappello, Navagero, Muzio, Capilupi, Camillo, Tolomei, etc.).
Amelia Juri è maître assistante nella sezione d’Italiano dell’Università di Losanna. Ha pubblicato numerosi contributi su Pietro Bembo, tra cui due monografie (uno studio stilistico e un commento delle Stanze), e sulla lirica tra Quattro e Cinquecento, in parallelo a vari saggi dedicati a diversi momenti della tradizione tra Quattro- e Novecento, con affondi su figure quali Sannazaro, Bembo, Della Casa, Parini, Caproni.