
Lorenzo de’ Medici (1449 – 1492) è stato tra i più affezionati e acuti lettori di Dante, con il quale ha colloquiato ininterrottamente lungo tutto l’arco della sua produzione letteraria. Un solo esempio macroscopico: il nostro autore – in diversi componimenti – adotta il metro eminentemente dantesco della terza rima. Naturalmente, una simile iniziativa implica il tempestivo riconoscimento del patronato letterario dell’Alighieri. Inoltre, la conoscenza da parte di Lorenzo dell’opera dantesca non si limita al poema sacro, l’opus magnum, ma si estende a tutta la produzione anteriore, quella delle Rime e la Vita Nova. Dante è stato così la stella polare del Magnifico, che lo ha orientato nella navigazione attraverso il gran mare della poesia.
In che modo gli interessi danteschi rivelano la presenza, nella poesia di Lorenzo, di coordinate ideologiche di grande valore storiografico?
Il recupero Dantesco di Lorenzo è fortemente sostenuto da una sorta di revanche fiorentinistica. L’obiettivo è quello di rivendicare il punto più alto della traditio volgare – rappresentato dalla Commedia – per consolidare la preminenza culturale e quindi politica della città di Firenze all’interno della penisola italiana. Il primato letterario diventa così la premessa di un primato di ordine territoriale. Dirò di più: il recupero di Dante in chiave identitaria promosso da Lorenzo rappresenta un capitolo decisivo nella storia plurisecolare dei rapporti complicati intercorsi tra la città di Firenze e il suo più illustre figlio.
L’esilio che il poeta subì da parte dei suoi concittadini rappresentò una ferita che non si è mai rimarginata, uno scandalo che rinnova la crocifissione di Cristo e la condanna a morte di Socrate. Il primo biografo del sommo poeta e primo tempestivo pontefice del culto dantesco, Giovanni Boccaccio (1313 – 1375) nella sua Vita Dantis, tuonò violentemente contro la città gigliata, colpevole di aver cacciato via il suo cittadino più meritevole di stima e riconoscimenti.
Egli istituì inoltre – sempre nelle pagine del suo Trattatello in laude di Dante, una polarità oppositiva, destinata a enorme fortuna: da una parte c’è la matrigna Firenze, ingrata e persecutoria; dall’altra Ravenna, mamma adottiva e orgogliosa di ospitare un orfano tanto illustre. Firenze, purtroppo, si ravvederà troppo tardi, e per un contrappasso degno di quelli della Commedia, il suo desiderio di riabbracciare Dante rimarrà perennemente frustrato (è una questione su cui si è tornato a discutere, sopratutto in occasione del settecentenario della morte).
Nel solco di questa vicenda plurisecolare, si inserisce dunque il lavoro di Lorenzo de’ Medici, il quale si mosse con decisione in direzione di un recupero e un di un rilancio di Dante, funzionale a una strategia autopromozionale ad ampio raggio.
In quali opere laurenziane la presenza di Dante risalta con particolare evidenza?
Il riverbero della memoria Dantesca caratterizza tutta la produzione poetica di Lorenzo.
Nel mio libro ho studiato le opere maggiori del Magnifico e ho cercato di censire i loci Dantis, ossia i punti di contatto intertestuale con la Commedia, secondo un metodo di intertestualità contrastiva. Il confronto diretto e esclusivo tra i due autori, delimitato a precise porzioni di testo, mi ha consentito di mettere a fuoco alcune istanze paradigmatiche di portata generale, Ho tentato di spingere oltre l’analisi, misurando i giochi di adesione o di presa di distanza messi in atto e impliciti al momento dell’emersione di una probabile memoria delle opere dantesche. Il sondaggio intertestuale ha dato frutti cospicui, e mi ha permesso di rileggere l’opera laurenziana sub specie Dantis.
Vorrei presentare brevemente un’opera giovanile di Lorenzo, nella quale la memoria dantesca prorompe con vivacità eccezionale, ossia il poemetto incompiuto in terza rima intitolato I beoni (o Il Simposio) dedicato a una rassegna dei principali ubriaconi della città di Firenze. L’opera apparve a un lettore novecentesco – G. Folena – come «una galleria di caricature, incise con la punta acuta e spesso greve di un realista che ha un fondo un po’ torbido da moralista».
Quello che muove l’autore nella scrittura è una intentio parodica nei confronti della Divina Commedia: al viaggio di Dante, mosso dall’amor divino, subentra un viaggio di segno opposto, spinto dall’amor di – vino! Il capovolgimento ironico dei versi danteschi è programmatico e costante. Un solo riscontro, di altissimo valore emblematico: a un certo punto entra in scena un personaggio descritto in questo modo: «un che per troppo bere era già fioco». Basta un minimo di familiarità con il primo canto dell’Inferno per registrare il capovolgimento giocoso della fonte, ossia dell’endecasillabo che descrive l’epifania di Virgilio: «chi per troppo silenzio parea fioco» (Inf. I, 63).
Tutta l’opera è disseminata di segnali testuali del medesimo tenore, che ho provveduto a repertoriare e a commentare nelle mie pagine. Credo che questo sia un versante molto interessante del dantismo di Lorenzo, il quale si diverte a saccheggiare il sommo Poeta e a riscriverlo in una chiave ironica.
Quale ruolo rivestono la poesia e la riflessione laurenziana nell’ambito della rimeditazione neoplatonica della Commedia dantesca?
Noi abbiamo imparato da Marcel Proust (1871 – 1922) che ogni lettore è lettore di sé stesso.
Questa proposizione vale per i singoli individui come per le epoche storiche. Il futuro modifica il passato e ogni età rilegge i classici antichi sulla base della propria sensibilità. Ho fatto questa premessa per riconquistare una banalità: Il Dante di epoca umanistica non è uguale al Dante di epoca romantica o post – romantica. Nel contesto della corte laurenziana, la ricezione della Commedia è fortemente condizionata dal neoplatonismo di Marsilio Ficino (1433 – 1499) il quale, su invito del nonno di Lorenzo – Cosimo – aveva tradotto e riconsegnato a Firenze e all’Europa il corpus platonico e neoplatonico. Questa rilettura in chiave ficiniana della Commedia implica che – per esempio – i grandi patterns narrativi della selva e del viaggio vengano interpretati in senso neoplatonico: la selva è il luogo dell’esilio, la regio dissimilitudinis di agostiniana memoria.
Questi temi emergono nel poemetto Altercazione, incentrato su un dialogo tra Lorenzo e il suo inclitus praeceptor Marsilio Ficino, impegnati a stabilire – attraverso un dialogo socratico in versi, in che cosa consista per l’uomo il sommo bene.
Nel crocevia del dibattito filosofico portato avanti nella seconda metà del Quattrocento, a partire dal Commento al Philebo fino alla Theologia platonica, passando attraverso le Disputationes landiniane e l’Altercazione di Lorenzo, la Commedia entra dunque come il massimo testo etico, lirico – sapienziale dell’età moderna, capace di offrire le coordinate in base alle quali orientare le nuove inchieste filosofiche: la narratio dantesca che scandisce il viaggio dell’everyman dalla selva all’empireo – sostenuto dalle ali platoniche del disio e del velle (tali appaiono i topoi danteschi in base ai più recenti stilemi ricettivi, di qualità fortemente allegoristica, affinati nell’esegesi landiniana al poema sacro) è così riletto e rimeditato come il più grande e insuperato romanzo neoplatonico in versi, che che adombra – attraverso una fitta rete di velamina e integumenta – la storia dell’esilio dell’uomo sulla terra e del suo riscatto.
Dario Pisano (Roma, 1986), insegnante di Lettere nei Licei, ha pubblicato i seguenti volumi: Dante nella poesia di Lorenzo de’ Medici (Libreriauniversitaria, 2016); Nel cammin di nostra vita (Mimesis, 2017); La Firenze segreta di Dante (Newton Compton, 2017). Tiene numerose conferenze su Dante in scuole, università e istituzioni culturali. Ha collaborato con la Rai alla realizzazione di programmi (Maratona Infernale, La Montagna Infinita) dedicati alla divulgazione della poesia dantesca.